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Malattia - Cassazione Lavoro: occorre provare che il lavoro svolto presso terzi durante la malattia sia compatibile alla guarigione

Malattia - Cassazione Lavoro: occorre provare che il lavoro svolto presso terzi durante la malattia sia compatibile alla guarigione
Malattia - Cassazione Lavoro: occorre provare che il lavoro svolto presso terzi durante la malattia sia compatibile alla guarigione

Durante un periodo di malattia il lavoratore può prestare la propria attività a favore di terzi diversi dal datore di lavoro? La Cassazione ammette che ciò sia ammissibile, ma solo se il lavoro durante la malattia non inficia la guarigione: in questo caso spetta al dipendente dimostrare che l’attività svolta è compatibile con lo stato di malattia.

Nel caso di specie una lavoratrice di una società di ristorazione era stata assente per tutto il mese di febbraio 2012, a causa di una sindrome ansioso depressiva, provocata dall’ambiente di lavoro. Durante il mese di riposo, concesso affinché potesse ottenere una riabilitazione psichica, la lavoratrice aveva svolto mansioni di natura domestica, cinque giorni a settimana per quattro ore al giorno. A seguito di ciò la lavoratrice era stata licenziata dalla società di ristorazione.

La società di ristorazione proponeva ricorso in cassazione contro la sentenza della Corte d’appello che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento della lavoratrice e il suo immediato reintegro sul posto di lavoro, condannando inoltre la società al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni globali di fatto maturate dal recesso all’effettivo reintegro, oltre rivalutazione, interessi e spese di entrambi i gradi.

In particolare, la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 Codice Civile, rilevando il mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico della lavoratrice che avrebbe dovuto provare la compatibilità in concreto della condizione di malattia con l’attività domestica svolta, mentre, secondo la società ristoratrice, la Corte territoriale ha operato una valutazione meramente ipotetica, disancorata da un effettivo accertamento.

Inoltre, la ricorrente ha denunciato il mancato accertamento, alla stregua di omesso esame di fatti decisivi, dell’effettiva natura delle attività lavorativa svolta dalla prestatrice d’opera in favore del terzo, della natura della patologia da cui era affetta e la compatibilità di questa con l’attività lavorativa.

La Cassazione ha affermato che, in linea di principio e secondo l’orientamento di alcune ultime sentenze della medesima Corte (Cass. 3 marzo 2015, n. 4237): “non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante tale assenza, un’attività lavorativa in favore di terzi”, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza e non comprometta la guarigione del lavoratore, implicando pertanto l’inosservanza del dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera.

Secondo la Corte, pertanto, non si configura una giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l’assenza, con altre imprese concorrenti oppure, anziché collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa, abbia compromesso o ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trarne un reddito da lavoro diverso in costanza di malattia e in danno del proprio datore di lavoro.

Tuttavia, nel caso di specie, la Cassazione rileva che il licenziamento è stato fondato sull’incompatibilità dell’attività prestata durante la malattia al recupero delle facoltà necessarie a riprendere l’attività lavorativa da parte della lavoratrice, ritenendo che quest’ultima avesse agito in danno del datore di lavoro, ritardando o compromettendo la riabilitazione.

Ad avviso della Cassazione, la Corte di secondo grado si è sottratta all’accertamento in concreto di sua spettanza e all’esito del quale essa avrebbe dovuto compiere le relative valutazioni, in ordine all’effettiva prestazione di attività lavorativa svolta dalla dipendente a favore di un terzo, alla qualità e consistenza di tale prestazione, alla natura della patologia da cui risultava affetta e alla compatibilità di questa con l’attività lavorativa.

In definitiva, l’attività lavorativa svolta durante la malattia è legittima solo se il lavoratore adduce la prova che è compatibile con la malattia, non compromette il recupero della salute psico-fisica del prestatore d’opera e non ne ritarda il suo reinserimento nell’attività lavorativa principale (provocando un danno al datore di lavoro).

