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Motivazione del provvedimento amministrativo con particolare riferimento alla valutazione espressa mediante punteggio numerico

La motivazione del provvedimento amministrativo rappresenta il filtro mediante il quale i soggetti amministrati accertano e verificano che l’attività posta in essere dagli amministratori, nella specie la pubblica amministrazione, sia conforme ai principi di correttezza, imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost. nella cura e nel perseguimento di un dato interesse pubblico.

Da ciò si evince l’importanza del ruolo rivestito dalla motivazione del provvedimento amministrativo, motivazione che si pone quale raccordo tra procedimento e decisione della PA in merito alla soddisfazione di un fine di carattere generale.

Prima dell’avvento dell’art. 3 legge n. 241/90 sul procedimento amministrativo non si rinveniva nell’ambito dell’ordinamento giuridico una norma che imponesse alla PA l’adozione di una motivazione in seno ad un dato provvedimento, gli unici casi si rinvenivano nel DPR n. 1199/71 in tema di ricorsi amministrativi e nella Legge Abolitiva del Contenzioso del 1865 n. 2248.

Inizialmente la dottrina, al fine di imporre alla PA di adottare una motivazione per determinati atti, ha fatto leva sul disposto di cui all’art. 111 Cost. il quale prevede che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, nonché sugli artt. 24-97-103-113 Cost. relativamente al diritto di difesa in giudizio a tutela di una propria posizione giuridica avverso gli atti della PA, ad ai principi di correttezza, imparzialità e buon andamento.

L’art. 3 della legge 241 citata nel prevedere che “ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato” ha imposto alla PA un obbligo di specificare l’iter seguito nel provvedere in quel dato modo, evidenziando quale interesse debba prevalere e, conseguentemente quale debba soccombere, nonché di specificare i criteri utilizzati per procedere al suddetto bilanciamento tra interesse pubblico primario da una parte, ed interessi pubblici secondari ed interessi privati dall’altra, il tutto attenendosi alle risultanze della istruttoria. Di fatti la seconda parte del comma 1 art. 3 citato richiede che “la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.

La lettera della legge è chiara, la PA, rispetto ad un non lontano passato, è tenuta ad esplicitare quale sia stato il modus operandi in riferimento a quella data situazione concreta, al fine di permettere al soggetto amministrato, il quale nella maggior parte dei casi è titolare un interesse oppositivo o pretensivo aspirando così ad un bene della vita, di verificare che l’agere del soggetto pubblico sia stato rispettoso non solo dei principi, citati in precedenza, rinvenibili nell’art 97 e 98 c. 1 Cost., ma anche dei principi informatori del procedimento amministrativo di cui all’art. 1 legge n. 241/90 e da ultimo, giusto il filtro di cui artt. 11-117 Cost. ed ultimo inciso comma 1 bis art 1 legge 241 citata, il principio del giusto procedimento di derivazione comunitaria rintracciabile nell’art 296 Trattato funzionamento UE (ex art. 253 TCE).

Solo in questo modo si rafforzano da una parte i legami tra amministrati ed amministratori, dall’altra si permette al privato, in attuazione degli artt. 24-103-111-113 Cost., di impugnare un provvedimento amministrativo in modo consapevole conoscendo già i punti della motivazione ritenuti illegittimi adoperandosi al riguardo.

Questa nuova realtà pone fine alla pratica, in voga fino ad un recente passato, del c.d. ricorso al buio, ove il privato ricorrente impugnava il provvedimento amministrativo senza tuttavia conoscere i vizi per i quali lo impugnava, i medesimi venivano ostentati in un secondo momento una volta che lo stesso ricorrente aveva più chiara e delineata la situazione.

In riferimento all’ambito applicativo dell’obbligo di motivazione il secondo comma dell’art. 3 citato esclude che sussista nei riguardi degli atti normativi e a contenuto generale, trattasi di atti i quali dotati di determinate caratteristiche, quali la generalità, l’astrattezza e l’innovatività, non sono immediatamente lesivi della sfera giuridica del privato.

