Il processo di privatizzazione del sistema bancario italiano e la nascita delle fondazioni bancarie
Da sempre le fondazioni di origine bancaria sono state un istituto poco chiaro, seppur siano enti di elevata risonanza sociale per le numerose vicende che le vedono protagoniste. Ciò si è verificato in quanto le numerose leggi, di diversa ispirazione, hanno reso tali categorie di enti una figura alquanto ambigua e poco trasparente.
Per poter fare una riflessione sulla natura giuridica delle fondazioni bancarie, è utile compiere una disamina sull’evoluzione normativa che riguarda i suddetti enti.
Le attuali fondazioni bancarie, soggetti non profit, privati ed autonomi, hanno origine dalle antiche casse di risparmio nate nell’Europa centrale ed affermatesi in Italia nei primi anni del XIX secolo.
La Legge n. 218 del 1990 “Legge Amato” e il Decreto legislativo n. 356 del 1990 aprirono la prima fase di privatizzazione del settore bancario.
Con la c.d. “Legge Amato - Carli”, il legislatore italiano, ha cercato di adeguare il sistema bancario italiano alla sfida della concorrenza europea.
Per perseguire tale riorganizzazione del sistema creditizio italiano si proposero due operazioni:
- la trasformazione diretta in società per azioni, che interessava gli enti creditizi pubblici il cui ente originario aveva natura associativa (e quindi dei proprietari);
- il conferimento dell’azienda bancaria in una società per azioni già esistente o di nuova nascita, che invece interessava gli enti creditizi pubblici il cui ente originario aveva struttura di fondazione (e quindi assenza di proprietari), senza estinzione dell’ente conferente.
Nel primo caso, il capitale veniva suddiviso in azioni e veniva dato in proprietà ai partecipanti dell’originario ente pubblico, nel secondo caso, invece, la mancanza di un soggetto cui attribuire la proprietà dell’ente fu risolto assegnando la proprietà proprio all’ente conferente, il quale aveva, quindi, il compito di gestire il patrimonio della nuova impresa bancaria.
Tuttavia, si stabilì parallelamente, che gli utili conseguiti dalla gestione della nuova banca S.p.A., e attribuiti ai proprietari sotto forma di dividendi, dovevano essere reinvestiti in attività filantropiche e di finalità sociali, di modo da rispettare la vera natura e gli obbiettivi per cui gli enti conferenti erano nati.
La società conferitaria avrebbe potuto aprirsi al mercato di capitali anche grazie a fusioni o aggregazioni con altri istituti di credito, per raggiungere le dimensioni atte a fronteggiare la concorrenza di altri istituti di credito internazionali.
È da sottolineare che la legge non impose la trasformazione, sia diretta che indiretta, ma la rese facoltativa, anche se conveniva, sia perché erano previsti incentivi fiscali per chi la compiesse, al fine di rendere meno onerose tali operazioni di ristrutturazione, trasformazione e fusione bancaria, sia perché l’ente conferente avrebbe mantenuto il controllo e la gestione della banca.
Per quanto riguarda la natura giuridica degli enti conferenti, la Legge non era stata molto chiara, anzi si può affermare di essere stata abbastanza lacunosa e confusionaria. Il legislatore aveva apportato parecchia ambiguità all’interno del panorama italiano. La maggior parte degli enti conferenti era nata su iniziativa di privati ed operava grazie a mezzi finanziari privati, tuttavia la loro autonomia nell’operare (e non solo) fu ridotta bruscamente a causa dell’intervento pubblico.
L’attività creditizia era svolta solo in maniera indiretta, visto che la Legge prevedeva l’amministrazione della partecipazione di competenza nella società conferitaria ma, parallelamente, vietava l’esercizio diretto dell’attività bancaria e prevedeva il divieto di possedere partecipazioni di controllo nel capitale sociale di altre imprese bancarie, diverse dalla conferitaria.
