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Lex gravior in tema di espiazione della pena. La soluzione mediana della Corte Costituzionale

espiazione della pena
espiazione della pena

Abstract:

L’estensione del regime ostativo di cui all’articolo 4 bis ord.pen. a taluni delitti contro la Pubblica Amministrazione ha posto il problema della disciplina intertemporale di quelle modifiche peggiorative del trattamento sanzionatorio. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 32/2020, ha risolto la questione dichiarando l’irretroattività della lex gravior in grado di determinare un mutamento qualitativo della sanzione già inflitta. Tale soluzione di compromesso, in un’ottica di eccezione a regola, riesce così a contemperare i due previgenti orientamenti sorti in tema.

 

Indice:

1. Introduzione. I delitti contro la Pubblica Amministrazione

2. Le riforme del Titolo II del Codice Rocco

3. L’articolo 4 bis ord.pen. e la presunzione di pericolosità sociale

4. L’estensione del regime ostativo ai reati contro la Pubblica Amministrazione. Il regime intertemporale

5. La soluzione di compromesso della Corte Costituzionale

 

1. Introduzione. I delitti contro la Pubblica Amministrazione

I delitti contro la Pubblica Amministrazione, disciplinati al Titolo II del Codice Rocco, costituiscono una particolare tipologia di reati previsti e perseguiti dall’ordinamento penale italiano in quanto attentato all’intera organizzazione dello Stato, preposta all’esercizio non solo della funzione amministrativa, ma anche di quella legislativa ed esecutiva.

I principi costituzionali presidiati dalle disposizioni del predetto Titolo, che ne costituiscono al contempo beni giuridici tutelati, possono essere individuati nell’imparzialità e nel buon andamento della Pubblica Amministrazione. Questi, trovando presidio normativo nell’articolo 97 della Costituzione, si esplicano nell’esigenza che la condotta dei funzionari della stessa Pubblica Amministrazione sia indirizzata alla realizzazione di interessi e finalità pubbliche, in assenza di un qualsiasi vantaggio di natura privata e personale.

Pertanto, l’obiettivo ultimo perseguito dal legislatore con la penalizzazione di tali reati è individuabile nel corretto e regolare svolgimento dell’attività amministrativa in vista del perseguimento di fini pubblici, attribuiti dalla legge, mediante una comparazione esclusivamente oggettiva degli interessi contrapposti.

Si tratta, per lo più, di reati propri in quanto perfezionabili solo attraverso la condotta di soggetti che rivestono particolari qualifiche pubblicistiche. Il Codice individua tre diversi soggetti attivi: il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio e l’esercente un servizio di pubblica necessità che, nell’esercizio o a causa della funzione svolta ovvero con abuso della stessa, pongono in essere le condotte costituenti reato.

 

2. Le riforme del Titolo II del Codice Rocco

Tale complesso codicistico, fin dai primi anni Novanta, è stato interessato da svariate riforme normative quali la L. 86/1990, L. 181/1992 e L. 234/1997, ciascuna volta a definire i confini di specifiche disposizioni, nonché da interventi di ridefinizione dell’intero sistema dei reati come quelli di cui alla L. 190/2012 e alla L. 69/2015.

Di recente, la materia è stata nuovamente interessata da una riforma organica che ha apportato modifiche significative alla disciplina del Titolo II: la L. 3/2019, anche conosciuta come “Legge Spazzacorrotti”.

Questa si è occupata, in particolare, dell’abrogazione del reato di millantato credito, successivamente ricondotto alla limitrofa figura del traffico di influenze illecite (articolo 346 bis codice penale, introdotto dalla predetta riforma del 2012). Conseguentemente, tale ridefinizione del reato di cui al previgente articolo 346 codice penale ha comportato l’estensione della punibilità anche a colui che, in precedenza soltanto persona offesa del reato, indebitamente dà o promette denaro o altra utilità, ai sensi del secondo comma dell’articolo 346 bis codice penale.

Nondimeno tale novella, pur essendo caratterizzata da un generale inasprimento delle sanzioni, sia principali che accessorie, all’articolo 323 ter codice penale prevede una causa di non punibilità in senso stretto consistente nell’autodenuncia volontaria da parte dell’autore di taluni determinati reati. Tuttavia, tale disposizione circoscrive temporalmente l’istituto prevedendo un termine generale di quattro mesi dalla commissione del fatto corruttivo, sempre che il soggetto non abbia già avuto notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati.