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e rinviato per la decisione alla Corte d’appello in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

(Cassazione Civile - Sezione lavoro, Sentenza 1 agosto 2016, n. 15989)

Durante un periodo di malattia il lavoratore può prestare la propria attività a favore di terzi diversi dal datore di lavoro? La Cassazione ammette che ciò sia ammissibile, ma solo se il lavoro durante la malattia non inficia la guarigione: in questo caso spetta al dipendente dimostrare che l’attività svolta è compatibile con lo stato di malattia.

Nel caso di specie una lavoratrice di una società di ristorazione era stata assente per tutto il mese di febbraio 2012, a causa di una sindrome ansioso depressiva, provocata dall’ambiente di lavoro. Durante il mese di riposo, concesso affinché potesse ottenere una riabilitazione psichica, la lavoratrice aveva svolto mansioni di natura domestica, cinque giorni a settimana per quattro ore al giorno. A seguito di ciò la lavoratrice era stata licenziata dalla società di ristorazione.

La società di ristorazione proponeva ricorso in cassazione contro la sentenza della Corte d’appello che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento della lavoratrice e il suo immediato reintegro sul posto di lavoro, condannando inoltre la società al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni globali di fatto maturate dal recesso all’effettivo reintegro, oltre rivalutazione, interessi e spese di entrambi i gradi.

In particolare, la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 Codice Civile, rilevando il mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico della lavoratrice che avrebbe dovuto provare la compatibilità in concreto della condizione di malattia con l’attività domestica svolta, mentre, secondo la società ristoratrice, la Corte territoriale ha operato una valutazione meramente ipotetica, disancorata da un effettivo accertamento.

Inoltre, la ricorrente ha denunciato il mancato accertamento, alla stregua di omesso esame di fatti decisivi, dell’effettiva natura delle attività lavorativa svolta dalla prestatrice d’opera in favore del terzo, della natura della patologia da cui era affetta e la compatibilità di questa con l’attività lavorativa.

La Cassazione ha affermato che, in linea di principio e secondo l’orientamento di alcune ultime sentenze della medesima Corte (Cass. 3 marzo 2015, n. 4237): “non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante tale assenza, un’attività lavorativa in favore di terzi”, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza e non comprometta la guarigione del lavoratore, implicando pertanto l’inosservanza del dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera.

Secondo la Corte, pertanto, non si configura una giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l’assenza, con altre imprese concorrenti oppure, anziché collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa, abbia compromesso o ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trarne un reddito da lavoro diverso in costanza di malattia e in danno del proprio datore di lavoro.

Tuttavia, nel caso di specie, la Cassazione rileva che il licenziamento è stato fondato sull’incompatibilità dell’attività prestata durante la malattia al recupero delle facoltà necessarie a riprendere l’attività lavorativa da parte della lavoratrice, ritenendo che quest’ultima avesse agito in danno del datore di lavoro, ritardando o compromettendo la riabilitazione.

Ad avviso della Cassazione, la Corte di secondo grado si è sottratta all’accertamento in concreto di sua spettanza e all’esito del quale essa avrebbe dovuto compiere le relative valutazioni, in ordine all’effettiva prestazione di attività lavorativa svolta dalla dipendente a favore di un terzo, alla qualità e consistenza di tale prestazione, alla natura della patologia da cui risultava affetta e alla compatibilità di questa con l’attività lavorativa.

In definitiva, l’attività lavorativa svolta durante la malattia è legittima solo se il lavoratore adduce la prova che è compatibile con la malattia, non compromette il recupero della salute psico-fisica del prestatore d’opera e non ne ritarda il suo reinserimento nell’attività lavorativa principale (provocando un danno al datore di lavoro).

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e rinviato per la decisione alla Corte d’appello in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

(Cassazione Civile - Sezione lavoro, Sentenza 1 agosto 2016, n. 15989)