Erano previsti, inoltre, dalla Legge anche le modalità di reinvestimento e quindi di diversificazione del rischio, da parte degli enti conferenti, dei proventi straordinari che riuscivano a fruttare dal controllo delle suddette partecipazioni. Tali proventi dovevano obbligatoriamente essere destinati al perseguimento di fini sociali e culturali della zona geografica di riferimento. Tali enti furono, infatti, sottoposti alla vigilanza del Ministero del Tesoro e non a quella della Banca d’Italia, alla quale, tuttavia, doveva essere garantita un’informativa periodica da parte di tutti gli enti conferenti operanti sul territorio italiano.
In tal senso, le fondazioni acquisirono maggiore rilevanza all’interno dei territori in cui operavano, divenendo enti di supporto delle istituzioni pubbliche per il perseguimento dello sviluppo sociale, culturale, scientifico, artistico e della sanità dell’intera comunità locale, ma erano enti la cui natura non era più ben nota e questo sarà la causa di tutti i problemi del decennio successivo.
È evidente, quindi, che il sistema bancario italiano non ricevette, come in realtà era l’intento di questa Legge, quella spinta verso la privatizzazione. Il quadro legislativo italiano andò, pertanto, via via perfezionandosi gli anni a venire
Maggiore chiarezza si ebbe con il Decreto del Ministro del Tesoro del 18 Novembre 1994 (c.d. “Direttiva Dini”), emanata in attuazione della L. 474 del 30 Luglio 1994. Lo scopo, perseguito da questa Direttiva, era quello di far dismettere le partecipazioni di controllo che gli enti conferenti avevano nelle aziende bancarie conferitarie, di modo da diversificare il rischio di investimento ed essere, quindi, più efficienti e proficue nei settori sociali cui operavano. In particolare, la Direttiva, all’articolo 2, prevedeva che, nell’arco di 5 anni, doveva avvenire tale diversificazione del rischio e le fondazioni dovevano dismettere le loro partecipazioni dalle imprese bancarie conferitarie, mantenendo un massimo del 50% del proprio patrimonio all’interno del capitale sociale della banca. Come contropartita, le plusvalenze, derivanti dalla dismissione, non erano oggetto di tassazione, neanche quelle cedute dopo i 5 anni prestabiliti. Tuttavia questa “promessa” legislativa non fu rispettata, andando così a discapito di tutte quelle fondazioni che avevano dismesso partecipazioni, rientrando nel limite di diversificazione del patrimonio richiesto.
Era chiaro che urgeva una riforma che definisse una volta per tutte la disciplina civilistica e fiscale di questi enti.
Si andò verso questa direzione con la Legge delega 31 Dicembre 1998 n. 461 “c.d. Legge Ciampi”
Ciampi aveva intuito che il sistema bancario andava ristrutturato poiché ancora lontano dagli standard europei e ciò era possibile solamente emancipando definitivamente le fondazioni dagli istituti di credito, riordinando con chiarezza la disciplina civilistica e fiscale inerente alle fondazioni di origine bancaria.
Occorreva, quindi, separare definitivamente fondazioni da istituti di credito, di modo che le partecipazioni bancarie passavano esclusivamente in mani private, facendo avvenire la c.d. privatizzazione sostanziale, cosa che sino ad adesso non era avvenuta, nemmeno con la Legge Amato che aveva garantito solamente una privatizzazione formale del sistema bancario.
È doveroso prendere atto del fatto che la trasformazione innestata con la Legge Ciampi ha avuto difficoltà a svilupparsi in Italia e quindi non è stata portata a termine.
Questo, a mio avviso, si è verificato per due motivazioni: in primis, perché il disegno di legge proposto non aveva terreno fertile sul quale potersi sviluppare, l’Italia era in quel periodo una “foresta pietrificata” dove attuare una trasformazione simile era davvero difficile; e poi perché erano le fondazioni stesse ad essere restie a recedere i propri rapporti con le banche, in quanto una diversificazione del rischio e investimenti dei proventi derivanti dalla dismissione delle partecipazioni non avrebbero garantito una redditività di pari valore economico.