Da ultimo, la riforma qui in esame ha inserito alcuni dei reati più odiosi commessi ai danni della Pubblica Amministrazione tra i reati di cui all’articolo 4 bis della L. 354/1975 sull’ordinamento penitenziario. Si tratta, nello specifico, dei delitti di concussione e delle variegate ipotesi di corruzione, finanche nella forma dell’istigazione, in quanto considerate condotte insidiose e seriali, in grado di alimentare i mercati illeciti e di distorcere la normale concorrenza.

Il legislatore dell’ultima riforma, tuttavia, diversamente da quanto avvenuto in precedenza, nulla ha disposto in merito al regime transitorio delle disposizioni creando, tale lacuna, non pochi problemi di coordinamento con l’intero previgente complesso normativo.

 

3. L’articolo 4 bis ord.pen. e la presunzione di pericolosità sociale

L’articolo 4 bis ord.pen. prevede il divieto di concessione dei benefici penitenziari a vantaggio dei condannati per talune categorie di reati espressamente indicati dalla lettera dell’articolo in questione.

Nello specifico, la disposizione prevede che in assenza di collaborazione con la giustizia, il detenuto verrà sottoposto a tutta una serie di limitazioni e restrizioni rispetto all’espiazione della propria pena. In particolare, sono previste limitazioni quanto alla concessione di benefici penitenziari; restrizioni nella concessione di misure alternative alla detenzione nonché all’ammissione alla liberazione condizionale. Ulteriore limite processuale è individuabile altresì nell’impossibilità di ottenere la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena ai sensi dell’articolo 656 codice procedura penale.

Tale rigido regime ostativo trovava fondamento e giustificazione nell’ambito della cosiddetta legislazione d’emergenza che caratterizzò l’ordinamento italiano nei primi anni Novanta.

L’articolo di cui si discute venne, infatti, inserito all’interno della legge sull’ordinamento penitenziario dal D.L. 152/1991 al fine di far fronte ad una delle più oscure piaghe della società del tempo: la criminalità organizzata. All’indomani della strage di Capaci, tale regime venne ulteriormente inasprito dal D.L. 306/1992 mediante la previsione del divieto totale di concessione dei benefici in assenza di collaborazione con la giustizia. La mancata collaborazione veniva quindi a fondare il presupposto di una presunzione assoluta di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata: trattandosi, infatti, di reato permanente, la mancata divulgazione di elementi idonei al perseguimento dell’associazione rendeva provata la continuata appartenenza del detenuto al sodalizio criminoso.

Tuttavia, seppur sia la Corte Costituzionale sia la Corte di Cassazione più volte, nel corso degli anni, siano intervenute in tema di benefici penitenziari, facendo sempre salvo il disposto dell’articolo 4 bis ord.pen, le limitazioni ivi previste non possono che essere considerate oggi in evidente frizione con la funzione prima della pena, volta alla rieducazione ed alla risocializzazione del condannato in vista del suo reinserimento all’interno della società civile.

Ed infatti, la Corte EDU, nella causa Viola contro Italia, 2019, a tal proposito ha affermato che una siffatta presunzione iuris et de iure, non ammettendo alcuna prova contraria, debba ritenersi in contrasto con il principio di dignità umana di cui all’articolo 3 della Convenzione EDU. Non necessariamente, infatti, l’assenza di collaborazione con la giustizia è elemento di pericolosità sociale del detenuto ben potendo, tale mancanza, essere motivata dal timore di mettere in pericolo la vita propria e dei propri affetti.

Da ultimo, anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 253/2019, si è nuovamente pronunciata sulla questione affermando che il carattere assoluto della presunzione di pericolosità sociale del detenuto non collaborante contrasta con la finalità rieducativa di cui agli articoli 3 e 27, co. 3, Cost.. Pertanto, il detenuto che richiede l’ammissione ai benefici penitenziari avrà l’onere di allegare congrui e specifici elementi che escludano non solo la permanenza dello stesso all’interno dell’associazione ma anche qualsiasi probabile e possibile pericolo di ripristino futuro dei collegamenti. Così disponendo, la Consulta ha ridisegnato in termini relativi la presunzione a fondamento del divieto di cui all’articolo 4 bis ord.pen..