La dottrina ha inteso escludere dall’ambito dell’obbligo di motivazione sia gli atti di pianificazione che di programmazione, compresi quelli inerenti il piano regolatore generale, sia gli atti di vantaggio per il privato, si pensi a quelli ampliativi per la sua sfera giuridica (in tali casi si parla di motivazione in re ipsa), sia gli atti vincolati, ove non si rinviene l’esercizio di un potere discrezionale della PA, in tali casi parte della giurisprudenza amministrativa richiede la c.d. motivazione minima ossia la ricorrenza dei presupposti di fatto sul quale si fonda il provvedimento e la indicazione delle norme di legge attributive del potere della PA.

Dubbi permangono in riferimento agli atti di alta amministrazione posto che, secondo una prima opinione gli stessi non dovrebbero essere motivati, secondo altra opinione, essendosi in presenza di un provvedimento altamente discrezionale, invece urge la motivazione dello stesso, si pensi al provvedimento di nomina di un direttore della ASL.

L’art. 3 c. 3 prevede anche che l’obbligo di motivazione possa essere adempiuto per relationem ossia rifacendosi ad un altro provvedimento il quale deve essere richiamato dalla decisione e deve essere reso disponibile, naturalmente l’invalidità opererà quando lo stesso manchi del tutto.

In merito ai vizi della motivazione con la cristallizzazione nell’art. 3 citato del suddetto obbligo, alcuni dei vizi che prima rientravano nella categoria dell’eccesso di potere oggi rientrano nella violazione di legge, quali la carenza di motivazione, la mancanza dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche, o vizi attinenti l’istruttoria.

Rientrano invece nella figura dell’eccesso di potere, utilizzato da sempre dalla giurisprudenza quale grimaldello per verificare la legittimità dell’operato della PA, la insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione.

Con la novella del 2005 (leggi n. 15 e 80) la dottrina pone in evidenza come la motivazione del provvedimento amministrativo sia in una fase discendente, di fatti autorevole dottrina parla di dequotazione del vizio motivazionale. Si pensi all’art. 6 lettere e), in tema di responsabile del procedimento amministrativo, ove si prevede che “l’organo competente per l’adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale”.

L’art. 10 bis disciplina il c.d. preavviso di rigetto, trattasi di un provvedimento che di fatti osta all’accoglimento dell’istanza e preclude la possibilità per il privato istante di raggiungere il bene della vita tanto desiderato, tuttavia concedendo la possibilità allo stesso di presentare osservazioni e documenti è possibile che la PA torni sui suoi passi accertando che l’integrazione del provvedimento, posta in essere dal privato, abbia de facto sanato il provvedimento prima viziato.

L’art. 21 octies comma 2 nelle sue parti (in tema di annullabilità del provvedimento amministrativo), la prima riservata agli atti vincolati e la seconda anche agli atti discrezionali, ammette una sanatoria del provvedimento annullabile in presenza delle condizioni richieste dalla suddetta disposizione.

Sulla base di tali articolati di legge, e da ultimo anche l’art. 1 legge 205/00 che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dei motivi aggiunti (recentemente disciplinato dall’art 43 codice processo amministrativo), si è passati, secondo autorevole dottrina, da un giudizio sull’atto ad un giudizio sul rapporto con contestuale ammissibilità, secondo una parte della giurisprudenza amministrativa (soprattutto dei TAR), ma sconfessata dalla giurisprudenza maggioritaria del Consiglio di Stato, della possibilità che, nel corso di un giudizio di impugnazione di un provvedimento amministrativo, lo stesso possa essere integrato da una motivazione postuma della PA così sanando le illegittimità di cui era affetto.

Tutt’ora è dibattuto in dottrina ma soprattutto in giurisprudenza se, in conformità all’art. 3 legge 241/90 nonché dei principi costituzionali e comunitari operanti in subiecta materia, sia legittimo che la PA possa procedere a valutazioni espresse mediante punteggio numerico.

La tesi oggi prevalente nella giurisprudenza del Consiglio di Stato (su tutte Consiglio di Stato Sez. IV n. 5110/09, Cons. Stato Sez. IV n. 548/10 ma soprattutto Corte Costituzionale n. 20/09) propende per la sua ammissibilità ritenendo che la motivazione alfanumerica rappresenti una formula sintetica ove sono racchiuse le valutazioni ed i giudizi, inerenti quella data fattispecie concreta, posti dalla PA.

