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L’inadempimento agli obblighi di un accordo di ristrutturazione a carattere “remissorio”: effetti sull’ammissione del credito al passivo

aurora (quasi) boreale
Ph. Giorgia Pavani / aurora (quasi) boreale

L’inadempimento agli obblighi di un accordo di ristrutturazione a carattere “remissorio”: effetti sull’ammissione del credito al passivo

 

Abstract: Nel caso in cui il debitore non abbia adempiuto agli obblighi derivati da un accordo di ristrutturazione a carattere remissorio, per effetto del quale il creditore abbia richiesto il pagamento soltanto di una parte del credito anziché dell’intero (remissione parziale del debito), il creditore dovrebbe ritenersi legittimato a richiedere che venga ammesso al passivo l’intero credito, e non solo la parte quantificata nel suddetto accordo.

Ciò in virtù degli artt. 57 e 64 comma 4 del D.lgs. n. 14 del 12.01.2019, nonché degli artt. 1970 e 1244 c.c. .

In the event that the debtor has not fulfilled the obligations deriving from a remissory restructuring agreement, as a result of which the creditor has requested payment of only a part of the credit rather than the whole (partial debt forgiveness), the creditor should consider itself entitled to request that the entire credit be admitted to the liabilities side, and not just the part quantified in the aforementioned agreement.

This is by virtue of the articles. 57 and 64 paragraph 4 of the Legislative Decree. n. 14 of 12.01.2019, as well as articles. 1970 and 1244 c.c. .

L’art. 61 del D.lgs. n. 14 del 12.01.2019, che disciplina gli “accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa” ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria alla quale appartiene il creditore stipulante l’accordo, al comma 3 stabilisce che questi ultimi possono proporre opposizione. Si potrebbe allora pensare ad una modifica della norma, nel senso di prevedere che, ove il debitore non adempia all’accordo, la richiesta del creditore stipulante di essere ammesso al passivo per “l’intero” credito non abbia effetto nei confronti dei creditori i quali avevano in precedenza manifestato la loro opposizione, mentre si mantenga efficace verso i creditori non opponenti.

The art. 61 of the Legislative Decree. n. 14 of 12.01.2019, which regulates "restructuring agreements with extended effectiveness" for non-member creditors who belong to the same category as the creditor signing the agreement, establishes in paragraph 3 that the latter can lodge an objection. One could then think of a modification of the rule, in the sense of providing that, if the debtor does not comply with the agreement, the request of the stipulating creditor to be admitted to the liabilities for the "entire" credit has no effect on the creditors who had previously expressed their opposition, while it remains effective towards non-opposing creditors.

Nel caso di inadempimento del debitore all’accordo di ristrutturazione, quest’ultimo dovrebbe considerarsi come “risolto di pieno diritto”, senza necessità che il creditore stipulante proponga un’apposita domanda giudiziale. Ciò in virtù degli artt. 63, 64 comma 4, 130 comma 1 e 154 del D.lgs. n. 14 del 12.01.2019

In the event of the debtor's failure to comply with the restructuring agreement, the latter should be considered as "terminated by right", without the need for the stipulating creditor to propose a specific judicial request. This is by virtue of the articles. 63, 64 paragraph 4, 130 paragraph 1 and 154 of the Legislative Decree. n. 14 of 12.01.2019

 

La Cassazione, Sezione Prima civile, con l’ordinanza interlocutoria n. 35519 del 19.12.2023, ha disposto la trattazione in pubblica udienza, vista la riconosciuta particolare rilevanza della materia, della causa avente ad oggetto le seguenti questioni:

se, nel caso in cui il debitore di una procedura concorsuale non adempia agli obblighi derivati dalla stipula di un accordo di ristrutturazione dei debiti a carattere remissorio, per effetto del quale il creditore abbia richiesto il pagamento di una parte del credito anziché dell’intero (remissione parziale del debito), il creditore stesso possa chiedere l’ammissione al passivo del solo credito (di minore entità) quantificato nell’accordo oppure di tutto quanto il credito originario (quale sussistente prima dell’accordo stesso);

se la declaratoria di fallimento (oggi “apertura della liquidazione giudiziale”), intervenuta successiva all’accordo di ristrutturazione del debito, determini automaticamente l’inefficacia di quest’ultimo, oppure se sia necessario che il creditore stipulante abbia proposto un’apposita domanda di risoluzione dell’accordo stesso per inadempimento.

