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Marchi collettivi, marchi di certificazione, marchi individuali ad uso plurimo: come orientarsi dopo le novità normative del 2019

Marchi
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Indice:

1. Il significato complessivo della riforma del 2019 e il rapporto di marchio collettivo e di certificazione con il marchio individuale

2. L’evoluzione del marchio collettivo: i marchi come strumenti di comunicazione

3. Marchi collettivi geografici e denominazioni di origine

4. I marchi geografici collettivi e di certificazione come strumento per valorizzare le esternalità positive legate alla fama di un territorio: licensing mirato, co-branding e ruolo degli Enti territoriali, delle Camere di Commercio e delle Associazioni delle imprese e degli enti locali

 

1. Il significato complessivo della riforma del 2019 e il rapporto di marchio collettivo e di certificazione con il marchio individuale

Con l’attuazione della Direttiva UE n. 2436/2015 operata dal Decreto Legislativo n. 15/2019 in vigore dal 23 marzo scorso è stato introdotto un gruppo di disposizioni ispirate alla ricerca di un nuovo equilibrio tra esigenze dei produttori e interesse pubblico, in questo caso, alla promozione della qualità delle produzioni, per rendere più competitivo il nostro comparto produttivo.

Tra le nuove norme rientrano anzitutto quelle che promuovono espressamente a impedimenti assoluti alla registrazione (e correlativamente a cause di nullità assoluta del marchio che venga concesso pur in presenza dell’impedimento) i casi di interferenza – ovviamente concreta – tra marchi e DOP e IGP, ma estremamente importanti sono anche quelle che introducono un nuovo assetto «dualistico» dei marchi istituzionalmente preposti a garantire la qualità dei prodotti, che non sono più solo i marchi collettivi, ma ora anche i marchi di certificazione.

Le possibilità, anzi, sono tre, se si considera che anche i marchi individuali possono essere sfruttati anche solo mediante la loro concessione in licenza non esclusiva e che anche questi marchi garantiscono la veridicità del messaggio ad essi ricollegato nella percezione del pubblico, essendo sanzionata con la decadenza la loro sopravvenuta decettività.

Ovviamente, però, i marchi individuali, se possono risultare preferibili perché non impongono l’adozione formale all’atto del deposito di un regolamento d’uso, che contempli un sistema di controlli e di sanzioni, devono però essere registrati nel rispetto di tutte le prescrizioni dell’articolo 13 Codice Proprietà Industriale (“C.P.I.”), dunque senza potersi valere delle «deroghe» previste per il marchio collettivo geografico ed ora previste negli stessi termini anche per il marchio di certificazione geografico (che viene ammesso a livello nazionale, mentre non è previsto a livello comunitario).

Non essendo differenziate quanto all’oggetto della garanzia, nel nostro ordinamento la distinzione tra le due figure – marchio collettivo e marchio di certificazione – sarà legata essenzialmente alla diversa legittimazione alla registrazione, che per i marchi collettivi è d’ora in poi riservata ai soli enti di diritto pubblico e a quelli costituiti in forma associativa, con esclusione delle società lucrative e soprattutto con l’obbligatorietà del principio della «porta aperta», che impone di consentire l’adesione all’associazione (e non solo l’uso del marchio) a tutti i produttori «i cui prodotti o servizi provengano dalla zona geografica in questione» (se il marchio è geografico) e «soddisfino tutti i requisiti di cui al regolamento».

Anche in questo caso la nuova disciplina, se offre nuove opportunità, al contempo richiederà un’attenta revisione dei regolamenti vigenti e la verifica caso per caso della possibilità di mantenere un marchio collettivo o della necessità di trasformarlo in marchio di certificazione.

 

2. L’evoluzione del marchio collettivo: i marchi come strumenti di comunicazione

Oggi come prima di questa riforma, il marchio collettivo (e ora anche quello di certificazione) è uno strumento di distinzione che nasce istituzionalmente per essere fatto utilizzare dal titolare a una pluralità di soggetti tra loro indipendenti (donde appunto il nome di marchio collettivo) e la cui precipua finalità è quella di ricollegare questi prodotti non all’imprenditore singolo, ma al gruppo, e così di informare il pubblico di determinate caratteristiche qualitative dei prodotti contrassegnati, di cui il gruppo si fa appunto garante.