Intervenne, successivamente, la Legge finanziaria 2002, L. 28 Dicembre 2001 n. 448 (c.d. riforma Tremonti).
Tale provvedimento è andato in netta controtendenza con la Legge Ciampi, modificando i principi introdotti da quest’ultima in materia di “settori di intervento” e “composizione degli organi di indirizzo”.
Come visto in precedenza, con la Legge Ciampi, le fondazioni erano tenute ad agire, al fine del perseguimento del proprio scopo filantropico e sociale, in almeno un “settore rilevante” (che erano indicati all’interno della stessa legge) che poteva esser scelto liberamente; ora, invece, con l’emendamento Tremonti, precisamente all’articolo 11 comma 1, viene introdotto il concetto di “settori ammessi”, che rappresentano l’area all’interno della quale le fondazioni dovrebbero operare, e vengono ridefiniti i “settori rilevanti” rispetto alla Legge Ciampi. In più, viene stabilito che i settori rilevanti diventino settori di attività prevalente, che venivano scelti ogni tre anni dall’Organo di indirizzo delle fondazioni all’interno dell’area dei settori ammessi35. Tutto ciò va palesemente contro i principi di autonomia e indipendenza delle fondazioni promossi, invece, con la Legge Ciampi.
Per quanto riguarda la composizione dell’Organo di indirizzo, precedentemente all’emendamento Tremonti, era prevista una presenza adeguata e qualificata di esponenti del territorio, in particolari degli enti locali, all’interno dell’Organo; successivamente, con la riforma Tremonti, le fondazioni furono obbligate ad inserire all’interno del suddetto Organo una prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato. Anche quì, si può notare chiaramente come l’intento del legislatore fosse quello di “dirigere” le fondazioni verso un orientamento dove il settore pubblico faceva da padrone su enti che, precedentemente, con la Legge Ciampi, erano stati definiti come persone giuridiche di diritto privato.
È inevitabile che si venne a creare confusione e tensione all’interno del panorama socio-economico italiano, tanto da spingere sia l’ACRI (Associazione di fondazioni e di Casse di Risparmio) e diverse fondazioni bancarie ad agire con ricorso al TAR contro la nuova legge.
I suddetti ricorsi finirono in Corte Costituzionale, la quale si espresse con due sentenze (la n. 300 e la n. 301), facendo chiarezza in maniera definitiva.
Con la sentenza n. 300 del 29 Settembre 2003, la Corte ha dichiarato le fondazioni persone giuridiche di diritto privato senza fini di lucro che, ai sensi del codice civile, godono di piena autonomia statutaria e gestionale e perseguono scopi sociali e di sviluppo economico.
Con la sentenza, invece, n. 301 del 29 Settembre 2003, la Corte ha sancito l’incostituzionalità dell’articolo 11 comma 4 della riforma Tremonti, che trattava la riorganizzazione dell’Organo di indirizzo, imponendo alle fondazioni una partecipazione di maggioranza degli enti, diversi dallo Stato, all’interno del suddetto Organo. Inoltre, la medesima sentenza ha dichiarato illegittimo il comma 1 dello stesso articolo 11, che dichiarava la possibilità, da parte dell’Autorità di vigilanza, di modificare i settori dove le fondazioni potevano operare. Infine, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale, e quindi illegittimo, il potere assegnato all’Autorità di vigilanza, ai sensi dell’articolo 10 comma 3, di emanare atti vincolanti di indirizzo verso le fondazioni in quanto si tratterebbe di un potere estensivo di controllo su soggetti che sono di natura privata3.
Di fatto, dell’emendamento Tremonti, a seguito del giudizio della Corte Costituzionale, rimaneva ben poco e finalmente la questione riguardo la natura giuridica e civilistica delle fondazioni bancarie è stata risolta a favore dell’orientamento privato delle stesse.