Difatti si ritiene che nel momento in cui la PA si sia attenuta ai criteri prefissati ex ante, come prevede in tema di trasparenza amministrativa nei procedimenti concorsuali l’art. 12 del DPR n. 487/94, appare superfluo e controproducente procedere ad una motivazione sintetica posto che ciò potrebbe pregiudicare l’azione amministrativa con contestuale violazione del principio di non aggravamento del procedimento amministrativo e di celerità e speditezza della condotta della PA.

Tuttavia tale presa di posizione è stata oggetto di critiche da una parte della giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria. Proprio una parte della giurisprudenza ritiene che tale agere della PA sia illegittimo e dannoso nei confronti di coloro i quali siano destinatari del giudizio (su tutte Consiglio di Stato Sez. V n. 5145/09, Cons. Stato Sez. VI n.5447/09).

Si è posto in evidenza come in tale situazione sarebbe frustrato il diritto spettante al privato a che la PA ponga in essere una condotta rispettosa dei già richiamati principi di buon andamento, correttezza ed imparzialità con contestuale vulnus anche dei principi desumibili dall’art. 1 legge n. 241/90 e del principio del giusto procedimento ex art. 296 TFUE.

In una tale situazione il privato non sarebbe consapevole dell’operato posto in essere dalla PA quando la motivazione sia espressa da un mero punteggio numerico da cui non si possa desumere la legittimità od illegittimità della condotta tenuta dal soggetto pubblico.

La giurisprudenza ha cercato di colmare dette lacune richiedendo ad esempio la fissazione, in via ex ante e non ex post, di griglie di valutazione con il richiamo per ciascun parametro afferente la griglia di un punteggio cha vada da un minimo ad un massimo prefissato.

In altri casi, soprattutto per giudizi di particolare complessità la giurisprudenza ha richiesto una motivazione sintetica e succinta; in altri casi ancora si è ritenuto che l’obbligo di motivazione possa essere adempiuto mediante l’indicazione a margine del testo di glosse o segni grafici.

Nel corso del 2008 era stata sollevata dal alcuni Tar, una questione di legittimità costituzionale di tale “pratica/prassi” oramai adottata dalla PA nei pubblici concorsi ed avallata, da ultimo con pronunzie del 2009, dal Consiglio di Stato.

Sul punto la Corte Costituzionale, con la pronunzia n. 20/09, ha di fatti confermato l’orientamento maggioritario del Consiglio di Stato, legittimando il ricorso al voto alfanumerico considerandolo “diritto vivente”; si afferma che il privato può, al fine di tutelare la propria posizione giuridica, adire il giudice amministrativo perché accerti, attraverso una forma di sindacato debole, l’operato della PA valutando i criteri predisposti dalla stessa ex ante sotto il profilo della logicità, sufficienza e congruità.

Una terza tesi ritiene che si debba pervenire ad una sorta di compromesso tra quella che richiede una motivazione seppure succinta e sintetica da associare al voto numerico, e l’altra che reputa sufficiente e rispettoso dei principi generali il solo voto numerico.

In particolare si afferma che la soluzione potrebbe essere individuata nel d. lgs. n. 166/06 relativo al concorso notarile.

L’art. 11 comma 5, rubricato “correzione delle prove scritte”, nel prevedere che “il giudizio di non idoneità è motivato.

Nel giudizio di idoneità il punteggio vale motivazione” (lo stesso meccanismo è previsto per le prove orali ex art. 12 comma 5 decreto citato) si pone come una mediazione tra le due tesi poste oggi al tappeto dalla giurisprudenza. La posizione giuridica del privato, quindi, non viene ad essere scalfita posto che lo stesso si rende conto dell’operato della PA nel caso di giudizio negativo (mentre non è chiesto nel caso di giudizio positivo), dall’altra non si avrebbe un aggravamento del procedimento perché la PA sarebbe esente dal motivare i giudizi di idoneità.

Sul punto parte della dottrina, preso atto dell’attuale contrasto non ancora sopito, auspica un intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato al fine pervenire ad una soluzione che sia rispettosa della sfera giuridica del privato e di quella della PA, nonché quella della collettività la quale anch’essa si attende che l’operato e l’agere della PA sia trasparente, legittimo e quindi rispettoso dei principi di cui all’art. 97 Cost ed art. 1 legge n. 241/90.