Proprio per assolvere a questa funzione la domanda di registrazione del marchio collettivo dev’essere accompagnata da un regolamento, il quale disciplini «l’uso dei marchi collettivi, i controlli e le relative sanzioni», tanto che, come meglio vedremo, la mancata effettuazione di questi controlli determina la decadenza del marchio (articoli 11, comma 1 e 14, comma 2, lett. c Codice della Proprietà Industriale e, in termini analoghi, artt. 75 e 81 Regolamento U.E. n. 1001/2017 sul marchio dell’Unione Europea, già marchio comunitario).

Come si accennava, con la recentissima riforma, è ora venuto meno un profilo per il quale la disciplina nazionale si era differenziata da quella del diritto comunitario: con l’attuazione della Direttiva n. 2015/2436 operata dal Decreto Legislativo 20 febbraio 2019, n. 15, infatti, anche nel nostro ordinamento interno, la titolarità dei marchi appartenenti a questa tipologia è stata riservata alle «associazioni di fabbricanti, produttori, prestatori di servizi o commercianti», come recita l’articolo 74 Regolamento U.E. n. 1001/2017 e come prevedeva anche la nostra legge marchi (che alle associazioni affiancava solo gli enti pubblici) prima della riforma operata dal Decreto Legislativo 480/92 ed è ora tornato presto a prevedere anche il Codice della Proprietà Industriale, poiché la più ampia legittimazione a registrare marchi collettivi nazionali concessa dal decreto da ultimo citato a tutti i «soggetti che svolgono la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi» (articolo 11, comma 1, C.P.I.) è stata cancellata in attuazione della nuova versione della Direttiva comunitaria sui marchi, in base alla quale – come abbiamo visto – i soggetti costituiti in forma non associativa (e anche quelli associativi che non rispettino il principio della «porta aperta») potranno divenire titolari di marchi di certificazione, ma non più di marchi collettivi.

Ciò che è invece cambiata, e radicalmente, rispetto al marchio collettivo come era stato concepito dal legislatore del 1942, è la funzione giuridicamente tutelata del marchio: non più preso in considerazione dall’ordinamento come mero mezzo di identificazione dell’origine imprenditoriale dei prodotti o servizi per cui è registrato, ma come strumento di comunicazione a tutto tondo e protetto non più soltanto contro la confondibilità, ma più in generale in relazione a tutte le componenti del messaggio che al marchio viene ricollegato, comprese le informazioni e le suggestioni diffuse attraverso la pubblicità, su cui si concentra oggi il valore di mercato dei segni più famosi, e quindi contro ogni forma di agganciamento realizzato mediante l’uso di segni eguali o simili.

Quest’apertura è frutto dei cambiamenti avvenuti nell’economia (ed anzi, e prima ancora, nel «mondo della vita») e dell’impostazione «realistica» del diritto comunitario, per cui i confini delle esclusive del diritto della proprietà intellettuale devono essere segnati da quello che concretamente rappresentano sul mercato le singole realtà che di questi diritti formano oggetto: e se inevitabilmente il libro che qui si ripubblica non poteva prevederla, essa tuttavia non è in contratto con la sua impostazione, che, per identificare l’oggetto e l’ambito della protezione dei marchi collettivi, muove proprio dalla considerazione della «funzione pratica» di questi marchi, naturalmente quale essa era intesa all’epoca in cui fu scritto.

Questo radicale mutamento di funzione dei marchi – di tutti i marchi, anche di quelli collettivi e ora parimenti di quelli di certificazione – si ripercuote in due direzioni.