In merito alla prima questione

A seguito dell’accordo di ristrutturazione a carattere “remissorio”, il creditore, anziché richiedere il pagamento dell’intero debito, chiede il pagamento soltanto di una parte.

Il Tribunale aveva evidenziato che la dichiarazione di fallimento (oggi “apertura della liquidazione giudiziale”) successiva all’omologazione dell’accordo, anche se determina l’impossibilità di esecuzione del piano di ristrutturazione, non comporta automaticamente lo scioglimento di tutti i contratti conclusi per l’attuazione del piano; esso faceva rilevare che l’accordo non era stato risolto nè per inadempimento né per impossibilità sopravvenuta, e che pertanto il suo contenuto remissorio si doveva considerare come ancora vincolante tra le parti; pertanto, stabiliva che il credito dovesse essere ammesso al passivo non per l’intero, ma per la minor somma che era stata quantificata nell’accordo.

Il creditore proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo che, siccome la dichiarazione di fallimento (oggi “apertura della liquidazione giudiziale”) determina l’impossibilità di eseguire l’accordo, il credito avrebbe dovuto essere ammesso al passivo per l’intero, non avendo senso sostenere la persistente efficacia del contenuto remissorio del medesimo, e ciò, appunto, in quanto la suddetta dichiarazione comporta il venir meno di quella che è “la causa”, ossia la funzione economico – sociale, dell’accordo. Lo stesso creditore, inoltre, segnalava anche la non coerenza della tesi del curatore: se l’accordo è ancora efficace, allora non ha senso che il credito venga ammesso al passivo, perché tanto comunque il medesimo dovrebbe essere pagato “in moneta sonante”, ossia separatamente dagli altri crediti, proprio in virtù di tale persistente efficacia.

La tesi del creditore si basa sul principio in base al quale la dichiarazione di fallimento (oggi “apertura della liquidazione giudiziale”), siccome sancisce la sostanziale inidoneità dell’accordo a soddisfare le ragioni di credito, comporta automaticamente la risoluzione dell’accordo stesso per inadempimento, e quindi ricolloca il creditore nella posizione di colui che deve essere soddisfatto “per l’intero credito”, a nulla rilevando il fatto che l’accordo fosse remissorio, ossia avesse la sostanza di una remissione parziale del debito.

Sul punto, si osserva quanto segue.

L’accordo di ristrutturazione è uno strumento con il quale il debitore si impegna a soddisfare il creditore senza per questo venire dichiarato fallito (oggi, “senza che si apra la liquidazione giudiziale”) e testimonia quindi la volontà del medesimo di soddisfare il creditore separatamente dagli altri creditori: infatti, se fosse aperta la liquidazione giudiziale, il creditore verrebbe soddisfatto solo in concorso con gli altri, il che non gli garantirebbe un soddisfacimento “pieno” delle proprie ragioni, poiché verrebbe pagato (come gli altri, del resto) in “moneta fallimentare”.

Naturalmente però, trattandosi di “accordo”, questo esiste in quanto vi è anche la volontà del creditore: la decisione di quest’ultimo di sottoscrivere l’accordo è funzionale ad un suo preciso scopo, che è lo stesso poc’anzi detto, ossia venire pagato separatamente dagli altri.

Il creditore, per aumentare la possibilità di soddisfacimento delle proprie pretese, potrebbe decidere di stipulare con il debitore un accordo di ristrutturazione di carattere “remissorio”, consistente nel fatto che egli rinuncia ad esigere l’intero credito, accontentandosi di riscuoterne solo una parte. Ciò in quanto un conto è stipulare un accordo col debitore pretendendo che quest’ultimo paghi l’intero credito, ed un altro conto è fare un accordo con cui il creditore abbassa le proprie pretese in modo da ottenere maggiori chances di ottenere esattamente quanto richiesto, né di più né di meno: nel primo caso le possibilità che il creditore ottenga quanto chiesto sono assai minori che nel secondo caso, in quanto un simile accordo andrebbe a ledere il diritto degli altri creditori di venire soddisfatti, anch’essi, in misura pari ai propri crediti (principio della “par condicio creditorum”).

Nel caso in cui il debitore non adempia all’accordo, e si apra la liquidazione giudiziale, il creditore, se adesso si insinua al passivo per l’intero credito (anziché per la sola parte stabilita nell’accordo), potrebbe essere visto come colui che adotta un comportamento “di comodo”: egli prima ha limitato, mediante l’accordo remissorio, le proprie pretese nei riguardi non solo del debitore ma anche degli altri creditori, i quali in tal modo si erano visti aumentare le loro possibilità di tutela (la rinuncia ad una parte del suo credito aveva indirettamente aumentato la quota distribuibile tra gli altri creditori), poi però, quando vede che il debitore non adempie (vedi apertura della liquidazione giudiziale), torna a rivendicare, anche nei riguardi degli altri creditori, il diritto al pagamento del proprio “intero” credito, andando dunque a diminuire il quantum tra essi distribuibile.

