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Magistratura: donne alle prese con il machismo

La magistratura è maschilista?
ortensie a primavera
Ph. Riccardo Radi / ortensie a primavera

Le donne in magistratura sono la maggioranza assoluta da circa 6 anni. Dal 2015 il numero totale di donne presenti nella magistratura ha superato quello degli uomini (fonte: CSM – Ufficio statistico – Distribuzione per genere del personale di magistratura, marzo 2019).

Ciò nonostante, negli incarichi apicali continua ad esserci una sorta di ostracismo nei confronti delle donne, che si perpetua al Consiglio Superiore della Magistratura e all’Anm.

Le donne magistrato ricordano il 9 febbraio 1963 come una data fondamentale per il loro ingresso in magistratura.

Ci sono voluti ben quindici anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione (e ben numero 16 concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse), per avere l’affermazione del principio di uguaglianza fra i sessi nell'accesso in magistratura.

Il Parlamento, direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo l'articolo 7 della legge 1176 del 1919 nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l'esercizio di diritti e di potestà politiche, a seguito della proposta dell’agosto 1960 di un gruppo di deputate democristiane (guidate da Maria Cocco, che era anche presidente del Centro italiano femminile-CIF, e composto da Maria de Unterrichter Jervolino e dalla ex costituente Angela Gotelli) chiese l’abrogazione della intera legge del 1919.

La proposta venne approvata con la legge 9 febbraio 1963 n. 66 che ha sancito l’ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle libere professioni. La legge era composta di soli due articoli:

Art. 1. La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge. L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi particolari.

Art. 2. La legge 17 luglio 1919, n. 1176, il successivo regolamento approvato con regio decreto 4 gennaio 1920, n. 39 ed ogni altra disposizione incompatibile con la presente legge sono abrogati.

Il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne fu bandito il successivo 3 maggio 1963 e fu vinto da otto donne, che entrarono in servizio il 5 aprile 1965: Letizia De Martino, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli, Graziana Calcagno Pini, Raffaella D’Antonio, Annunziata Izzo, Giulia De Marco, Emilia Capelli.

Nella Costituzione – come noto – è stato ormai espressamente recepito il principio di promozione delle pari opportunità fra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive.

La legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, ha modificato l’articolo 51, primo comma, della Costituzione, ponendo in capo alla Repubblica il compito di promuovere “con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Già prima, la legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, ha stabilito che le regioni ad autonomia speciale devono promuovere condizioni di parità di accesso alle consultazioni elettorali, al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi; nella medesima direzione, la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha prescritto che le regioni a statuto ordinario devono, con proprie leggi, promuovere la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.

Il recepimento, al massimo livello delle fonti del diritto, del principio in parola costituisce il frutto di un lungo percorso culturale, sociale e politico, che ha già fatto registrare significativi traguardi: basti pensare, fra i tanti, alle numerose previsioni via via inserite nella legislazione elettorale nazionale, regionale e locale, o in tema di società partecipate pubbliche.

In questa prospettiva, spiace constatare come il Consiglio superiore della magistratura risulti ancora sostanzialmente impermeabile al principio delle pari opportunità fra donne e uomini.

I numeri, purtroppo, sono impietosi: su sedici membri togati, una sola donna è stata eletta nella consiliatura 2002-2006; quattro in quella 2006-2010; due in quella 2010-2014; una soltanto in quella 2014- 2018; 5 nell’attuale.

Nella magistratura nel 1987 per la prima volta avvenne il sorpasso: tra i nuovi 300 magistrati, le donne furono 156. Il divario si allarga poi a partire dal 2007 e nell’ultimo concorso le donne hanno rappresentato il 65 per cento dei vincitori. È però solo dal 2015 che il numero totale di donne presenti nella magistratura ha superato quello degli uomini (fonte: CSM – Ufficio statistico – Distribuzione per genere del personale di magistratura, marzo 2019).

Sembrerebbe, quindi, che la vera soglia di sbarramento alla partecipazione paritaria delle donne, sia in sede rappresentativa, sia in sede lavorativa, si stia spostando sempre più dall’accesso allo sviluppo della carriera. Più chiaramente: non potendo, ormai, più arginare la presenza femminile nella professione, come attestano le statistiche, la trincea si sta riposizionando attorno alle figure apicali, ai ruoli direttivi, organizzativi e decisionali.

I dati forniti dal CSM confermano lo squilibrio laddove, su 447 magistrati con incarichi direttivi, 3 magistrati su 4 (72 per cento) sono uomini.

Nonostante, quindi, siano una schiacciante maggioranza, le donne magistrato non hanno ancora ottenuto il giusto riconoscimento nelle sedi rappresentative: l’attuale sistema elettorale previsto per il CSM ai sensi della legge n. 195 del 1958 appare, soprattutto alla luce delle evidenze, scarsamente compatibile con le pari opportunità nella rappresentanza di genere, come dimostrato, prima ancora che da qualsiasi altro argomento, dai risultati: una sola donna togata nella consiliatura 2002-2006, quattro in quella 2006-2010, due in quella 2010-2014, una in quella 2014-2018 e cinque nell’attuale.

Come spesso è stato osservato questo è un sistema che, lungi dal favorire l’emersione delle figure più rappresentative a livello nazionale dell’intera magistratura, incrementa e accresce localismi e micro corporativismi e rende sempre più difficile far emergere la questione della rappresentanza femminile. Si tratta, infatti (articoli da 21 a 29 della legge n. 195 del 1958), di un sistema (maggioritario, senza voto di lista) articolato su tre collegi unici nazionali a base uninominale, che di fatto penalizza le donne magistrato, consegnando un potere determinante al peso delle “correnti” e consentendo di limitare i candidati a un numero corrispondente (o di poco superiore) a quello degli eleggibili in forza di “intese” preventive attuate dai gruppi associativi.

In attesa di una più ampia riforma del sistema elettorale del CSM, occorre segnalare l'evidente discrepanza tra il numero complessivo delle magistrate e gli incarichi apicali e di rappresentanza che ricoprono.

Allo stato delle cose la magistratura, salvo future e auspicabili smentite, risulta essere maschilista.