Da un lato, l’ambito di protezione, necessariamente esteso a quella che, in relazione alle denominazioni d’origine (sul cui rapporto con i marchi collettivi si dovrà ritornare), viene oggi chiamata «evocazione», ossia appunto la situazione che si verifica ogni volta che il pubblico possa istituire un «nesso» tra il segno dell’imitatore ed il marchio imitato, il che viene tradotto legislativamente nella formula (anche in questo caso di origine comunitaria) dell’uso di un segno eguale o simile, per prodotti o servizi anche non affini a quelli per cui il marchio è registrato, che senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

Ciò, in pratica, si verifica quando, anche in assenza di confondibilità, dall’uso di un segno eguale o simile deriva un agganciamento parassitario all’immagine legata al marchio imitato (l’indebito vantaggio), o quando l’uso del segno-copia è effettuato per prodotti o servizi scadenti o comunque incompatibili con il messaggio legato al marchio imitato, o è tale per cui «il marchio anteriore non risulta più in grado di suscitare un’immediata associazione con i beni per i quali è stato registrato ed utilizzato», per usare le parole della nota sentenza di Trib. C.E., Sez. II, 25 maggio 2005, nel procedimento T-67/04 (e questo è il pregiudizio). Addirittura in questi casi la tutela riguarda anche gli usi non distintivi (come la nuova formulazione dell’articolo 20, comma 1, lett. c) C.P.I. frutto dell’intervento operato dal citato Decreto Legislativo n. 15/2019 prevede ora espressamente, recependo le indicazioni di dottrina e giurisprudenza), che siano però in grado di istituire un «nesso» tra il segno ed il marchio in ragione del quale si producano tali situazioni di vantaggio/pregiudizio.

Dall’altro lato, proprio come contraltare (ed equilibratore, in una logica di bilanciamento d’interessi) di questa tutela allargata  a tutto ciò che forma il «messaggio» ricollegato al marchio, la nuova disciplina commina la decadenza al marchio che sia divenuto idoneo ad ingannare il pubblico, configurando in capo al titolare una posizione di responsabilità in ordine alla veridicità del messaggio che il pubblico vi ricollega (si parla al riguardo di «statuto di non decettività» o di «consumer trademark»).

La ratio di questa regola, che fa da pendant alla protezione contro lo sfruttamento parassitario del messaggio di cui il marchio è portatore, induce a ritenere rilevante ogni divergenza tra le caratteristiche dei prodotti o servizi per cui è usato e questo messaggio, comprese le sue componenti suggestive, il che comporta per il titolare l’onere, alternativamente, di conformarsi a tale messaggio o di modificarlo, tramite la pubblicità: e dunque attribuisce al marchio anche una diretta funzione di garanzia qualitativa, che per i marchi collettivi diventa garanzia non solo dell’uso di essi per prodotti che rispettino il regolamento d’uso, ma anche dell’effettuazione dei relativi controlli, la cui mancanza costituisce infatti oggi un’autonoma causa di decadenza del marchio.

Da questo punto di vista, anzi, si può dire che assistiamo a un ravvicinamento tra marchi individuali e collettivi, essendo evidente che il plus dei secondi è oggi rappresentato in primo luogo proprio dalla promessa che essi fanno al pubblico dell’effettuazione di questi controlli e quindi del maggiore affidamento che possono suscitare nei consumatori, se questo plus sarà loro presentato in modo efficace.

 

3. Marchi collettivi geografici e denominazioni di origine

Per effetto di queste novità è cambiato anche il rapporto tra i marchi collettivi geografici (e, in Italia, anche di certificazione) e le denominazioni geografiche, anche in questo caso sotto un duplice profilo.

Anzitutto, come abbiamo accennato, la registrazione dei segni geografici come marchi collettivi e di certificazione è consentita anche oltre i limiti previsti per i marchi individuali, come espressamente dispongono l’articolo 74 Regolamento U.E. n. 1001/2017 e gli articoli 11 e 11-bis C.P.I., il cui comma 4 peraltro consente all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi di rifiutare la registrazione di queste denominazioni come marchio collettivo o di certificazione «quando i marchi richiesti possano creare situazioni di ingiustificato privilegio, o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative nella regione», con una formula che riprende la vecchia disciplina di tutti i segni geografici prevista dalla legge marchi del 1942.