Simile “comportamento pretestuoso” del creditore appare, in effetti, di difficile giustificazione perché l’accordo di ristrutturazione remissorio ha il valore di una “transazione novativa” del rapporto tra il creditore ed il debitore: il primo rinuncia ad esigere l’”intero” credito, e quindi si accontenta di esigerne solo una parte, e tale rinuncia sostanzialmente va ad “innovare” il precedente rapporto negoziale, sostituendolo con una nuova obbligazione da parte del secondo, ciò che appunto, ai sensi dell’art. 1230 c.c., determina una “novazione”, la quale si ha quando “le parti sostituiscono all'obbligazione originaria una nuova obbligazione”, laddove l’obbligazione originaria “si estingue”.

Tale estinzione viene stabilita dall’art. 1230 c.c. nel caso in cui la nuova obbligazione abbia un “oggetto” diverso. Quest’ultimo, ai sensi dell’art. 1174 c.c., si identifica con “la prestazione”: prevede, infatti, la norma che “la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica …”.

Quindi, ogni volta che la prestazione del debitore venga sostituita da un’altra, si determina la sostituzione novativa di cui all’art. 1230 c.c., e, di conseguenza, l’estinzione dell’obbligazione originaria. Ciò è quello che avviene nell’accordo di ristrutturazione remissorio, dove il creditore, concedendo al debitore il beneficio di poter eseguire una prestazione di importo minore rispetto a quello che caratterizzava l’obbligazione originaria, autorizza la sostituzione di quest’ultima, determinandone pertanto l’estinzione.

Si tratta di vedere se, nella disciplina del D.lgs. 14 del 12.01.2019 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di seguito “Codice”), l’accordo di ristrutturazione remissorio comporti effettivamente l’estinzione del credito originario, oppure se quest’ultimo, a seguito dell’inadempimento dell’accordo, torni a “rivivere”.

Il suddetto accordo è disciplinato dall’art. 57 del Codice, e viene stipulato tra il debitore ed i creditori i quali rappresentino almeno il 60% dei crediti.

La norma, tuttavia, precisa che esso deve comunque consentire il pagamento integrale dei creditori estranei”. Pertanto la sua finalità deve comunque essere quella di assicurare il soddisfacimento integrale non soltanto del creditore stipulante, ma di “tutti” quanti i creditori, ossia anche di quelli che non hanno aderito.

Già da questa norma si evince che il discorso di cui sopra – ossia “il creditore che ha stipulato un accordo a carattere remissorio ha, perciò stesso, sacrificato, a beneficio degli altri creditori, una parte del proprio credito, in modo tale che questi ultimi vedessero aumentare la quota tra essi distribuibile, e quindi egli adesso non può chiedere di insinuarsi al passivo per l’intero credito, perché in tal modo vanificherebbe l’aspettativa degli altri creditori ad una più ampia distribuzione dell’attivo fallimentare”  – viene un po' a vacillare: se l’accordo deve comunque assicurare anche il “pagamento integrale dei creditori estranei”, allora, per un principio di par condicio creditorum, si deve ritenere che il sacrificio inizialmente fatto dal creditore stipulante, mediante la remissione parziale del debito, non costituisca una scelta irretrattabile, in quanto l’accordo, come deve essere funzionale alla tutela anche degli altri creditori, così dovrebbe permettere al creditore medesimo, una volta che esso non sia stato adempiuto dal debitore, di tornare a far valere il credito originario, ossia quello di importo più elevato rispetto a quello che egli aveva “concordato” con il debitore.

L’art. 61 del Codice, che disciplina gli “accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa” ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria alla quale appartiene il creditore stipulante l’accordo, prevede, tra le condizioni di estensione, che tali creditori “possano risultare soddisfatti in base all'accordo stesso in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”. Il principio è quello per cui l’accordo di ristrutturazione deve assicurare, ai creditori non stipulanti ma comunque da esso interessati (efficacia estensiva), lo stesso grado di soddisfacimento che essi otterrebbero attraverso la liquidazione giudiziale. Ebbene, un conto è quanto previsto dall’accordo, ossia l’insieme degli impegni assunti dal debitore, un altro conto è il successivo inadempimento del debitore: l’accordo potrebbe essere confezionato in modo da soddisfare gli interessi di tutti, ossia il creditore stipulante e gli altri creditori, ma poi il mancato adempimento si può comunque verificare, e se gli altri creditori lo avevano giudicato come conveniente senza proporre alcuna opposizione (art. 61 comma 3), laddove quest’ultima avrebbe potuto essere basata sul ragionevole pericolo dell’inadempimento da parte del debitore, il creditore stipulante dovrebbe ritenersi libero di insinuarsi al passivo per l’intero credito, anziché per il minor credito oggetto dell’accordo. La mancata opposizione sopra citata ha significato sostanziale accettazione del rischio dell’inadempimento del debitore, e quindi anche dell’eventualità che il creditore stipulante, pur avendo sottoscritto un accordo di ristrutturazione a carattere remissorio, potesse, nel caso di inadempimento, chiedere l’ammissione al passivo per “l’intero” credito.

Potrebbe, allora, essere previsto, al limite, un meccanismo per cui, ove si verifichi il suddetto inadempimento, la richiesta del creditore stipulante di essere ammesso al passivo per “l’intero” credito non abbia effetto nei confronti dei creditori i quali avevano in precedenza manifestato la loro opposizione, mentre si mantenga efficace verso i creditori non opponenti.

Il debitore, ai fini dell’omologazione dell’accordo di ristrutturazione, può richiedere, ai sensi dell’art. 54 comma 3 del Codice, la concessione di “misure protettive”, ossia volte ad assicurare, quanto meno provvisoriamente, gli effetti della sentenza di omologazione. Si tratta di misure, tra le quali la nomina di un custode dell’azienda o del patrimonio, che vengono richieste dallo stesso debitore al fine di garantire ai creditori interessati dall’accordo di ristrutturazione che quest’ultimo verrà effettivamente omologato dal Giudice, onde evitare che questi possa considerarlo non idoneo a causa di una condotta irresponsabile ed elusiva del debitore stesso.

Pertanto, il creditore il quale abbia sottoscritto l’accordo di ristrutturazione a carattere remissorio, va qualificato come “creditore interessato dalla misura protettiva”.

Ai sensi dell’art. 64 comma 4 Codice, “i creditori interessati dalle misure protettive non possono, unilateralmente, rifiutare l'adempimento dei contratti essenziali in corso di esecuzione o provocarne la risoluzione, nè possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell'imprenditore per il solo fatto di non essere stati pagati dal debitore”. La norma precisa che “sono essenziali i contratti necessari per la continuazione della gestione corrente dell'impresa, inclusi i contratti relativi alle forniture la cui interruzione impedisce la prosecuzione dell'attività del debitore”.

Quindi, il creditore che ha stipulato l’accordo – anche di tipo remissorio – ed a cui favore lo stesso debitore ha chiesto la concessione della misura protettiva, non può eccepire l’inadempimento, ossia non può, nel caso di inadempimento del debitore agli obblighi previsti dall’accordo, rifiutarsi di eseguire la propria prestazione, avvalendosi dello strumento di cui all’art. 1460 c.c.: egli, nonostante il predetto inadempimento, “deve” comunque adempiere, in quanto tale obbligo è funzionale alla prosecuzione dell’attività di impresa, la quale, a sua volta, è strumentale all’incremento dell’attivo fallimentare, che servirà al soddisfacimento di “tutti” i creditori, ivi compresi quelli che all’accordo non hanno aderito. Pertanto, nel caso dell’accordo remissorio, il creditore non soltanto ha già sacrificato una parte delle proprie pretese, rinunciando ad esigere l’ “intero” credito ed accontentandosi quindi di esigerne solo una parte, ma, nonostante l’inadempimento del debitore, non può neanche rifiutare di eseguire la prestazione rimasta a suo carico.

Ebbene, proprio per questa ragione allora, egli, una volta fatto constatare dal Giudice l’inadempimento del debitore agli obblighi dell’accordo, dovrebbe considerarsi legittimato a poter chiedere l’ammissione al passivo per l’ “intero” credito: la mancata attribuzione del diritto di poter rifiutarsi di adempiere in relazione ad un contratto di tipo sostanzialmente transattivo, qual è l’accordo remissorio, già di per sé caratterizzato da una “rinuncia” alle proprie pretese, dovrebbe trovare un equo contrappeso nel riconoscimento della possibilità di insinuarsi al passivo per l’ “intero” credito, nel caso in cui la controparte (debitore) non abbia adempiuto.