La motivazione del provvedimento amministrativo rappresenta il filtro mediante il quale i soggetti amministrati accertano e verificano che l’attività posta in essere dagli amministratori, nella specie la pubblica amministrazione, sia conforme ai principi di correttezza, imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost. nella cura e nel perseguimento di un dato interesse pubblico.

Da ciò si evince l’importanza del ruolo rivestito dalla motivazione del provvedimento amministrativo, motivazione che si pone quale raccordo tra procedimento e decisione della PA in merito alla soddisfazione di un fine di carattere generale.

Prima dell’avvento dell’art. 3 legge n. 241/90 sul procedimento amministrativo non si rinveniva nell’ambito dell’ordinamento giuridico una norma che imponesse alla PA l’adozione di una motivazione in seno ad un dato provvedimento, gli unici casi si rinvenivano nel DPR n. 1199/71 in tema di ricorsi amministrativi e nella Legge Abolitiva del Contenzioso del 1865 n. 2248.

Inizialmente la dottrina, al fine di imporre alla PA di adottare una motivazione per determinati atti, ha fatto leva sul disposto di cui all’art. 111 Cost. il quale prevede che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, nonché sugli artt. 24-97-103-113 Cost. relativamente al diritto di difesa in giudizio a tutela di una propria posizione giuridica avverso gli atti della PA, ad ai principi di correttezza, imparzialità e buon andamento.

L’art. 3 della legge 241 citata nel prevedere che “ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato” ha imposto alla PA un obbligo di specificare l’iter seguito nel provvedere in quel dato modo, evidenziando quale interesse debba prevalere e, conseguentemente quale debba soccombere, nonché di specificare i criteri utilizzati per procedere al suddetto bilanciamento tra interesse pubblico primario da una parte, ed interessi pubblici secondari ed interessi privati dall’altra, il tutto attenendosi alle risultanze della istruttoria. Di fatti la seconda parte del comma 1 art. 3 citato richiede che “la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.

La lettera della legge è chiara, la PA, rispetto ad un non lontano passato, è tenuta ad esplicitare quale sia stato il modus operandi in riferimento a quella data situazione concreta, al fine di permettere al soggetto amministrato, il quale nella maggior parte dei casi è titolare un interesse oppositivo o pretensivo aspirando così ad un bene della vita, di verificare che l’agere del soggetto pubblico sia stato rispettoso non solo dei principi, citati in precedenza, rinvenibili nell’art 97 e 98 c. 1 Cost., ma anche dei principi informatori del procedimento amministrativo di cui all’art. 1 legge n. 241/90 e da ultimo, giusto il filtro di cui artt. 11-117 Cost. ed ultimo inciso comma 1 bis art 1 legge 241 citata, il principio del giusto procedimento di derivazione comunitaria rintracciabile nell’art 296 Trattato funzionamento UE (ex art. 253 TCE).

Solo in questo modo si rafforzano da una parte i legami tra amministrati ed amministratori, dall’altra si permette al privato, in attuazione degli artt. 24-103-111-113 Cost., di impugnare un provvedimento amministrativo in modo consapevole conoscendo già i punti della motivazione ritenuti illegittimi adoperandosi al riguardo.

Questa nuova realtà pone fine alla pratica, in voga fino ad un recente passato, del c.d. ricorso al buio, ove il privato ricorrente impugnava il provvedimento amministrativo senza tuttavia conoscere i vizi per i quali lo impugnava, i medesimi venivano ostentati in un secondo momento una volta che lo stesso ricorrente aveva più chiara e delineata la situazione.

In riferimento all’ambito applicativo dell’obbligo di motivazione il secondo comma dell’art. 3 citato esclude che sussista nei riguardi degli atti normativi e a contenuto generale, trattasi di atti i quali dotati di determinate caratteristiche, quali la generalità, l’astrattezza e l’innovatività, non sono immediatamente lesivi della sfera giuridica del privato.

La dottrina ha inteso escludere dall’ambito dell’obbligo di motivazione sia gli atti di pianificazione che di programmazione, compresi quelli inerenti il piano regolatore generale, sia gli atti di vantaggio per il privato, si pensi a quelli ampliativi per la sua sfera giuridica (in tali casi si parla di motivazione in re ipsa), sia gli atti vincolati, ove non si rinviene l’esercizio di un potere discrezionale della PA, in tali casi parte della giurisprudenza amministrativa richiede la c.d. motivazione minima ossia la ricorrenza dei presupposti di fatto sul quale si fonda il provvedimento e la indicazione delle norme di legge attributive del potere della PA.

Dubbi permangono in riferimento agli atti di alta amministrazione posto che, secondo una prima opinione gli stessi non dovrebbero essere motivati, secondo altra opinione, essendosi in presenza di un provvedimento altamente discrezionale, invece urge la motivazione dello stesso, si pensi al provvedimento di nomina di un direttore della ASL.

L’art. 3 c. 3 prevede anche che l’obbligo di motivazione possa essere adempiuto per relationem ossia rifacendosi ad un altro provvedimento il quale deve essere richiamato dalla decisione e deve essere reso disponibile, naturalmente l’invalidità opererà quando lo stesso manchi del tutto.

In merito ai vizi della motivazione con la cristallizzazione nell’art. 3 citato del suddetto obbligo, alcuni dei vizi che prima rientravano nella categoria dell’eccesso di potere oggi rientrano nella violazione di legge, quali la carenza di motivazione, la mancanza dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche, o vizi attinenti l’istruttoria.

Rientrano invece nella figura dell’eccesso di potere, utilizzato da sempre dalla giurisprudenza quale grimaldello per verificare la legittimità dell’operato della PA, la insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione.

Con la novella del 2005 (leggi n. 15 e 80) la dottrina pone in evidenza come la motivazione del provvedimento amministrativo sia in una fase discendente, di fatti autorevole dottrina parla di dequotazione del vizio motivazionale. Si pensi all’art. 6 lettere e), in tema di responsabile del procedimento amministrativo, ove si prevede che “l’organo competente per l’adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale”.

L’art. 10 bis disciplina il c.d. preavviso di rigetto, trattasi di un provvedimento che di fatti osta all’accoglimento dell’istanza e preclude la possibilità per il privato istante di raggiungere il bene della vita tanto desiderato, tuttavia concedendo la possibilità allo stesso di presentare osservazioni e documenti è possibile che la PA torni sui suoi passi accertando che l’integrazione del provvedimento, posta in essere dal privato, abbia de facto sanato il provvedimento prima viziato.

L’art. 21 octies comma 2 nelle sue parti (in tema di annullabilità del provvedimento amministrativo), la prima riservata agli atti vincolati e la seconda anche agli atti discrezionali, ammette una sanatoria del provvedimento annullabile in presenza delle condizioni richieste dalla suddetta disposizione.

Sulla base di tali articolati di legge, e da ultimo anche l’art. 1 legge 205/00 che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dei motivi aggiunti (recentemente disciplinato dall’art 43 codice processo amministrativo), si è passati, secondo autorevole dottrina, da un giudizio sull’atto ad un giudizio sul rapporto con contestuale ammissibilità, secondo una parte della giurisprudenza amministrativa (soprattutto dei TAR), ma sconfessata dalla giurisprudenza maggioritaria del Consiglio di Stato, della possibilità che, nel corso di un giudizio di impugnazione di un provvedimento amministrativo, lo stesso possa essere integrato da una motivazione postuma della PA così sanando le illegittimità di cui era affetto.

Tutt’ora è dibattuto in dottrina ma soprattutto in giurisprudenza se, in conformità all’art. 3 legge 241/90 nonché dei principi costituzionali e comunitari operanti in subiecta materia, sia legittimo che la PA possa procedere a valutazioni espresse mediante punteggio numerico.

La tesi oggi prevalente nella giurisprudenza del Consiglio di Stato (su tutte Consiglio di Stato Sez. IV n. 5110/09, Cons. Stato Sez. IV n. 548/10 ma soprattutto Corte Costituzionale n. 20/09) propende per la sua ammissibilità ritenendo che la motivazione alfanumerica rappresenti una formula sintetica ove sono racchiuse le valutazioni ed i giudizi, inerenti quella data fattispecie concreta, posti dalla PA.

Difatti si ritiene che nel momento in cui la PA si sia attenuta ai criteri prefissati ex ante, come prevede in tema di trasparenza amministrativa nei procedimenti concorsuali l’art. 12 del DPR n. 487/94, appare superfluo e controproducente procedere ad una motivazione sintetica posto che ciò potrebbe pregiudicare l’azione amministrativa con contestuale violazione del principio di non aggravamento del procedimento amministrativo e di celerità e speditezza della condotta della PA.

Tuttavia tale presa di posizione è stata oggetto di critiche da una parte della giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria. Proprio una parte della giurisprudenza ritiene che tale agere della PA sia illegittimo e dannoso nei confronti di coloro i quali siano destinatari del giudizio (su tutte Consiglio di Stato Sez. V n. 5145/09, Cons. Stato Sez. VI n.5447/09).

Si è posto in evidenza come in tale situazione sarebbe frustrato il diritto spettante al privato a che la PA ponga in essere una condotta rispettosa dei già richiamati principi di buon andamento, correttezza ed imparzialità con contestuale vulnus anche dei principi desumibili dall’art. 1 legge n. 241/90 e del principio del giusto procedimento ex art. 296 TFUE.

In una tale situazione il privato non sarebbe consapevole dell’operato posto in essere dalla PA quando la motivazione sia espressa da un mero punteggio numerico da cui non si possa desumere la legittimità od illegittimità della condotta tenuta dal soggetto pubblico.

La giurisprudenza ha cercato di colmare dette lacune richiedendo ad esempio la fissazione, in via ex ante e non ex post, di griglie di valutazione con il richiamo per ciascun parametro afferente la griglia di un punteggio cha vada da un minimo ad un massimo prefissato.

In altri casi, soprattutto per giudizi di particolare complessità la giurisprudenza ha richiesto una motivazione sintetica e succinta; in altri casi ancora si è ritenuto che l’obbligo di motivazione possa essere adempiuto mediante l’indicazione a margine del testo di glosse o segni grafici.

Nel corso del 2008 era stata sollevata dal alcuni Tar, una questione di legittimità costituzionale di tale “pratica/prassi” oramai adottata dalla PA nei pubblici concorsi ed avallata, da ultimo con pronunzie del 2009, dal Consiglio di Stato.

Sul punto la Corte Costituzionale, con la pronunzia n. 20/09, ha di fatti confermato l’orientamento maggioritario del Consiglio di Stato, legittimando il ricorso al voto alfanumerico considerandolo “diritto vivente”; si afferma che il privato può, al fine di tutelare la propria posizione giuridica, adire il giudice amministrativo perché accerti, attraverso una forma di sindacato debole, l’operato della PA valutando i criteri predisposti dalla stessa ex ante sotto il profilo della logicità, sufficienza e congruità.

Una terza tesi ritiene che si debba pervenire ad una sorta di compromesso tra quella che richiede una motivazione seppure succinta e sintetica da associare al voto numerico, e l’altra che reputa sufficiente e rispettoso dei principi generali il solo voto numerico.

In particolare si afferma che la soluzione potrebbe essere individuata nel d. lgs. n. 166/06 relativo al concorso notarile.

L’art. 11 comma 5, rubricato “correzione delle prove scritte”, nel prevedere che “il giudizio di non idoneità è motivato.

Nel giudizio di idoneità il punteggio vale motivazione” (lo stesso meccanismo è previsto per le prove orali ex art. 12 comma 5 decreto citato) si pone come una mediazione tra le due tesi poste oggi al tappeto dalla giurisprudenza. La posizione giuridica del privato, quindi, non viene ad essere scalfita posto che lo stesso si rende conto dell’operato della PA nel caso di giudizio negativo (mentre non è chiesto nel caso di giudizio positivo), dall’altra non si avrebbe un aggravamento del procedimento perché la PA sarebbe esente dal motivare i giudizi di idoneità.

Sul punto parte della dottrina, preso atto dell’attuale contrasto non ancora sopito, auspica un intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato al fine pervenire ad una soluzione che sia rispettosa della sfera giuridica del privato e di quella della PA, nonché quella della collettività la quale anch’essa si attende che l’operato e l’agere della PA sia trasparente, legittimo e quindi rispettoso dei principi di cui all’art. 97 Cost ed art. 1 legge n. 241/90.