Il monopolio su di un nome geografico, che la sua registrazione come marchio, sia pure collettivo o di certificazione, comporterebbe, sembrerebbe infatti logicamente incompatibile con la circostanza che il nome geografico in questione sia percepito come denominazione di origine, ossia comunichi al pubblico un messaggio relativo alla qualità o alla reputazione dei prodotti contraddistinti, in quanto provenienti (non da una determinata impresa, ma) da un determinato territorio: in questo caso, le esigenze pro-concorrenziali che la Corte di Giustizia europea ha più volte valorizzato nella sua interpretazione del diritto dei marchi impongono che il segno in questione resti comunque a disposizione di tutti i soggetti operanti nel territorio.

Proprio per questo è oggi espressamente previsto che il titolare del marchio collettivo geografico (e, a livello nazionale, anche del marchio di certificazione geografica, con una norma «gemella», mentre, come si diceva,  i marchi di certificazione U.E. non possono garantire l’origine geografica) non possa impedire a terzi di fare uso del nome geografico che ne forma oggetto in modo conforme alla correttezza professionale (articolo 11, comma 4 e articolo 11-bis comma 4 C.P.I. e articolo 74 Regolamento U.E. n. 1001/2017, che precisa anzi che «in particolare un siffatto marchio non deve essere opposto ad un terzo abilitato ad utilizzare una denominazione geografica»).

Proprio per questo, e veniamo alla seconda implicazione che la nuova funzione del marchio presenta sotto questo profilo, la disciplina del marchio collettivo geografico va oggi coordinata con quella relativa alla tutela delle denominazioni di origine [artt. 29 e 30 C.P.I.; in sede comunitaria denominazioni di origine protette (D.O.P.) e indicazioni geografiche protette (I.G.P.) sono disciplinate dal Regolamento U.E. n. 1151/2012 e per i prodotti vitivinicoli dal Regolamento C.E. n. 479/2008]: nel senso infatti di una possibile coesistenza delle due protezioni su uno stesso nome geografico sembrerebbe deporre la circostanza del ravvicinamento in atto tra la disciplina delle denominazioni di origine e dei marchi, ravvicinamento intervenuto sia sul piano della tutela (che anche per le denominazioni di origine sta progressivamente avanzando verso una sempre più intensa protezione della reputazione di cui la denominazione goda presso il pubblico), sia su quello – come si diceva, strettamente correlato al primo sul piano del bilanciamento di interessi – del rilievo primario attribuito alla non ingannevolezza del segno (che è da sempre fondamentale per le denominazioni di origine e che è ora divenuto anche la chiave di volta del diritto dei marchi), creando una sorta di diritto comune dei segni commerciali: che non significa ovviamente uniformità di disciplina per segni di tipo diverso, ma certamente esistenza di un denominatore comune tra essi.

Ed in effetti la possibilità che un’indicazione geografica protetta formi anche oggetto di un marchio collettivo sembra essere presente anche alla giurisprudenza comunitaria e, come già si è accennato, è positivamente prevista nella nostra legislazione interna nata a cascata rispetto ai Regolamenti comunitari sulle denominazioni di origine, che ammette espressamente la possibilità che vi siano «marchi collettivi che identificano i prodotti D.O.P. (e) I.G.P. […] detenuti, in quanto dagli stessi registrati, dai consorzi di tutela per l’esercizio delle attività loro affidate» (articolo 53, comma 16 della legge 24 aprile 1998, n. 128, come sostituito dall’articolo 14 della legge 21 dicembre 1999, n. 526), verosimilmente allo scopo di rafforzare la tutela di cui godono queste denominazioni.

È chiaro però che si tratterà qui di marchi collettivi particolari, nel senso che il titolare di essi dovrà concederne l’uso a tutti i produttori della zona tipica, secondo una logica analoga all’obbligo di contrarre del monopolista.

 

4. I marchi geografici collettivi e di certificazione come strumento per valorizzare le esternalità positive legate alla fama di un territorio: licensing mirato, co-branding e ruolo degli Enti territoriali, delle Camere di Commercio e delle Associazioni delle imprese e degli enti locali

Dunque, il nuovo assetto normativo risultante dall’attuazione della Direttiva del 2015 non offre soltanto spunti di meditazione agli studiosi, ma dà anche ai pratici l’occasione per riflettere su quanto non solo i marchi individuali, ma anche quelli collettivi – tanto più ora, con lo sdoppiamento dell’istituto nelle due categorie dei marchi collettivi e dei marchi di certificazione – rappresentino in potenza una grandissima ricchezza del nostro Paese, che è doveroso utilizzare e tutelare al meglio soprattutto in chiave di valorizzazione del territorio.