Abbiamo detto che l’accordo di ristrutturazione a carattere remissorio equivale ad una remissione parziale del debito.

Mentre la remissione totale equivale ad una donazione indiretta, perché sancisce la definitiva volontà del creditore di rinunciare a qualsiasi pretesa nei riguardi del debitore, il quale, per tale motivo, vede estinti gli obblighi a suo carico (art. 1236 c.c.), la remissione parziale costituisce una “transazione”, perché il creditore concede al debitore una riduzione del debito ma non una esenzione totale, e, dall’altra parte, il debitore, in cambio di tale “concessione”, si impegna a soddisfare la parte del credito oggetto del contratto (art. 1965 c.c.).

La domanda è questa: il creditore, quando decide di fare una transazione, si vincola definitivamente all’impegno di esigere un credito di entità minore rispetto a quello originario, oppure ritorna, nel caso in cui il debitore non adempia, a poter esigere “l’intero” credito?

La transazione è un “contratto” come gli altri, e quindi genera, in capo ad entrambe le parti (pertanto, anche al creditore), degli obblighi precisi ed inderogabili: per il creditore, quello di non richiedere al debitore, nonostante l’inadempimento di quest’ultimo, la medesima somma alla quale egli con la transazione aveva rinunciato. Ciò in quanto nella disciplina della transazione non vi è alcuna norma la quale preveda che, in caso di inadempimento da parte del debitore, il creditore abbia il diritto di ritornare ad esigere l’intero credito: egli, lamentando l’inadempienza contrattuale, potrà chiedere al Giudice che gli venga riconosciuta solo la somma richiesta nella transazione, ossia quella corrispondente alla prestazione dedotta in contratto, senza poter vantare alcun diritto alla “reviviscenza” del credito originario.

Pertanto, l’assenza di una norma del genere sembra avvalorare la tesi secondo cui il creditore, ove il debitore non abbia adempiuto all’accordo di ristrutturazione remissorio, potrà chiedere l’ammissione al passivo solo per il (minor) credito quantificato nell’accordo, e non dell’ “intero” credito.

Tuttavia, per sostenere la tesi della “reviviscenza”, ci si potrebbe basare sulle seguenti norme:

- l’art. 1970 c.c., il quale prevede che “la transazione non può essere impugnata per causa di lesione”.

Il principio in base al quale il creditore, che abbia deciso di concedere un qualcosa (questa è l’essenza della transazione) al debitore, non può poi lamentarsi sostenendo che tale concessione gli causa una lesione che eccede ¼ del valore originario del credito, dovrebbe trovare un contrappeso nel principio in base al quale l’inadempimento del debitore comporta, appunto, la reviviscenza dell’obbligazione originaria. Un conto è la decisione spontanea del creditore di addivenire al negozio transattivo, e cioè una scelta che, essendo stata del tutto volontaria, non potrà essere, in maniera pretestuosa e di comodo, “impugnata” dallo stesso creditore, il quale pertanto dovrà accettare che il debitore, adempiendo, gli trasferisca una somma inferiore di oltre ¼ a quello che era il credito originario. Un altro conto è il mancato adempimento del debitore anche a tale (ridotta) obbligazione, inadempimento che sostanzialmente vanifica la rinuncia precedentemente fatta dal creditore ad esigere l’ “intera” obbligazione, la quale quindi dovrebbe “rivivere”, poiché la negligenza del debitore è cosa ben diversa da un comportamento pretestuoso del creditore;

- l’art. 1244 c.c., il quale prevede che “la dilazione gratuitamente concessa dal creditore non è di ostacolo alla compensazione”.

La dilazione gratuita è una rateizzazione senza interessi.

Essa è un atto caratterizzato da una “liberalità indiretta” del creditore, esattamente come la rinuncia all’esazione dell’“intero” credito di cui si sostanzia l’accordo di ristrutturazione remissorio. Tale “rinuncia”, se non impedisce al debitore di estinguere il proprio debito opponendo in compensazione un controcredito, impedirà però allo stesso debitore di estinguere il proprio debito nel caso in cui egli non adempia nemmeno alla prestazione “ridotta” che il creditore, mediante la suddetta “rinuncia”, gli aveva concesso di eseguire, e ciò per il principio della “par condicio tra le parti”.