 

4. L’estensione del regime ostativo ai reati contro la Pubblica Amministrazione. Il regime intertemporale

Una delle problematiche sollevate in seguito all’inserimento di taluni delitti contro la Pubblica Amministrazione nel catalogo dei reati ostativi di cui all’articolo 4 bis ord.pen. riguarda proprio il regime intertemporale.

In occasione dei precedenti interventi di riforma, il legislatore si era sempre dimostrato attento nel disciplinare i profili intertemporali degli stessi, escludendo l’applicabilità retroattiva del regime peggiorativo ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma stessa. Tuttavia, un’analoga disposizione transitoria non è presente nella L. 3/2019 e pertanto, in seguito alla novella, si è aperta la questione relativa al regime esecutivo applicabile proprio ai fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore.

Due gli orientamenti che si sono registrati in materia.

Secondo un primo indirizzo, prevalente in giurisprudenza, le norme relative alla disciplina dell’esecuzione penale, rientrando nella categoria delle norme di natura processuale, risultano insuscettibili di applicazione del principio di irretroattività, il quale opererebbe solo per le norme di natura sostanziale.

Tale posizione è stata poi sostenuta anche dalle Sezioni Unite, le quali hanno affermato che, trattandosi di norme estranee all’accertamento del reato e all’irrogazione della pena, queste rientrerebbero tra le disposizioni di natura processuale, soggette pertanto al principio tempus regit actum. Pertanto, la nuova disciplina dell’articolo 4 bis ord.pen., sebbene peggiorativa delle previgenti modalità esecutive della pena, deve trovare applicazione (retroattivamente) anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore.

Di converso, un secondo orientamento sostenuto dalla Corte EDU professava la natura sostanziale delle disposizioni in esame: nella famosa sentenza della Grande Camera, Del Rio Prada contro Spagna, 2013, la Corte ha affermato che le disposizioni aventi incidenza afflittiva sul trattamento sanzionatorio dei condannati devono essere ritenute pene in senso sostanziale. Di conseguenza, tali norme risulterebbero subordinate al principio di irretroattività di cui agli articoli 25, co. 2 Cost. e 2 codice penale.

 

5. La soluzione di compromesso della Corte Costituzionale

Di recente, la Corte Costituzionale è intervenuta, con la sentenza n. 32/2020, a dipanare la questione mediante l’adozione di una soluzione mediana.

La Consulta, infatti, nell’aderire all’impostazione prevalente, afferma che le disposizioni di cui all’articolo 4 bis ord.pen. non possono che rientrare nel novero delle norme di natura processuale, occupandosi queste esclusivamente delle modalità di espiazione della pena.

Tuttavia, pur rimanendo valida, in forza del principio tempus regit actum, la regola generale della retroattività della norma sopravvenuta, questa trova un’eccezione nel caso in cui il trattamento peggiorativo ivi disposto incida sostanzialmente sul previgente trattamento sanzionatorio, rendendo la pena di un genere diverso rispetto a quella che il detenuto sta già scontando. In tali circostanze, secondo la Consulta, le modifiche che determinano un mutamento qualitativo della sanzione inflitta non possono trovare applicazione retroattiva, trattandosi a tutti gli effetti di lex gravior.

A sostegno della predetta conclusione, la Consulta ricorre a tre diversi argomenti. Con il primo, di natura legislativa, la Corte ricorda come ogniqualvolta il legislatore abbia introdotto modifiche peggiorative alle norme relative all’espiazione della pena, questo si sia anche preoccupato di escludere l’applicazione della nuova norma ai casi già giudicati.

Con il secondo argomento, di stampo europeista, la Consulta richiama la sentenza della Corte EDU Del Rio Prada contro Spagna, nella quale viene espressamente prevista l’irretroattività della lex gravior.

Infine, la Corte fa riferimento alla giurisprudenza costituzionale la quale, in passato, in relazione a siffatte modifiche peggiorative aveva dichiarato la violazione degli articoli 3 e 27, co. 3 Cost. in quanto lesive della funzione rieducativa della pena.

La Corte Costituzionale, con la sentenza citata, risolve quindi la questione mediante il ricorso ad una soluzione di compromesso, all’interno di una logica di eccezione a regola, al fine di evitare la frustrazione del principio di affidamento che costituisce nucleo fondamentale del principio di legalità convenzionale.