Infatti in un’epoca nella quale, come è stato efficacemente scritto, la globalizzazione dell’economia non si traduce soltanto in globalizzazione dei mercati, ma anche in globalizzazione dei fattori produttivi, e quindi in una deterritorializzazione – oltre che in una dematerializzazione – dell’economia, i prodotti tipici si fondano invece su un elemento di localizzazione forte, sul quale le denominazioni che denotano l’origine di questi prodotti pongono l’accento. Ma questo elemento fortemente «local» ha sempre più bisogno di una tutela «global», cioè di una tutela che operi non solo nei Paesi di origine, ma anche sugli altri mercati nei quali questi prodotti vengono esportati, dove assai spesso non esiste un diritto sui generis analogo a quello concesso in Europa su denominazioni di origine e indicazioni geografiche, cosicché siamo ancora molto lontani da una protezione soddisfacente al livello globale che oggi caratterizza gli scambi commerciali.

Ciò probabilmente è dovuto al fatto che, a differenza di altri settori, come quelli dei marchi individuali e dei brevetti, nei quali, pur con una serie di differenze, la posizione dei Paesi più economicamente avanzati è sostanzialmente omogenea, qui è fortissima la contrapposizione di interessi fra i Paesi (e il nostro è in prima fila) che hanno una forte tradizione nella produzione di prodotti soprattutto agro-alimentari di qualità caratterizzati localmente, e quelli che una tradizione di questo genere non hanno e che quindi tendono piuttosto a favorire i loro produttori che, prendendo a modello quei prodotti, vogliono usare denominazioni e simboli che richiamino le tradizioni alle quali si ispirano, mettendosi commercialmente «al traino» di esse, dando vita al fenomeno che, per i nostri prodotti, è noto come «Italian Sounding», così diffuso e percepito come minaccioso che quest’anno, per effetto del c.d. «Decreto crescita» (D.L. 30 aprile 2019, n. 34, poi convertito nella Legge 28 giugno 2019 n. 58), il Consiglio Nazionale Anticontraffazione è stato formalmente rinominato «Consiglio Nazionale per la lotta alla contraffazione e all’Italian Sounding».

Al di là dei proclami e delle modifiche puramente nominali, quel che è certo è che il contrasto di questi fenomeni passa anzitutto proprio attraverso l’impiego più ampio e diffuso dei marchi collettivi e di certificazione, che le modifiche del Codice della Proprietà Industriale introdotte dalla riforma del 2010 (Decreto Legislativo 13 agosto 2010, n. 131) sembrano indicare come lo strumento idoneo anche a consentire un legittimo sfruttamento dei valori insiti nei nomi geografici «significativi», in particolare attraverso la concessione di licenze: tali disposizioni, ed in particolare l’articolo 19 C.P.I., codificano infatti la possibilità per gli enti pubblici territoriali di utilizzare i nomi geografici e gli altri simboli legati al territorio come strumento per valorizzare le esternalità positive legate alla fama del territorio medesimo, non solo vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario di essa, ma anche – in positivo – monetizzando questa fama, in particolare concedendo questi segni in uso a imprese operanti sul territorio, naturalmente imponendo ad esse limiti precisi per evitare che i segni stessi divengano fonte di inganno, e quindi facendo anche da volano per lo sviluppo di iniziative localizzate nella propria area territoriale, ma anche per progetti di marketing su scala globale.