Non potendo verificarsi, in questo secondo caso, alcuna “estinzione” della posizione debitoria, l’inadempimento dovrebbe legittimare il creditore a richiedere al debitore stesso l’adempimento dell’ “intera” obbligazione, ossia anche della parte a cui egli con il negozio transattivo aveva rinunciato, obbligazione che pertanto dovrebbe “rivivere”.

In merito alla seconda questione

La tesi del curatore si basa sul fatto che, siccome il creditore stipulante non ha chiesto la risoluzione dell’accordo remissorio per inadempimento, la successiva declaratoria di fallimento (oggi “apertura della liquidazione giudiziale”) non pregiudica la persistente efficacia dell’accordo stesso, il quale quindi deve considerarsi come tutt’ora operante, primariamente proprio per il suo contenuto remissorio, il che determina la possibilità per il creditore di chiedere l’ammissione al passivo del solo (minor) credito oggetto dell’accordo, e non già dell’ “intero” credito, qual era prima della sottoscrizione dell’accordo.

I motivi per i quali, nel caso di inadempimento del debitore all’accordo di ristrutturazione, quest’ultimo dovrebbe considerarsi come “risolto di pieno diritto”, sono i seguenti:

- l’art. 63 Codice disciplina la transazione su crediti tributari e contributivi, la quale viene stipulata su proposta del debitore nell’ambito delle trattative che precedono la stipula degli accordi di ristrutturazione. Il comma 3 stabilisce che la transazione è “risolta di diritto” nel caso in cui il debitore non esegua integralmente i pagamenti entro 60 gg. dalle scadenze previste. E’ prevista, pertanto, la risoluzione “ipso iure” della transazione conclusa precedentemente alla stipula dell’accordo di ristrutturazione. Abbiamo visto che quest’ultimo, quando è remissorio, assume proprio la veste della “transazione”. Di conseguenza, la risoluzione di diritto sopra citata dovrebbe essere prevista anche nel caso in cui a non essere adempiuto sia un accordo di ristrutturazione remissorio;

- ai sensi dell’art. 64 comma 4 Codice, quando il debitore abbia chiesto, ai fini dell’omologazione di un accordo di ristrutturazione, la concessione di misure protettive, i creditori che da tali misure siano interessati, ossia coloro i quali abbiano sottoscritto l’accordo con il debitore, non possono provocare, con il loro comportamento, la risoluzione dei contratti necessari alla prosecuzione dell’attività d’impresa. Al riguardo, si ritiene che il divieto di chiedere (o di causare) la cessazione anticipata di tali contratti debba trovare un contrappeso nel principio in base al quale l’inadempimento del debitore agli obblighi previsti dall’accordo determina la risoluzione “ipso iure” del medesimo, senza necessità che il creditore stipulante proponga un’apposita domanda risolutoria;

- il curatore, entro trenta giorni dalla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, presenta al giudice delegato un'informativa sugli accertamenti compiuti e sugli elementi informativi acquisiti relativi alle cause dell'insolvenza ed alla responsabilità del debitore (art. 130 comma 1 Codice). L’inadempimento del debitore agli obblighi contenuti nell’accordo di ristrutturazione sancisce la definitiva “insolvenza” del debitore, e pertanto dovrebbe essere il curatore a monitorare lo stato di attuazione dell’accordo stesso, certificando l’eventuale inadempienza al medesimo e prendendone atto ai fini dell’apertura della liquidazione giudiziale, senza che debba essere il creditore stipulante a proporre una specifica domanda di risoluzione;

- a norma dell’art. 154 Codice, partecipano al concorso anche i crediti condizionali, ossia quelli la cui esistenza non è ancora certa in quanto subordinata, appunto, al verificarsi di una condizione. Tra tali crediti sono compresi anche “quelli che non possono essere fatti valere contro il debitore il cui patrimonio è sottoposto alla liquidazione giudiziale, se non previa escussione di un obbligato principale”.

Allora, il ragionamento è il seguente: se vengono ammessi al passivo anche i crediti che non sono azionabili direttamente verso il debitore, essendo necessaria la previa escussione di un altro soggetto (terzo garante), potranno, a maggior ragione, essere ammessi al passivo i crediti derivati dall’inadempimento di un accordo di ristrutturazione, in quanto tali crediti, già certi nella loro esistenza e già pienamente esigibili nei confronti del debitore (tant’è che quest’ultimo ha sottoscritto, in prima persona, l’accordo sopra citato), debbono ritenersi sostanzialmente “confermati” dal predetto inadempimento, e pertanto senza che il creditore stipulante debba proporre una domanda risolutoria.