Al riguardo si deve anzi segnalare che, tra le (spesso infelici, come questa) modifiche del Codice di Proprietà Industriale varate col c.d. «Decreto Crescita» vi è stata anche un’integrazione dell’articolo 10 C.P.I., che ora include tra i segni la cui registrazione richiede l’autorizzazione da parte dell’autorità competente anche «i nomi di Stati e di enti pubblici territoriali italiani », con una previsione superflua nella prima parte, poiché già non si dubitava della riserva di registrazione per i segni distintivi degli Stati, e pericolosa nella seconda, se mai dovesse essere interpretata come riserva di registrazione non solo per la denominazione degli enti – «Comune di Firenze», «Regione Lombardia» – ma anche per i corrispondenti toponimi (Firenze, Lombardia), anche quando non avessero un collegamento con le caratteristiche dei prodotti o servizi contrassegnati (ma opportunamente l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi non sta seguendo questa interpretazione  «estrema»).

Questa possibilità di valorizzazione è ancor più significativa – e foriera di innescare circoli virtuosi, sia per le casse comunali e regionali, sia per le attività economiche locali – là dove al territorio sono legate tipicità produttive (anzitutto, ma non solo, agro-alimentari: si pensi all’artigianato tipico), perché in tal caso si possono immaginare registrazioni di marchi diretti a valersi della fama dei prodotti tipici al fine di promuovere più in generale le attività del territorio, sempre servendosi quindi dello strumento del marchio come volano per la crescita, ma al tempo stesso come fonte di reddito (mediante la percezione dei canoni di licenza ed eventualmente attività di merchandising territoriale). Naturalmente anche in questo caso andranno fatti salvi i diritti consolidati di terzi, anche solo all’uso in funzione non distintiva di questi segni: anche se non si può escludere che una mutata percezione del pubblico possa comportare la decadenza di questi diritti anteriori o consentirne diverse forme di sfruttamento in funzione distintiva.

Analogo discorso, del resto, può essere svolto con riferimento alla normativa vigente in materia di denominazioni di origine e indicazioni geografiche, che consente ai Consorzi di promuovere, sempre anche in un’ottica di valorizzazione territoriale, un uso attivo di tali segni – che passa anche attraverso la registrazione di essi anche come marchi – in relazione a prodotti o servizi anche diversi da quelli «tipici» per i quali gli stessi vengono utilizzati, in primis da imprese radicate sul territorio, anche con finalità turistiche.

Non va infatti dimenticato che il primario interesse dei soggetti legittimati all’uso di una denominazione di origine/indicazione geografica è quello di promuovere il segno in questione, ampliandone il più possibile la stessa reputazione (e quindi il valore e la capacità attrattiva), esattamente come avviene per i titolari dei marchi d’impresa individuali o collettivi. Ed è innegabile che detto obiettivo possa essere raggiunto anche mediante un uso riferito a prodotti/servizi totalmente differenti da quelli per cui la denominazione gode di tutela diretta (ivi comprese attività di vero e proprio merchandising, anche se lo strumento principale per questa valorizzazione sembra essere il co-branding, per affiancare i marchi territoriali a quelli delle singole imprese, in chiave di promozione reciproca, o il licensing mirato), anche per far beneficiare altre attività della fama del territorio sul mercato internazionale.

In questo modo è possibile immaginare sinergie tra enti locali e/o consorzi ed imprese – con un ruolo importante anche per le Camere di Commercio, che potrebbero fare da tramite tra gli uni e le altre, anche con la collaborazione delle Associazioni imprenditoriali e dell’ANCI –, che si traducano in percorsi di business in prospettiva globale, essendo i mercati stranieri (e   specialmente i nuovi grandi mercati aperti dalla globalizzazione, come quello cinese) quelli sui quali il richiamo delle tipicità italiane (ma anche della ricchezza culturale ed ambientale del nostro territorio e dell’eccellenza di buona parte del nostro comparto manifatturiero) assume il massimo potere attrattivo. La chiave di volta, anche in questo caso, sarà rappresentata dalla percezione del pubblico, che è l’elemento decisivo sia per stabilire se un segno è tutelabile, sia per delimitarne l’ambito di tutela, in piena coerenza con le indicazioni che vengono dal diritto comunitario.

Anche queste opportunità sono coerenti col nuovo equilibrio tra esclusive, concorrenza e contratti che si sta delineando, nel quale la protezione può essere riconosciuta solo a ciò che davvero questa protezione richiede, nella consapevolezza del fatto che le norme sono chiamate a disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà, secondo una prospettiva, che potremmo definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale.