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Lo strumento arbitrale quale mezzo alternativo di risoluzione delle controversie

SOMMARIO:

1. Lineamenti generali

2. Le “novelle” del 1983, 1994, 2006

3. Arbitrato rituale ed irrituale

4. Arbitrato e principi costituzionali.

1. Lineamenti generali

L’arbitrato, come categoria generale, può essere definito come un processo privato alternativo al giudizio ordinario; è stato definito, ancora, come il risultato di una sequenza di attività che realizzano una sorta di una giustizia cognitiva privata, cioè dettata da un privato e non da un giudice.

Questo tipo di giudizio ha per oggetto controversie su posizioni e pretese che potremo definire giuridiche, si svolge innanzi un privato, l’arbitro, e con la partecipazione dei litiganti, in contraddittorio; mette capo ad una disposizione vincolante (dell’arbitro) tra le parti.

Per La China l’arbitrato costituisce “un modo di definizione delle controversie civili alternativo alla via giudiziaria…e caratterizzato da due aspetti essenziali: sono le parti della controversia a scegliere liberamente coloro che dovranno deciderla; sono le parti a conferire ad essi il potere ed autorità di rendere tale decisione”.

La forma arbitrale da sempre ha rappresentato un “unicum” all’interno di qualsiasi ordinamento giuridico mutando strutture e funzioni in presenza dei cambiamenti che possono aversi in una data realtà sociale, in questo modo il fenomeno arbitrale può essere letto e sviluppato sotto un ottica dinamica e storica e non statica ed astorica.

In questo modo è possibile individuare, in primis, il ruolo che l’arbitrato viene ad assumere nelle singole società, ma anche i suoi rapporti con la giustizia statuale. Nelle società arcaiche, prive di una organizzazione statuale, la risposta più diffusa alla violazione di una norma era la rappresaglia, ossia la vendetta privata; in questi casi il gruppo, subita l’offesa, interveniva scatenando le ostilità, così si venivano a creare gruppi di consociati tutti avversari tra loro.

Tuttavia, in determinate situazioni, era possibile evitare lo scontro grazie all’intervento di un paciere, il quale si poneva in mezzo ai gruppi litiganti per tentare di raggiungere un accordo, accordo questo che sfociava proprio nel conferimento allo stesso paciere della funzione di arbitro; la sua attività non terminava con il giudicare su una data controversia in modo inappellabile, ma si svolgeva anche nella successiva fase, con l’attribuzione a lui della possibilità di perseguire, con la forza, coloro che violavano la pace raggiunta.

E’ stato affermato, in dottrina, che una simile situazione, ove appunto il paciere o arbitro privato non solo ha il potere di risolvere la controversia e quindi di giudicare ma anche quello di far rispettare con la forza il proprio “dictum”, è incompatibile con la formazione di una organizzazione statale: il divieto di ricorrere alla violenza e la rivendicazione del monopolio della forza rappresenta il dato caratterizzante del sorgere dello Stato.

Ciò nonostante se appare giusto che lo Stato rivendichi a suo favore il monopolio della forza e di fare le leggi poiché questo è essenziale per la crescita di uno Stato, non è essenziale invece che lo Stato stesso abbia il monopolio del diritto.

Infatti in qualsiasi realtà sociale dovrebbe essere sempre lasciato uno spazio ai soggetti privati, anche nel campo del diritto, dato che non è ammessa alcuna prerogativa esclusiva dello Stato in questo settore.

Lo spazio sociale è quello in cui trova piena esplicazione la cosiddetta “autonomia privata”, spazio in cui non viene compromesso un interesse primario dello Stato, ad esempio interesse primario dello Stato può essere il rispetto dell’”ordine pubblico”, concetto questo in cui rientrano tutti quei principi e quelle norme che rientrano appunto nella espressione “ordine pubblico”.

In questo spazio, lasciato all’autonomia privata, vengono a collocarsi i mezzi di “autocomposizone” ed “eterocomposizione” delle liti: nel primo caso rientra la transazione, nel secondo caso l’arbitrato.

Da sempre l’arbitrato è stato utilizzato come mezzo di risoluzione delle controversie alternativo alla giurisdizione di un giudice togato, la sua rilevanza addirittura ha carattere internazionale soprattutto per controversie di natura economica o commerciale ma anche politica.

Ad esempio si pensi all’impiego dell’arbitrato, nella risoluzione dell’enorme contenzioso tra Stati Uniti ed Iran; o ancora la costituzione di un tribunale arbitrale al fine di risolvere la disputa territoriale di Taba, insorta tra Egitto e Israele; si è fatto ricorso anche in rapporto al noto incidente della nave Greenpeace.

A livello internazionale il favor verso l’arbitrato trova riscontro nei paesi più industrializzati, sia nei paesi di tradizione capitalistica sia nei paesi ex-socialisti, ma anche, odiernamente, nei paesi in via di sviluppo, oggi l’istituto arbitrale si pone come una vera e propria realtà nel panorama internazionale.

Il favor deriva dalla accettazione dell’arbitrato come espressione di lealtà e buona fede a livello sia nazionale che internazionale, ma anche perché presenta delle caratteristiche particolari che lo pongono come importante strumento per gli operatori economici e come fonte di produzione di norme giuridiche applicabili al commercio internazionale (si pensi al ruolo particolare che svolge nella messa in opera degli usi mercantili).

A livello internazionale non esiste un contratto, avente natura economica o commerciale, che non contenga una clausola compromissoria per cui appare difficile pretendere che questo istituto non trovi ampio utilizzo in una data realtà sociale.

Tra i vantaggi dell’arbitrato a livello internazionale basti ricordare: la molteplicità delle giurisdizioni potenzialmente competenti; la formazione di un corpus di regole e norme rientranti talvolta individuate con l’espressione “Lex Mercatoria” applicabili al ceto degli operatori economici internazionali; il bisogno di conferire il potere di decidere una data controversia a soggetti dotati di particolare competenza e professionalità nei vari settori del commercio internazionale; l’inesistenza, nelle dispute tra soggetti di diversa nazionalità, di un giudizio neutrale e parziale.

In presenza di questi caratteri l’arbitrato si presenta, nei rapporti internazionali, usando le parole del Bernini, “non tanto come l’oggetto di una scelta tuttora aperta, ma piuttosto come l’espressione di un giudizio di valore da tempo acquisito”.

Sempre a livello internazionale una spinta verso la costituzione di un diritto comune dell’arbitrato si è avuto con:

1) La Convenzione di New York del 10 giugno 1958 sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, entrata in vigore, a livello internazionale, nel 1959 e ratificata dall’Italia con legge n. 62/1968 essa è entrata in vigore nel nostro paese il 1 maggio 1969.

2) La Convenzione di Ginevra del 21 aprile 1961, entrata in vigore a livello internazionale il 7 gennaio 1964, denominata “Convenzione Europea sull’arbitrato commerciale internazionale”, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 418/1970 ed entrata in vigore il 1 novembre 1970.

Sia la Convenzione di New York sia quella di Ginevra hanno istituito un corpus di norme che costituiscono il sistema normativo riferibile alla materia del riconoscimento e della esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, va dato atto che entrambe le convenzioni hanno contribuito alla introduzione dell’istituto dell’arbitrato internazionale di diritto privato, con ciò si è voluto porre fine alla disparità che c’era stata fino a quel momento con gli operatori economici stranieri, i quali già da tempo facevano ampio ricorso a detta procedura.

Al riguardo Fazzalari così si esprime: “sulla scorta di tali grandi Convenzioni comincia a delinearsi la tendenza verso un “diritto comune” dell’arbitrato cioè verso una uniformità di disciplina da parte dei vari Stati”.

Se dal punto di vista internazionale l’arbitrato ha riscontrato un certo successo, la stessa cosa è avvenuto a livello nazionale, ove il ricorso a questa procedura è stato imponente. In molti paesi del mondo gli stessi organi giudiziari (ma comunque non sempre ciò si è riscontrato) hanno incoraggiato il ricorso all’arbitrato e questo innanzi tutto al fine di decongestionare il contenzioso ed evitare possibili paralisi della giustizia, ma anche consentire che determinate controversie (aventi natura economica o commerciale) possano avere una più efficace trattazione.

Le ragioni che hanno portato l’arbitrato ad avere un certo successo sono varie: si pensi alla fuga dalla giustizia togata, giustizia questa non sempre efficiente ed attualmente oberata da una valanga di contenzioso ancora da smaltire, ma altre sono le cause che portano l’arbitrato come fondamentale strumento di risoluzione delle controversie:

1) Il cittadino sceglie e nomina il proprio giudice il quale pronunzierà su una controversia che non tocca i diritti fondamentali, cioè quelli che non possono essere oggetto di compromesso o clausola compromissoria, il tutto da considerarsi come una piena e legittima espressione della autonomia privata.

2) Costi per il cittadino più contenuti rispetto alle ingenti spese cui deve far fronte un soggetto che ricorre alla giustizia ordinaria, infatti da un punto di vista strettamente economico rilevanti sono le differenze, a livello di spese processuali, tra la procedura arbitrale ed un giudizio ordinario.

3) Riduzione drastica dei tempi della controversia: nell’ordinamento italiano in media una causa civile o penale può durare anche decenni o più (se tutto va bene!), nei giudizi arbitrali i tempi procedurali sono notevolmente ridimensionati, naturalmente il tutto a vantaggio delle parti.

4) Maggiore flessibilità nella presentazione della prova.

5) Particolare specializzazione della controversia, la quale risulta impregnata da un alto grado di tecnica e metodo.

6) Il rilievo che l’arbitrato dà per la ricerca di giustizia sostanziale, con ciò si vuole evitare quello che accade nei giudizi ordinari, cioè che le parti si prefiggono l’obbiettivo di prolungare sine die la durata di un procedimento, si pensi al comportamento posto in essere dalle parti le quali, mediante tecnicismi e cavilli vari, tendono sempre più ad allungare i tempi di un processo anche ai fini della prescrizione del reato, e questo porta ad una paralisi dei procedimenti giudiziari.

7) Fissazione di calendari di lavoro individuali per ciascuna controversia, anche in questo caso ci si prefigge l’obbiettivo di semplificazione della procedura arbitrale rispetto ad un normale procedimento ordinario.

Tutti questi elementi hanno portato l’istituto dell’arbitrato ad avere un notevole sviluppo all’interno del nostro paese, infatti “il settore arbitrale è altamente competitivo”, come rileva il Bernini, soprattutto anche grazie al lavoro svolto dalla nostra dottrina; a livello dottrinario infatti l’Italia nulla ha da invidiare agl’altri paesi, dato che la nostra cultura arbitrale è molto apprezzata all’estero.

Il successo dell’arbitrato lo si riscontra anche prima della riforma legislativa del 1983 ( riforma riguardante l’arbitrato), infatti vari sono gli studiosi e giuristi italiani che sono da tempo presenti in varie associazioni ed istituti internazionali e partecipano, in qualità di docenti o avvocati, ad importanti iniziative culturali o procedimenti internazionali.

Ad esempio l’Italia è rappresentata nell’ambito dell’International Council for Commercial Arbitration (ICCA), questo organismo si occupa della ricerca, studio, promozione nel settore arbitrale, ed è composto da 30 membri provenienti da varie nazioni diverse, il loro diverso apporto è importante dato che solo con il confronto delle varie dottrine è possibile sviluppare l’istituto dell’arbitrato.

A livello nazionale è importante fare un cenno all’Associazione Italiana per l’Arbitrato (AIA) e la Sezione Italiana della Camera di Commercio Internazionale. L’AIA è in organismo importante dato che ha contribuito non poco alle varie riforme che si sono avute in tema di arbitrato (quali quelle del 1983, del 1994 e da ultimo del 2006) ma anche a livello internazionale essa svolge un peculiare compito.

Comunque ai fini di una completa diffusione della cultura arbitrale un ruolo fondamentale è riservato alla qualità dei servizi resi da questo strumento, più alti sono i servizi offerti e più si ha sviluppo, ed in questo caso risulta rilevante l’apporto dato dai soggetti che operano in questo campo.

A livello generale la dottrina richiede che, per potere avere successo l’arbitrato, “l’attenzione e gli sforzi dovranno concentrarsi su tre direzioni: in primo luogo verso l’intelligente diffusione di un ragionato favor arbitrale nel contesto delle potenzialità offerte dal nostro paese; in secondo luogo un rafforzamento delle istituzioni esistenti (in questo caso le Camere arbitrali istituite presso le Camere di Commercio possono svolgere un importante ruolo) al preciso scopo di tenere il passo con la costante evoluzione dell’arbitrato; in terzo luogo verso la formazione ed il continuato aggiornamento professionale di studiosi ed operatori del settore” perché, aggiungo io, possa formarsi una classe arbitrale di cui l’Italia non ne può fare a meno.

Questo ultimo punto, in particolare, merita attenzione.

Arbitrare significa decidere, infatti, si sostiene, in dottrina (Bernini), che “all’arbitro viene chiesto di conoscere una controversia che consiste nel contrasto su posizioni e pretese giuridiche, ad egli si richiede di risolverla quindi di giudicare”.

L’arbitrato non può essere più considerato come lo strumento mediante al quale si tende al raggiungimento di una transazione tra le parti in causa, bensì è da considerarsi come un vero e proprio giudizio che termina con una pronunzia (il lodo arbitrale) che vincola i soggetti della lite.

Al riguardo è importante se non fondamentale stimolare o comunque sollecitare le capacità intellettive e professionali di un arbitro, perché appunto possa pronunziare, riguardo una data controversia, nel modo più opportuno.

Come sostiene il Bernini “la capacità di decidere comporta doti di equilibrio, sensibilità a ragioni di giustizia sostanziale e abilità nel discernere tra le tesi in contrapposizione, che esulano dall’ambito di una pur eccellente preparazione professionale. Esse affondano le proprie radici anche in elementi di natura culturale ed etica, psicologica e caratteriale che, in molti casi, prescindono dalla specifica preparazione e specializzazione risultanti dall’identikit professionale dell’arbitro nelle varie situazioni”.

Nel momento in cui si procede alla formazione di un arbitro queste doti possono essere messe in risalto non solo mediante lo studio del diritto e della giurisprudenza arbitrale ma anche attraverso determinate attività pratiche quali ad esempio la simulazione di procedimenti arbitrali.

2. Le “novelle” del 1983, 1994, 2006.

“L’arbitrato può germinare e vivere dentro e fuori gli ordinamenti statuali”, così è solennemente affermato nell’enciclopedia UTET nella voce Arbitrato, con ciò si vuole evidenziare che lo strumento arbitrale assume rilevanza e svolge il suo compito sia all’interno di un determinato ordinamento giuridico e sia all’infuori di esso.

L’arbitrato rappresenta una delle più spiccate manifestazioni di autonomia privata, autonomia questa oggetto di concessione da parte di un determinato ordinamento giuridico.

Nel definire l’istituto arbitrale una delle domande che sempre ci si pone concerne la rilevanza che la risoluzione della controversia da parte dell’arbitro può avere nella “civitas”, vuoi da parte dei soggetti della lite, vuoi da parte del potere statale, che non ignora il fenomeno arbitrale, sia per effettuare su di esso (l’arbitrato) controlli e sia per dotarlo di garanzie.

Più in generale si può constatare come siano i litiganti che cercano di assicurare all’arbitrato una certa rilevanza, questo lo si ottiene ponendo in essere la procedura arbitrale secondo le leggi e le norme dello Stato, così esso viene in un certo senso ad impadronirsi dell’arbitrato, facendolo proprio attraverso il ricorso alle garanzie e ai controlli precedentemente menzionati.

Il Fazzalari parla di “emersione dell’arbitrato nell’ordinamento dello Stato…, tuttavia il rapporto fra l’arbitrato e gli ordinamenti statuali si è, per lungo tempo, posto e risolto con la prevalenza della logica degli Stati”.

Però questo intervento dello Stato, come sostiene autorevolmente l’Enciclopedia UTET; “sopra o nella giustizia arbitrale, se in principio trova i sudditi proclivi o rassegnati, poscia li spinge ad escogitare ed a porre in atto altre forme di arbitrato, di nuovo più snelle, ma perciò meno garantite; per inserirle poi, nei limiti in cui ad essi appare necessario, nell’ambito dei fenomeni rilevanti per le leggi della comunità”.

Nel nostro ordinamento giuridico l’arbitrato si presenta come processo di natura privatistica, sia per quanto riguarda l’arbitrato rituale (questo soprattutto dopo le riforme del 1983 e del 1994) che quello irrituale.

Un “processo” che è voluto dalle parti (che possono essere due o più soggetti) mediante convenzione privata di deferire la controversia su posizioni giuridiche sostanziali ad un soggetto terzo il quale è appunto scelto da loro, la pronunzia resa dall’arbitro è vincolante nei confronti delle parti, il lodo emesso dall’arbitro tra l’altro “ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dalla autorità giudiziaria” (art. 824 bis del cod. proc. civ.), salvo comunque quanto disposto dall’art. 825 cod. proc. civ. relativo alla richiesta di omologazione del lodo al tribunale.

Nel corso del tempo, cioè dal 1942 ad oggi, l’arbitrato ha assunto sempre una fisionomia diversa, per quanto concerne l’arbitrato rituale ( ma in parte anche per l’arbitrato irrituale) esso trova fonte nelle norme del codice di procedura civile, Titolo VIII, articoli 806 e seguenti.

Il Titolo VIII del codice di procedura civile è stato col tempo soggetto a cambiamenti che di fatti portano oggi l’arbitrato ad avere una fisionomia differente rispetto al passato, le riforme (o novelle ) che hanno riguardato lo strumento arbitrale risalgono al 1983, al 1994 e da ultimo il 2006:

1) Il primo intervento del legislatore in materia di arbitrato si è avuto con la legge n. 28 del 9 febbraio 1983 che ha riformato varie norme del codice di rito, tra le novità abbiamo che:

a) era stata abolita la restrizione secondo la quale solo i cittadini italiani potevano agire in qualità di arbitri, barriera preclusiva questa non contemplata dalla Convenzione di Ginevra del 1961.

b) innovazioni in materia di lodo, questo doveva contenere “l’indicazione del luogo dove gli arbitri hanno reso la loro deliberazione….. nonché le firme di tutti gli arbitri assieme all’indicazione della data in cui era stata apposta”.

Sempre in tema di lodo la riforma aveva disposto che il lodo doveva essere redatto dagli arbitri in un numero di originali pari a quelli delle parti e che una copia doveva essere inviata a ciascuna parte entro 10 giorni dall’ultima firma anche mediante raccomandata, un’altra novità era rappresentata dalla facoltatività del deposito del lodo presso la Pretura, in precedenza il deposito era obbligatorio e costituiva motivo di nullità del lodo ex art. 829 del codice di rito. Il deposito non era quindi più obbligatorio e le parti a loro discrezione potevano depositare il lodo, presso la Pretura, entro un anno dal momento del ricevimento.

2) Il secondo intervento riformatore si è avuto con la legge n. 25 del 5 gennaio 1994, la legge ha innovato il Titolo VIII del codice di rito apportando modifiche di un certo rilievo, ma ha inciso anche su altre norme a livello processuale e sostanziale, nel primo caso in materia di provvedimenti cautelari, nel secondo caso in materia di prescrizione e trascrizione. Le novità che concernono l’arbitrato sono:

a) l’introduzione di una specifica disciplina relativa all’arbitrato internazionale con l’introduzione di nuovi articoli nel codice di rito, esso, si afferma in dottrina, “non costituisce un genus a sé rispetto all’arbitrato rituale, sebbene una species del medesimo”, e di una disciplina specifica sui “lodi stranieri”;

b) l’introduzione del principio del contraddittorio, il quale finalmente trova consacrazione nella disciplina arbitrale, infatti tra i casi di nullità del lodo ex art. 829 del codice di rito trova menzione anche l’inosservanza nel procedimento arbitrale del principio del contraddittorio;

c) altra novità concerne i provvedimenti dell’arbitro in materia cautelare;

d) semplificazioni in materia di procedimento arbitrale, compromesso e clausola compromissoria;

e) sicuramente la novità più importante della legge n. 25 del 1994 è rappresentata dalla equiparazione tra il lodo emesso dall’arbitro alla sentenza emessa dall’autorità giudiziaria. Con ciò, si è sostenuto tra gli studiosi, il legislatore ha “letteralmente espulso la parola “sentenza” dalla disciplina dell’arbitrato preferendovi sempre la parola “lodo”, e con ciò compiendo il cammino iniziato nel 1983 con l’escludere la necessità del decreto pretorile, e virando definitivamente verso l’immediato valore giuridico, per legge e non per atto del giudice, del lodo arbitrale”.

Da questa riforma la dottrina fa discendere una sostanziale equiparazione tra lodo e sentenza la cui efficacia vincolante nei confronti delle parti prescinde dalla omologazione pretorile, questa è richiesta solo ai fini della trascrizione od esecuzione forzata (in questo caso quando solo comporta una condanna), altra equiparazione tra lodo e sentenza è data dalla nuova normativa sulla sua correzione per errori materiali o di calcolo e per omissioni;

f) infine altra novità è riscontrabile in materia di impugnazioni, infatti è ammessa la impugnabilità del cosiddetto “lodo parziale” cioè quello che decide parzialmente la controversia. E’ da rilevare la possibile impugnativa del lodo indipendentemente dal deposito sia per nullità, sia per opposizione di terzo, sia per revocazione. Altre novità concernono la competenza del tribunale (impugnazione riservata alla Corte d’Appello), l’introduzione di nuovi motivi d’impugnazione e la possibilità di annullamento parziale del lodo riservata alla Corte d’Appello.

3) Da ultimo l’istituto dell’arbitrato negli ultimi tempi è stato oggetto di una organica riforma ad opera della legge delega n. 80 del 14 maggio 2005, il successivo decreto legislativo n. 40 del 2 febbraio 2006 ha apportato importanti modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica ma soprattutto all’arbitrato. Con la terza novella (introdotte quasi a cadenza decennale) la disciplina dell’arbitrato è oggetto di profonda revisione, gli articoli 806 e seguenti del codice di rito sono pressoché riformulati secondo criteri ispiratori che tendono a recepire la prassi, le novità più importanti concernono:

a) la considerazione che “la disponibilità dell’oggetto rappresenta l’unico e sufficiente presupposto dell’arbitrato, salvo diversa previsione di legge”, si è data risoluzione alla problematica relativa ai presupposti delle “controversie arbitrabili” (la rubrica del novellato art. 806 così dispone);

b) è da evidenziare il nuovo ruolo dell’autonomia negoziale, infatti “le parti possono prevedere espressamente una convenzione di arbitrato sia in materia contrattuale che in materia non contrattuale”;

c) procedendo ad una semplificazione e razionalizzazione dello strumento arbitrale il legislatore è intervenuto, prevedendo una disciplina ad hoc, su vari istituti dello stesso, ad esempio in materia di capacità, nomina e sostituzione, decadenza, terzietà e responsabilità dell’arbitro.

Tra l’altro la novella ha previsto l’applicazione per analogia delle norme del codice di rito relative alla ricusazione all’arbitrato, ma viene anche “tracciato un quadro relativo alla responsabilità dell’arbitro, incentrato su condotte dolose o gravemente colpose produttive di danno, e munito di una clausola di riserva che limita la responsabilità per dolo o colpa grave ai sensi della legge sulle responsabilità dei magistrati (legge n. 117/88)”;

d) l’arbitro può avvalersi di consulenti tecnici o richiedere informazioni scritte alla pubblica amministrazione e ancora può avvalersi dell’intervento dell’autorità giudiziaria;

e) in tema di competenza, gli arbitri decidono sulla propria competenza se questa è contestata innanzi a loro, inoltre le nuove norme prevedono rigidi termini di decadenza per eccepire la competenza;

f) per quanto riguarda il lodo, si riscontra la volontà del legislatore (sulla spinta della dottrina e della giurisprudenza) di equiparare il lodo alla sentenza, infatti viene espressamente previsto che il lodo produce gli effetti della sentenza pronunziata dalla autorità giudiziaria dalla data della sua ultima sottoscrizione;

g) da ultimo, come sostenuto in dottrina, “è da notare che la considerazione dedicata dal legislatore alla prassi….giunge a confermare la dignità all’arbitrato irrituale, e con felice decisione a riconoscere le peculiari caratteristiche dell’arbitrato amministrato, premiando così gli sforzi tenuti dalle istituzioni”. (l’arbitrato amministrato è quello posto in essere secondo regolamenti precostituiti).

3. Arbitrato rituale ed arbitrato irrituale.

Nel nostro diritto sono presenti più tipologie di arbitrato.

Al riguardo una distinzione fondamentale in materia concerne l’arbitrato rituale da quello irrituale; si tratta di una distinzione che riveste fondamentale importanza all’interno del nostro ordinamento.

L’arbitrato rituale, a detta del Bernini, “si estrinseca in un vero è proprio giudizio, nel corso del quale vengono a confrontarsi, con tutte le garanzie del contraddittorio, pretese contrapposte, rispetto alle quali gli arbitri emanano una decisione (il lodo) che assume, nella forma e nella sostanza, la fisionomia di una sentenza”.

Si noti come questa figura arbitrale è idonea a conseguire effetti corrispondenti alla giurisdizione, quindi si è di fronte ad un arbitrato rituale quando le parti intendano richiedere all’arbitro una attività di tipo giurisdizionale.

Per il La China l’aggettivo rituale “rimanda al sostantivo “rito”…ed il rito è espressione sintetica per indicare il complesso di regole che costruiscono un certo tipo di processo che ne dettano la disciplina…rituale è perciò l’arbitrato che segue certe regole positive di legge, che si svolge secondo regole che ne definiscono la struttura e lo svolgimento”, da ciò si desume che è appunto rituale l’arbitrato posto in essere secondo le norme del codice di procedura civile.

Anche la Suprema Corte di Cassazione, varie volte, ha pronunziato riguardo a questa forma arbitrale. Ad esempio la Suprema Corte, con la pronunzia 8 aprile 1981, n. 1995, ha statuito che “l’arbitrato rituale si ha quando venga attribuito agli arbitri l’esercizio della potestà giurisdizionale, da attuarsi in un processo diretto ad ottenere la decisione di una controversia mediante la manifestazione di una volontà superiore sovrapposta, con l’efficacia di una sentenza, alle contrastanti pretese delle parti”, sempre la Corte, con la sentenza 8 febbraio 1985, n. 1028 ha affermato che l’arbitrato rituale ricorre “quando le parti hanno inteso affidare agli arbitri la funzione di veri e propri giudici, incaricati di emettere una pronunzia munita di forza propria e di autonoma efficacia esecutiva”, infine sempre la Cassazione, in merito alla funzione svolta dall’arbitrato rituale , afferma che la sua funzione appunto consiste “in uno jus dicere per lo scopo in vista del quale è attuato e per il risultato al quale conduce: il giudizio e la decisione”(Corte di Cassazione, 29 novembre 1989, n. 5205).

L’arbitrato rituale si snoda come un vero e proprio giudizio secondo norme di procedura che sono definite dalle parti nel compromesso o nella clausola compromissoria o in un altro atto successivo, o in mancanza, nel modo in cui l’arbitro lo ritiene più opportuno, salvo il rispetto del principio del contraddittorio.

L’iter della procedura termina con la pronunzia del lodo da parte dell’arbitro, lodo di cui si può richiedere l’esecuzione nel territorio dello Stato mediante deposito ex. art. 825 del codice di rito nel tribunale competente, il giudice procede all’accertamento della regolarità formale del lodo, se regolare lo dichiara esecutivo con decreto, avverso la pronunzia dell’arbitro è ammesso impugnazione “nel termine di novanta giorni dalla notificazione del lodo, davanti alla Corte d’Appello nel cui distretto è la sede dell’arbitrato” (art. 828, comma 1, cod. proc. civ.).

Siamo invece dinnanzi ad arbitrato irrituale, o libero, secondo Ghera, “quando le parti rimettono, mediante compromesso o clausola compromissoria, all’arbitro la composizione della controversia in via negoziale e non giurisdizionale (in sostanza viene deferito al terzo l’accertamento convenzionale delle situazioni soggettive litigiose): in questo caso l’atto formato dal terzo ha natura negoziale ed effetti contrattuali”, mentre per La China “L’arbitrato irrituale viene ad essere presentato come nulla più e nulla meno che la determinazione, affidata ad un terzo, del contenuto di una transazione, impegnandosi le parti ad accettare il risultato dell’opera del terzo come se lo avessero voluto esse stesse direttamente”.

La Suprema Corte si è , tra l’altro, espressa anche in merito all’arbitrato irrituale, ad esempio, secondo la Corte, “ricorre l’arbitrato irrituale quando le parti hanno inteso porre gli arbitri nella veste di mandatari per la risoluzione di una controversia mediante un accordo di natura contrattuale, sostitutivo della volontà di esse e vincolante nei confronti delle medesime alla stregua di qualsiasi patto negoziale”(Corte di Cassazione, 8 febbraio 1985, n. 1028) o ancora, con l’arresto delle Sezioni Unite del 18 settembre 1978, n. 4176, hanno evidenziato che “nell’arbitrato irrituale la decisione delle parti è ad un piano contrattuale, per avere le parti conferito agli arbitri un mandato a definire la controversia in via negoziale, con una pronunzia riconducibile alla volontà dei mandanti“.

Quindi nell’arbitrato irrituale si nota come le parti intendano risolvere la lite insorta tra loro mediante decisione che ha natura contrattuale. Questa forma arbitrale trova il suo fondamento nella autonomia contrattuale delle parti, a norma dell’art. 1322 del codice civile.

La decisione che scaturisce da un arbitrato irrituale vincola le parti; al riguardo l’art. 412- quater del codice di rito, per le controversie di lavoro, dispone che il lodo può essere reso esecutivo da parte del giudice, su istanza della parte interessata, dopo aver accertato la regolarità formale del lodo stesso, secondo Bernini, “solo il provvedimento reso dal giudice avrà forza esecutiva, consentendo la realizzazione in via coattiva della pretesa della parte vincitrice”, in questo caso mediante il ricorso alle norma del codice di procedura civile: o con l’instaurazione di un processo ordinario, o tramite la richiesta di un decreto ingiuntivo.

L’arbitrato irrituale opera su un piano esclusivamente negoziale dando vita ad un procedimento che dovrebbe discostarsi da quello giurisdizionale, tuttavia, al giorno d’oggi, si tende ad una vera e propria “processualizzazione dell’arbitrato irrituale”.

In questo caso bisogna rilevare che il principio del contraddittorio, quale presupposto essenziale di ogni controversia, non può non essere presente all’interno del procedimento arbitrale irrituale; ciò trova conferma, oltre che in dottrina, sia nella giurisprudenza di legittimità che di merito.

Ad esempio nel primo caso la Corte di Cassazione ha sostenuto che “l’inderogabilità del principio del contraddittorio anche in tema di arbitrato libero importa che gli arbitri sentano, nelle forme legittime, le ragioni di tutti coloro che hanno conferito loro l’incarico e che a ciò provvedano personalmente, quando in tal senso sia l’intenzione delle parti”; nel secondo caso il Tribunale di Torino, con decisione del 13 aprile 1987, ha così disposto: “Il principio del contraddittorio deve essere applicato anche all’arbitrato irrituale…..esso è un imprescindibile requisito di validità del lodo arbitrale”.

Circa la natura dell’arbitrato irrituale sia in giurisprudenza che in dottrina le posizioni sono contrastanti; infatti c’è chi riconduce l’arbitrato in questione al negozio di accertamento, e chi ritiene (Bernini) che l’arbitrato irrituale sia “quello in cui l’animus transigendi delle parti può essere chiaramente riconosciuto”.

Brevemente l’accertamento consiste in un procedimento che tende a trasformare una situazione da incerta a certa, mediante tale negozio le parti tentano di risolvere una lite senza fare ricorso a procedimenti giudiziali; nel secondo caso il cosiddetto animus transigendi si riscontra quando le parti vogliono amichevolmente comporre una determinata controversia mediante il ricorso ad un arbitro (teoria della amichevole composizione).

La differenza tra le due teorie sta, secondo il Bernini , in ciò: “Alla stregua della teoria dell’amichevole composizione…gli arbitri dovrebbero….giudicare solo secondo equità, mentre, alla luce della teoria del negozio di accertamento, anche nel contesto di un arbitrato irrituale la decisione potrebbe essere resa secondo diritto”, comunque tuttora le posizioni sono ancora contrastanti tra loro.

Altro punto intricato è dato dalla distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale.

La dottrina è ferma nel ritenere che la distinzione fondamentale tra le due forme di arbitrato consista nel fatto che nel primo le parti intendono affidare all’arbitro una funzione sostitutiva di quella propria di un giudice, mentre nel secondo le parti conferiscono all’arbitro, in via negoziale, il potere di decidere su una data controversia insorta tra loro, in questo caso si perviene ad una risoluzione della lite in modo amichevole, tesi questa avvalorata dalla giurisprudenza di legittimità (in primis Cass. n. 15292 del 29 novembre 2000, e Cass. n. 4954 del 21 maggio 1999).

Fonte della distinzione, al fine di individuare la natura dell’arbitrato, è la volontà delle parti.

L’indagine deve considerare, secondo Spaccapelo, in via privilegiata, la volontà dei soggetti della lite che “quale chiave di lettura delle espressioni utilizzate, deve essere ricostruita secondo le ordinarie regole di ermeneutica contrattuale, avendo riguardo all’intero contesto della pattuizione e non all’una o all’altra espressione usata singolarmente”.

Quindi, ad esempio, si è in presenza di arbitrato rituale quando ci si trova di fronte a termini quali “controversia”, “decidere”, “giudizio”, “effetti di giudicato”, termini tipicamente di natura giurisdizionale; mentre si è in presenza di arbitrato irrituale quando ci si trova, invece, di fronte a termini quali “amichevoli compositori” o “formalità di procedura”.

Tuttavia come si rileva, in dottrina, questi criteri, utili da un punto di vista pratico, non sono dotati di univocità.

Non bastando questi, si è fatto ricorso ad un altro criterio, cioè che la differenza fra i due tipi di arbitrato è da ricollegare al lodo, in questo caso il Bernini afferma, in modo preciso, che “l’unico vero elemento discriminatore tra l’arbitrato rituale e quello irrituale si riscontra nella diversa natura dell’atto conclusivo dei relativi procedimenti” (in questo caso si è anche espressa la Cassazione con la sentenza n. 5527 del 13 aprile 2001): si è in presenza della prima forma arbitrale quando le parti vogliono pervenire ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 del codice di rito; mentre si ha arbitrato irrituale quando le parti, invece intendono deferire la controversia all’arbitro attraverso un atto negoziale, atto questo riconducibile alla loro volontà.

Da ultimo, nel caso in cui nessuno di questi elementi possa essere d’ausilio al fine di rilevare la natura rituale o irrituale del procedimento arbitrale, la giurisprudenza di legittimità e di merito ritiene che, nel dubbio, si imponga la dichiarazione di irritualità dell’arbitrato.

4. Arbitrato e principi costituzionali.

Circa il rapporto tra la disciplina dell’arbitrato e la nostra Carta Fondamentale bisogna dar rilievo ai problemi di legittimità costituzionale dell’arbitrato con alcuni articoli della Costituzione. Per quanto concerne gli arbitrati obbligatori, dottrina (Fazzalari) e giurisprudenza sono fermi nell’affermare che “l’arbitrato obbligatorio non ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento: donde la introduzione….dell’apparente salvaguardia del diritto della parte di rivolgersi al giudice ordinario (c.d. declinatoria dell’arbitrato, escogitata essa dalla normativa sulle opere pubbliche)”.

Si ha arbitrato obbligatorio quando la deroga alla giurisdizione ordinaria non ha la propria fonte nella volontà delle parti, ma nella legge o da altre fonti non provenienti dalle parti, in questo caso se la soluzione arbitrale fosse imposta dalla legge risulterebbero vulnerati sia l’autonomia privata, sia il principio del giudice “naturale” (art. 25 cost.).

Al riguardo sono varie le pronunzie della Corte Costituzionale (ma anche della Cassazione con la nota sentenza n. 1458 del 10 febbraio 1992, dove la Suprema corte si è schierata pubblicamente contro l’arbitrato obbligatorio) in materia di arbitrati obbligatori, quali la celebre sentenza n. 127 del 1977 che sancisce l’attribuzione di principio generale, costituzionalmente garantito, all’art. 806 del codice di procedura civile, o ancora la recente sentenza n. 221 del 8 giugno 2005 che reputa illegittima una norma di legge che imponeva un arbitrato obbligatorio.

Per gli arbitrati volontari, invece, si è posta una questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 Cost. in riferimento all’assenza del contraddittorio nel procedimento per la dichiarazione di esecutività del lodo ex art. 825 del codice di rito.

Ma in questo caso la Corte Costituzionale non ha ritenuto violato il diritto di difesa perché “nel procedimento tendente alla creazione del titolo esecutivo non vi è violazione del diritto di difesa, non è preclusa (aggiungo alla parte) la successiva sindacabilità del provvedimento di esecuzione, e la possibilità di ottenere la sospensione della esecuzione” secondo quanto prevede il comma 3 dell’art. 825 del c.p.c.

Altra questione di legittimità costituzionale è stata posta riguarda l’esclusione del doppio grado di giurisdizione, in questo caso la questione è infondata perché, come rilevato dalla Corte di Cassazione, con il decisum del 22 ottobre 1979, n. 5843, “il nostro sistema costituzionale non garantisce il doppio grado di giurisdizione, la cui previsione è contenuta solo nelle leggi ordinarie”.

Infine problemi di legittimità costituzionale hanno riguardato l’art. 25 della Costituzione, anche in questo caso non si ha violazione.

Al riguardo la suprema Corte, con la sentenza del 18 aprile 1975, n. 1458, ha statuito che “la garanzia costituzionale del giudice naturale opera rispetto a giudici precostituiti nell’ambito dell’organizzazione giurisdizionale e non impedisce la risoluzione della controversia in via arbitrale”.

SOMMARIO:

1. Lineamenti generali

2. Le “novelle” del 1983, 1994, 2006

3. Arbitrato rituale ed irrituale

4. Arbitrato e principi costituzionali.

1. Lineamenti generali

L’arbitrato, come categoria generale, può essere definito come un processo privato alternativo al giudizio ordinario; è stato definito, ancora, come il risultato di una sequenza di attività che realizzano una sorta di una giustizia cognitiva privata, cioè dettata da un privato e non da un giudice.

Questo tipo di giudizio ha per oggetto controversie su posizioni e pretese che potremo definire giuridiche, si svolge innanzi un privato, l’arbitro, e con la partecipazione dei litiganti, in contraddittorio; mette capo ad una disposizione vincolante (dell’arbitro) tra le parti.

Per La China l’arbitrato costituisce “un modo di definizione delle controversie civili alternativo alla via giudiziaria…e caratterizzato da due aspetti essenziali: sono le parti della controversia a scegliere liberamente coloro che dovranno deciderla; sono le parti a conferire ad essi il potere ed autorità di rendere tale decisione”.

La forma arbitrale da sempre ha rappresentato un “unicum” all’interno di qualsiasi ordinamento giuridico mutando strutture e funzioni in presenza dei cambiamenti che possono aversi in una data realtà sociale, in questo modo il fenomeno arbitrale può essere letto e sviluppato sotto un ottica dinamica e storica e non statica ed astorica.

In questo modo è possibile individuare, in primis, il ruolo che l’arbitrato viene ad assumere nelle singole società, ma anche i suoi rapporti con la giustizia statuale. Nelle società arcaiche, prive di una organizzazione statuale, la risposta più diffusa alla violazione di una norma era la rappresaglia, ossia la vendetta privata; in questi casi il gruppo, subita l’offesa, interveniva scatenando le ostilità, così si venivano a creare gruppi di consociati tutti avversari tra loro.

Tuttavia, in determinate situazioni, era possibile evitare lo scontro grazie all’intervento di un paciere, il quale si poneva in mezzo ai gruppi litiganti per tentare di raggiungere un accordo, accordo questo che sfociava proprio nel conferimento allo stesso paciere della funzione di arbitro; la sua attività non terminava con il giudicare su una data controversia in modo inappellabile, ma si svolgeva anche nella successiva fase, con l’attribuzione a lui della possibilità di perseguire, con la forza, coloro che violavano la pace raggiunta.

E’ stato affermato, in dottrina, che una simile situazione, ove appunto il paciere o arbitro privato non solo ha il potere di risolvere la controversia e quindi di giudicare ma anche quello di far rispettare con la forza il proprio “dictum”, è incompatibile con la formazione di una organizzazione statale: il divieto di ricorrere alla violenza e la rivendicazione del monopolio della forza rappresenta il dato caratterizzante del sorgere dello Stato.

Ciò nonostante se appare giusto che lo Stato rivendichi a suo favore il monopolio della forza e di fare le leggi poiché questo è essenziale per la crescita di uno Stato, non è essenziale invece che lo Stato stesso abbia il monopolio del diritto.

Infatti in qualsiasi realtà sociale dovrebbe essere sempre lasciato uno spazio ai soggetti privati, anche nel campo del diritto, dato che non è ammessa alcuna prerogativa esclusiva dello Stato in questo settore.

Lo spazio sociale è quello in cui trova piena esplicazione la cosiddetta “autonomia privata”, spazio in cui non viene compromesso un interesse primario dello Stato, ad esempio interesse primario dello Stato può essere il rispetto dell’”ordine pubblico”, concetto questo in cui rientrano tutti quei principi e quelle norme che rientrano appunto nella espressione “ordine pubblico”.

In questo spazio, lasciato all’autonomia privata, vengono a collocarsi i mezzi di “autocomposizone” ed “eterocomposizione” delle liti: nel primo caso rientra la transazione, nel secondo caso l’arbitrato.

Da sempre l’arbitrato è stato utilizzato come mezzo di risoluzione delle controversie alternativo alla giurisdizione di un giudice togato, la sua rilevanza addirittura ha carattere internazionale soprattutto per controversie di natura economica o commerciale ma anche politica.

Ad esempio si pensi all’impiego dell’arbitrato, nella risoluzione dell’enorme contenzioso tra Stati Uniti ed Iran; o ancora la costituzione di un tribunale arbitrale al fine di risolvere la disputa territoriale di Taba, insorta tra Egitto e Israele; si è fatto ricorso anche in rapporto al noto incidente della nave Greenpeace.

A livello internazionale il favor verso l’arbitrato trova riscontro nei paesi più industrializzati, sia nei paesi di tradizione capitalistica sia nei paesi ex-socialisti, ma anche, odiernamente, nei paesi in via di sviluppo, oggi l’istituto arbitrale si pone come una vera e propria realtà nel panorama internazionale.

Il favor deriva dalla accettazione dell’arbitrato come espressione di lealtà e buona fede a livello sia nazionale che internazionale, ma anche perché presenta delle caratteristiche particolari che lo pongono come importante strumento per gli operatori economici e come fonte di produzione di norme giuridiche applicabili al commercio internazionale (si pensi al ruolo particolare che svolge nella messa in opera degli usi mercantili).

A livello internazionale non esiste un contratto, avente natura economica o commerciale, che non contenga una clausola compromissoria per cui appare difficile pretendere che questo istituto non trovi ampio utilizzo in una data realtà sociale.

Tra i vantaggi dell’arbitrato a livello internazionale basti ricordare: la molteplicità delle giurisdizioni potenzialmente competenti; la formazione di un corpus di regole e norme rientranti talvolta individuate con l’espressione “Lex Mercatoria” applicabili al ceto degli operatori economici internazionali; il bisogno di conferire il potere di decidere una data controversia a soggetti dotati di particolare competenza e professionalità nei vari settori del commercio internazionale; l’inesistenza, nelle dispute tra soggetti di diversa nazionalità, di un giudizio neutrale e parziale.

In presenza di questi caratteri l’arbitrato si presenta, nei rapporti internazionali, usando le parole del Bernini, “non tanto come l’oggetto di una scelta tuttora aperta, ma piuttosto come l’espressione di un giudizio di valore da tempo acquisito”.

Sempre a livello internazionale una spinta verso la costituzione di un diritto comune dell’arbitrato si è avuto con:

1) La Convenzione di New York del 10 giugno 1958 sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, entrata in vigore, a livello internazionale, nel 1959 e ratificata dall’Italia con legge n. 62/1968 essa è entrata in vigore nel nostro paese il 1 maggio 1969.

2) La Convenzione di Ginevra del 21 aprile 1961, entrata in vigore a livello internazionale il 7 gennaio 1964, denominata “Convenzione Europea sull’arbitrato commerciale internazionale”, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 418/1970 ed entrata in vigore il 1 novembre 1970.

Sia la Convenzione di New York sia quella di Ginevra hanno istituito un corpus di norme che costituiscono il sistema normativo riferibile alla materia del riconoscimento e della esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, va dato atto che entrambe le convenzioni hanno contribuito alla introduzione dell’istituto dell’arbitrato internazionale di diritto privato, con ciò si è voluto porre fine alla disparità che c’era stata fino a quel momento con gli operatori economici stranieri, i quali già da tempo facevano ampio ricorso a detta procedura.

Al riguardo Fazzalari così si esprime: “sulla scorta di tali grandi Convenzioni comincia a delinearsi la tendenza verso un “diritto comune” dell’arbitrato cioè verso una uniformità di disciplina da parte dei vari Stati”.

Se dal punto di vista internazionale l’arbitrato ha riscontrato un certo successo, la stessa cosa è avvenuto a livello nazionale, ove il ricorso a questa procedura è stato imponente. In molti paesi del mondo gli stessi organi giudiziari (ma comunque non sempre ciò si è riscontrato) hanno incoraggiato il ricorso all’arbitrato e questo innanzi tutto al fine di decongestionare il contenzioso ed evitare possibili paralisi della giustizia, ma anche consentire che determinate controversie (aventi natura economica o commerciale) possano avere una più efficace trattazione.

Le ragioni che hanno portato l’arbitrato ad avere un certo successo sono varie: si pensi alla fuga dalla giustizia togata, giustizia questa non sempre efficiente ed attualmente oberata da una valanga di contenzioso ancora da smaltire, ma altre sono le cause che portano l’arbitrato come fondamentale strumento di risoluzione delle controversie:

1) Il cittadino sceglie e nomina il proprio giudice il quale pronunzierà su una controversia che non tocca i diritti fondamentali, cioè quelli che non possono essere oggetto di compromesso o clausola compromissoria, il tutto da considerarsi come una piena e legittima espressione della autonomia privata.

2) Costi per il cittadino più contenuti rispetto alle ingenti spese cui deve far fronte un soggetto che ricorre alla giustizia ordinaria, infatti da un punto di vista strettamente economico rilevanti sono le differenze, a livello di spese processuali, tra la procedura arbitrale ed un giudizio ordinario.

3) Riduzione drastica dei tempi della controversia: nell’ordinamento italiano in media una causa civile o penale può durare anche decenni o più (se tutto va bene!), nei giudizi arbitrali i tempi procedurali sono notevolmente ridimensionati, naturalmente il tutto a vantaggio delle parti.

4) Maggiore flessibilità nella presentazione della prova.

5) Particolare specializzazione della controversia, la quale risulta impregnata da un alto grado di tecnica e metodo.

6) Il rilievo che l’arbitrato dà per la ricerca di giustizia sostanziale, con ciò si vuole evitare quello che accade nei giudizi ordinari, cioè che le parti si prefiggono l’obbiettivo di prolungare sine die la durata di un procedimento, si pensi al comportamento posto in essere dalle parti le quali, mediante tecnicismi e cavilli vari, tendono sempre più ad allungare i tempi di un processo anche ai fini della prescrizione del reato, e questo porta ad una paralisi dei procedimenti giudiziari.

7) Fissazione di calendari di lavoro individuali per ciascuna controversia, anche in questo caso ci si prefigge l’obbiettivo di semplificazione della procedura arbitrale rispetto ad un normale procedimento ordinario.

Tutti questi elementi hanno portato l’istituto dell’arbitrato ad avere un notevole sviluppo all’interno del nostro paese, infatti “il settore arbitrale è altamente competitivo”, come rileva il Bernini, soprattutto anche grazie al lavoro svolto dalla nostra dottrina; a livello dottrinario infatti l’Italia nulla ha da invidiare agl’altri paesi, dato che la nostra cultura arbitrale è molto apprezzata all’estero.

Il successo dell’arbitrato lo si riscontra anche prima della riforma legislativa del 1983 ( riforma riguardante l’arbitrato), infatti vari sono gli studiosi e giuristi italiani che sono da tempo presenti in varie associazioni ed istituti internazionali e partecipano, in qualità di docenti o avvocati, ad importanti iniziative culturali o procedimenti internazionali.

Ad esempio l’Italia è rappresentata nell’ambito dell’International Council for Commercial Arbitration (ICCA), questo organismo si occupa della ricerca, studio, promozione nel settore arbitrale, ed è composto da 30 membri provenienti da varie nazioni diverse, il loro diverso apporto è importante dato che solo con il confronto delle varie dottrine è possibile sviluppare l’istituto dell’arbitrato.

A livello nazionale è importante fare un cenno all’Associazione Italiana per l’Arbitrato (AIA) e la Sezione Italiana della Camera di Commercio Internazionale. L’AIA è in organismo importante dato che ha contribuito non poco alle varie riforme che si sono avute in tema di arbitrato (quali quelle del 1983, del 1994 e da ultimo del 2006) ma anche a livello internazionale essa svolge un peculiare compito.

Comunque ai fini di una completa diffusione della cultura arbitrale un ruolo fondamentale è riservato alla qualità dei servizi resi da questo strumento, più alti sono i servizi offerti e più si ha sviluppo, ed in questo caso risulta rilevante l’apporto dato dai soggetti che operano in questo campo.

A livello generale la dottrina richiede che, per potere avere successo l’arbitrato, “l’attenzione e gli sforzi dovranno concentrarsi su tre direzioni: in primo luogo verso l’intelligente diffusione di un ragionato favor arbitrale nel contesto delle potenzialità offerte dal nostro paese; in secondo luogo un rafforzamento delle istituzioni esistenti (in questo caso le Camere arbitrali istituite presso le Camere di Commercio possono svolgere un importante ruolo) al preciso scopo di tenere il passo con la costante evoluzione dell’arbitrato; in terzo luogo verso la formazione ed il continuato aggiornamento professionale di studiosi ed operatori del settore” perché, aggiungo io, possa formarsi una classe arbitrale di cui l’Italia non ne può fare a meno.

Questo ultimo punto, in particolare, merita attenzione.

Arbitrare significa decidere, infatti, si sostiene, in dottrina (Bernini), che “all’arbitro viene chiesto di conoscere una controversia che consiste nel contrasto su posizioni e pretese giuridiche, ad egli si richiede di risolverla quindi di giudicare”.

L’arbitrato non può essere più considerato come lo strumento mediante al quale si tende al raggiungimento di una transazione tra le parti in causa, bensì è da considerarsi come un vero e proprio giudizio che termina con una pronunzia (il lodo arbitrale) che vincola i soggetti della lite.

Al riguardo è importante se non fondamentale stimolare o comunque sollecitare le capacità intellettive e professionali di un arbitro, perché appunto possa pronunziare, riguardo una data controversia, nel modo più opportuno.

Come sostiene il Bernini “la capacità di decidere comporta doti di equilibrio, sensibilità a ragioni di giustizia sostanziale e abilità nel discernere tra le tesi in contrapposizione, che esulano dall’ambito di una pur eccellente preparazione professionale. Esse affondano le proprie radici anche in elementi di natura culturale ed etica, psicologica e caratteriale che, in molti casi, prescindono dalla specifica preparazione e specializzazione risultanti dall’identikit professionale dell’arbitro nelle varie situazioni”.

Nel momento in cui si procede alla formazione di un arbitro queste doti possono essere messe in risalto non solo mediante lo studio del diritto e della giurisprudenza arbitrale ma anche attraverso determinate attività pratiche quali ad esempio la simulazione di procedimenti arbitrali.

2. Le “novelle” del 1983, 1994, 2006.

“L’arbitrato può germinare e vivere dentro e fuori gli ordinamenti statuali”, così è solennemente affermato nell’enciclopedia UTET nella voce Arbitrato, con ciò si vuole evidenziare che lo strumento arbitrale assume rilevanza e svolge il suo compito sia all’interno di un determinato ordinamento giuridico e sia all’infuori di esso.

L’arbitrato rappresenta una delle più spiccate manifestazioni di autonomia privata, autonomia questa oggetto di concessione da parte di un determinato ordinamento giuridico.

Nel definire l’istituto arbitrale una delle domande che sempre ci si pone concerne la rilevanza che la risoluzione della controversia da parte dell’arbitro può avere nella “civitas”, vuoi da parte dei soggetti della lite, vuoi da parte del potere statale, che non ignora il fenomeno arbitrale, sia per effettuare su di esso (l’arbitrato) controlli e sia per dotarlo di garanzie.

Più in generale si può constatare come siano i litiganti che cercano di assicurare all’arbitrato una certa rilevanza, questo lo si ottiene ponendo in essere la procedura arbitrale secondo le leggi e le norme dello Stato, così esso viene in un certo senso ad impadronirsi dell’arbitrato, facendolo proprio attraverso il ricorso alle garanzie e ai controlli precedentemente menzionati.

Il Fazzalari parla di “emersione dell’arbitrato nell’ordinamento dello Stato…, tuttavia il rapporto fra l’arbitrato e gli ordinamenti statuali si è, per lungo tempo, posto e risolto con la prevalenza della logica degli Stati”.

Però questo intervento dello Stato, come sostiene autorevolmente l’Enciclopedia UTET; “sopra o nella giustizia arbitrale, se in principio trova i sudditi proclivi o rassegnati, poscia li spinge ad escogitare ed a porre in atto altre forme di arbitrato, di nuovo più snelle, ma perciò meno garantite; per inserirle poi, nei limiti in cui ad essi appare necessario, nell’ambito dei fenomeni rilevanti per le leggi della comunità”.

Nel nostro ordinamento giuridico l’arbitrato si presenta come processo di natura privatistica, sia per quanto riguarda l’arbitrato rituale (questo soprattutto dopo le riforme del 1983 e del 1994) che quello irrituale.

Un “processo” che è voluto dalle parti (che possono essere due o più soggetti) mediante convenzione privata di deferire la controversia su posizioni giuridiche sostanziali ad un soggetto terzo il quale è appunto scelto da loro, la pronunzia resa dall’arbitro è vincolante nei confronti delle parti, il lodo emesso dall’arbitro tra l’altro “ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dalla autorità giudiziaria” (art. 824 bis del cod. proc. civ.), salvo comunque quanto disposto dall’art. 825 cod. proc. civ. relativo alla richiesta di omologazione del lodo al tribunale.

Nel corso del tempo, cioè dal 1942 ad oggi, l’arbitrato ha assunto sempre una fisionomia diversa, per quanto concerne l’arbitrato rituale ( ma in parte anche per l’arbitrato irrituale) esso trova fonte nelle norme del codice di procedura civile, Titolo VIII, articoli 806 e seguenti.

Il Titolo VIII del codice di procedura civile è stato col tempo soggetto a cambiamenti che di fatti portano oggi l’arbitrato ad avere una fisionomia differente rispetto al passato, le riforme (o novelle ) che hanno riguardato lo strumento arbitrale risalgono al 1983, al 1994 e da ultimo il 2006:

1) Il primo intervento del legislatore in materia di arbitrato si è avuto con la legge n. 28 del 9 febbraio 1983 che ha riformato varie norme del codice di rito, tra le novità abbiamo che:

a) era stata abolita la restrizione secondo la quale solo i cittadini italiani potevano agire in qualità di arbitri, barriera preclusiva questa non contemplata dalla Convenzione di Ginevra del 1961.

b) innovazioni in materia di lodo, questo doveva contenere “l’indicazione del luogo dove gli arbitri hanno reso la loro deliberazione….. nonché le firme di tutti gli arbitri assieme all’indicazione della data in cui era stata apposta”.

Sempre in tema di lodo la riforma aveva disposto che il lodo doveva essere redatto dagli arbitri in un numero di originali pari a quelli delle parti e che una copia doveva essere inviata a ciascuna parte entro 10 giorni dall’ultima firma anche mediante raccomandata, un’altra novità era rappresentata dalla facoltatività del deposito del lodo presso la Pretura, in precedenza il deposito era obbligatorio e costituiva motivo di nullità del lodo ex art. 829 del codice di rito. Il deposito non era quindi più obbligatorio e le parti a loro discrezione potevano depositare il lodo, presso la Pretura, entro un anno dal momento del ricevimento.

2) Il secondo intervento riformatore si è avuto con la legge n. 25 del 5 gennaio 1994, la legge ha innovato il Titolo VIII del codice di rito apportando modifiche di un certo rilievo, ma ha inciso anche su altre norme a livello processuale e sostanziale, nel primo caso in materia di provvedimenti cautelari, nel secondo caso in materia di prescrizione e trascrizione. Le novità che concernono l’arbitrato sono:

a) l’introduzione di una specifica disciplina relativa all’arbitrato internazionale con l’introduzione di nuovi articoli nel codice di rito, esso, si afferma in dottrina, “non costituisce un genus a sé rispetto all’arbitrato rituale, sebbene una species del medesimo”, e di una disciplina specifica sui “lodi stranieri”;

b) l’introduzione del principio del contraddittorio, il quale finalmente trova consacrazione nella disciplina arbitrale, infatti tra i casi di nullità del lodo ex art. 829 del codice di rito trova menzione anche l’inosservanza nel procedimento arbitrale del principio del contraddittorio;

c) altra novità concerne i provvedimenti dell’arbitro in materia cautelare;

d) semplificazioni in materia di procedimento arbitrale, compromesso e clausola compromissoria;

e) sicuramente la novità più importante della legge n. 25 del 1994 è rappresentata dalla equiparazione tra il lodo emesso dall’arbitro alla sentenza emessa dall’autorità giudiziaria. Con ciò, si è sostenuto tra gli studiosi, il legislatore ha “letteralmente espulso la parola “sentenza” dalla disciplina dell’arbitrato preferendovi sempre la parola “lodo”, e con ciò compiendo il cammino iniziato nel 1983 con l’escludere la necessità del decreto pretorile, e virando definitivamente verso l’immediato valore giuridico, per legge e non per atto del giudice, del lodo arbitrale”.

Da questa riforma la dottrina fa discendere una sostanziale equiparazione tra lodo e sentenza la cui efficacia vincolante nei confronti delle parti prescinde dalla omologazione pretorile, questa è richiesta solo ai fini della trascrizione od esecuzione forzata (in questo caso quando solo comporta una condanna), altra equiparazione tra lodo e sentenza è data dalla nuova normativa sulla sua correzione per errori materiali o di calcolo e per omissioni;

f) infine altra novità è riscontrabile in materia di impugnazioni, infatti è ammessa la impugnabilità del cosiddetto “lodo parziale” cioè quello che decide parzialmente la controversia. E’ da rilevare la possibile impugnativa del lodo indipendentemente dal deposito sia per nullità, sia per opposizione di terzo, sia per revocazione. Altre novità concernono la competenza del tribunale (impugnazione riservata alla Corte d’Appello), l’introduzione di nuovi motivi d’impugnazione e la possibilità di annullamento parziale del lodo riservata alla Corte d’Appello.

3) Da ultimo l’istituto dell’arbitrato negli ultimi tempi è stato oggetto di una organica riforma ad opera della legge delega n. 80 del 14 maggio 2005, il successivo decreto legislativo n. 40 del 2 febbraio 2006 ha apportato importanti modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica ma soprattutto all’arbitrato. Con la terza novella (introdotte quasi a cadenza decennale) la disciplina dell’arbitrato è oggetto di profonda revisione, gli articoli 806 e seguenti del codice di rito sono pressoché riformulati secondo criteri ispiratori che tendono a recepire la prassi, le novità più importanti concernono:

a) la considerazione che “la disponibilità dell’oggetto rappresenta l’unico e sufficiente presupposto dell’arbitrato, salvo diversa previsione di legge”, si è data risoluzione alla problematica relativa ai presupposti delle “controversie arbitrabili” (la rubrica del novellato art. 806 così dispone);

b) è da evidenziare il nuovo ruolo dell’autonomia negoziale, infatti “le parti possono prevedere espressamente una convenzione di arbitrato sia in materia contrattuale che in materia non contrattuale”;

c) procedendo ad una semplificazione e razionalizzazione dello strumento arbitrale il legislatore è intervenuto, prevedendo una disciplina ad hoc, su vari istituti dello stesso, ad esempio in materia di capacità, nomina e sostituzione, decadenza, terzietà e responsabilità dell’arbitro.

Tra l’altro la novella ha previsto l’applicazione per analogia delle norme del codice di rito relative alla ricusazione all’arbitrato, ma viene anche “tracciato un quadro relativo alla responsabilità dell’arbitro, incentrato su condotte dolose o gravemente colpose produttive di danno, e munito di una clausola di riserva che limita la responsabilità per dolo o colpa grave ai sensi della legge sulle responsabilità dei magistrati (legge n. 117/88)”;

d) l’arbitro può avvalersi di consulenti tecnici o richiedere informazioni scritte alla pubblica amministrazione e ancora può avvalersi dell’intervento dell’autorità giudiziaria;

e) in tema di competenza, gli arbitri decidono sulla propria competenza se questa è contestata innanzi a loro, inoltre le nuove norme prevedono rigidi termini di decadenza per eccepire la competenza;

f) per quanto riguarda il lodo, si riscontra la volontà del legislatore (sulla spinta della dottrina e della giurisprudenza) di equiparare il lodo alla sentenza, infatti viene espressamente previsto che il lodo produce gli effetti della sentenza pronunziata dalla autorità giudiziaria dalla data della sua ultima sottoscrizione;

g) da ultimo, come sostenuto in dottrina, “è da notare che la considerazione dedicata dal legislatore alla prassi….giunge a confermare la dignità all’arbitrato irrituale, e con felice decisione a riconoscere le peculiari caratteristiche dell’arbitrato amministrato, premiando così gli sforzi tenuti dalle istituzioni”. (l’arbitrato amministrato è quello posto in essere secondo regolamenti precostituiti).

3. Arbitrato rituale ed arbitrato irrituale.

Nel nostro diritto sono presenti più tipologie di arbitrato.

Al riguardo una distinzione fondamentale in materia concerne l’arbitrato rituale da quello irrituale; si tratta di una distinzione che riveste fondamentale importanza all’interno del nostro ordinamento.

L’arbitrato rituale, a detta del Bernini, “si estrinseca in un vero è proprio giudizio, nel corso del quale vengono a confrontarsi, con tutte le garanzie del contraddittorio, pretese contrapposte, rispetto alle quali gli arbitri emanano una decisione (il lodo) che assume, nella forma e nella sostanza, la fisionomia di una sentenza”.

Si noti come questa figura arbitrale è idonea a conseguire effetti corrispondenti alla giurisdizione, quindi si è di fronte ad un arbitrato rituale quando le parti intendano richiedere all’arbitro una attività di tipo giurisdizionale.

Per il La China l’aggettivo rituale “rimanda al sostantivo “rito”…ed il rito è espressione sintetica per indicare il complesso di regole che costruiscono un certo tipo di processo che ne dettano la disciplina…rituale è perciò l’arbitrato che segue certe regole positive di legge, che si svolge secondo regole che ne definiscono la struttura e lo svolgimento”, da ciò si desume che è appunto rituale l’arbitrato posto in essere secondo le norme del codice di procedura civile.

Anche la Suprema Corte di Cassazione, varie volte, ha pronunziato riguardo a questa forma arbitrale. Ad esempio la Suprema Corte, con la pronunzia 8 aprile 1981, n. 1995, ha statuito che “l’arbitrato rituale si ha quando venga attribuito agli arbitri l’esercizio della potestà giurisdizionale, da attuarsi in un processo diretto ad ottenere la decisione di una controversia mediante la manifestazione di una volontà superiore sovrapposta, con l’efficacia di una sentenza, alle contrastanti pretese delle parti”, sempre la Corte, con la sentenza 8 febbraio 1985, n. 1028 ha affermato che l’arbitrato rituale ricorre “quando le parti hanno inteso affidare agli arbitri la funzione di veri e propri giudici, incaricati di emettere una pronunzia munita di forza propria e di autonoma efficacia esecutiva”, infine sempre la Cassazione, in merito alla funzione svolta dall’arbitrato rituale , afferma che la sua funzione appunto consiste “in uno jus dicere per lo scopo in vista del quale è attuato e per il risultato al quale conduce: il giudizio e la decisione”(Corte di Cassazione, 29 novembre 1989, n. 5205).

L’arbitrato rituale si snoda come un vero e proprio giudizio secondo norme di procedura che sono definite dalle parti nel compromesso o nella clausola compromissoria o in un altro atto successivo, o in mancanza, nel modo in cui l’arbitro lo ritiene più opportuno, salvo il rispetto del principio del contraddittorio.

L’iter della procedura termina con la pronunzia del lodo da parte dell’arbitro, lodo di cui si può richiedere l’esecuzione nel territorio dello Stato mediante deposito ex. art. 825 del codice di rito nel tribunale competente, il giudice procede all’accertamento della regolarità formale del lodo, se regolare lo dichiara esecutivo con decreto, avverso la pronunzia dell’arbitro è ammesso impugnazione “nel termine di novanta giorni dalla notificazione del lodo, davanti alla Corte d’Appello nel cui distretto è la sede dell’arbitrato” (art. 828, comma 1, cod. proc. civ.).

Siamo invece dinnanzi ad arbitrato irrituale, o libero, secondo Ghera, “quando le parti rimettono, mediante compromesso o clausola compromissoria, all’arbitro la composizione della controversia in via negoziale e non giurisdizionale (in sostanza viene deferito al terzo l’accertamento convenzionale delle situazioni soggettive litigiose): in questo caso l’atto formato dal terzo ha natura negoziale ed effetti contrattuali”, mentre per La China “L’arbitrato irrituale viene ad essere presentato come nulla più e nulla meno che la determinazione, affidata ad un terzo, del contenuto di una transazione, impegnandosi le parti ad accettare il risultato dell’opera del terzo come se lo avessero voluto esse stesse direttamente”.

La Suprema Corte si è , tra l’altro, espressa anche in merito all’arbitrato irrituale, ad esempio, secondo la Corte, “ricorre l’arbitrato irrituale quando le parti hanno inteso porre gli arbitri nella veste di mandatari per la risoluzione di una controversia mediante un accordo di natura contrattuale, sostitutivo della volontà di esse e vincolante nei confronti delle medesime alla stregua di qualsiasi patto negoziale”(Corte di Cassazione, 8 febbraio 1985, n. 1028) o ancora, con l’arresto delle Sezioni Unite del 18 settembre 1978, n. 4176, hanno evidenziato che “nell’arbitrato irrituale la decisione delle parti è ad un piano contrattuale, per avere le parti conferito agli arbitri un mandato a definire la controversia in via negoziale, con una pronunzia riconducibile alla volontà dei mandanti“.

Quindi nell’arbitrato irrituale si nota come le parti intendano risolvere la lite insorta tra loro mediante decisione che ha natura contrattuale. Questa forma arbitrale trova il suo fondamento nella autonomia contrattuale delle parti, a norma dell’art. 1322 del codice civile.

La decisione che scaturisce da un arbitrato irrituale vincola le parti; al riguardo l’art. 412- quater del codice di rito, per le controversie di lavoro, dispone che il lodo può essere reso esecutivo da parte del giudice, su istanza della parte interessata, dopo aver accertato la regolarità formale del lodo stesso, secondo Bernini, “solo il provvedimento reso dal giudice avrà forza esecutiva, consentendo la realizzazione in via coattiva della pretesa della parte vincitrice”, in questo caso mediante il ricorso alle norma del codice di procedura civile: o con l’instaurazione di un processo ordinario, o tramite la richiesta di un decreto ingiuntivo.

L’arbitrato irrituale opera su un piano esclusivamente negoziale dando vita ad un procedimento che dovrebbe discostarsi da quello giurisdizionale, tuttavia, al giorno d’oggi, si tende ad una vera e propria “processualizzazione dell’arbitrato irrituale”.

In questo caso bisogna rilevare che il principio del contraddittorio, quale presupposto essenziale di ogni controversia, non può non essere presente all’interno del procedimento arbitrale irrituale; ciò trova conferma, oltre che in dottrina, sia nella giurisprudenza di legittimità che di merito.

Ad esempio nel primo caso la Corte di Cassazione ha sostenuto che “l’inderogabilità del principio del contraddittorio anche in tema di arbitrato libero importa che gli arbitri sentano, nelle forme legittime, le ragioni di tutti coloro che hanno conferito loro l’incarico e che a ciò provvedano personalmente, quando in tal senso sia l’intenzione delle parti”; nel secondo caso il Tribunale di Torino, con decisione del 13 aprile 1987, ha così disposto: “Il principio del contraddittorio deve essere applicato anche all’arbitrato irrituale…..esso è un imprescindibile requisito di validità del lodo arbitrale”.

Circa la natura dell’arbitrato irrituale sia in giurisprudenza che in dottrina le posizioni sono contrastanti; infatti c’è chi riconduce l’arbitrato in questione al negozio di accertamento, e chi ritiene (Bernini) che l’arbitrato irrituale sia “quello in cui l’animus transigendi delle parti può essere chiaramente riconosciuto”.

Brevemente l’accertamento consiste in un procedimento che tende a trasformare una situazione da incerta a certa, mediante tale negozio le parti tentano di risolvere una lite senza fare ricorso a procedimenti giudiziali; nel secondo caso il cosiddetto animus transigendi si riscontra quando le parti vogliono amichevolmente comporre una determinata controversia mediante il ricorso ad un arbitro (teoria della amichevole composizione).

La differenza tra le due teorie sta, secondo il Bernini , in ciò: “Alla stregua della teoria dell’amichevole composizione…gli arbitri dovrebbero….giudicare solo secondo equità, mentre, alla luce della teoria del negozio di accertamento, anche nel contesto di un arbitrato irrituale la decisione potrebbe essere resa secondo diritto”, comunque tuttora le posizioni sono ancora contrastanti tra loro.

Altro punto intricato è dato dalla distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale.

La dottrina è ferma nel ritenere che la distinzione fondamentale tra le due forme di arbitrato consista nel fatto che nel primo le parti intendono affidare all’arbitro una funzione sostitutiva di quella propria di un giudice, mentre nel secondo le parti conferiscono all’arbitro, in via negoziale, il potere di decidere su una data controversia insorta tra loro, in questo caso si perviene ad una risoluzione della lite in modo amichevole, tesi questa avvalorata dalla giurisprudenza di legittimità (in primis Cass. n. 15292 del 29 novembre 2000, e Cass. n. 4954 del 21 maggio 1999).

Fonte della distinzione, al fine di individuare la natura dell’arbitrato, è la volontà delle parti.

L’indagine deve considerare, secondo Spaccapelo, in via privilegiata, la volontà dei soggetti della lite che “quale chiave di lettura delle espressioni utilizzate, deve essere ricostruita secondo le ordinarie regole di ermeneutica contrattuale, avendo riguardo all’intero contesto della pattuizione e non all’una o all’altra espressione usata singolarmente”.

Quindi, ad esempio, si è in presenza di arbitrato rituale quando ci si trova di fronte a termini quali “controversia”, “decidere”, “giudizio”, “effetti di giudicato”, termini tipicamente di natura giurisdizionale; mentre si è in presenza di arbitrato irrituale quando ci si trova, invece, di fronte a termini quali “amichevoli compositori” o “formalità di procedura”.

Tuttavia come si rileva, in dottrina, questi criteri, utili da un punto di vista pratico, non sono dotati di univocità.

Non bastando questi, si è fatto ricorso ad un altro criterio, cioè che la differenza fra i due tipi di arbitrato è da ricollegare al lodo, in questo caso il Bernini afferma, in modo preciso, che “l’unico vero elemento discriminatore tra l’arbitrato rituale e quello irrituale si riscontra nella diversa natura dell’atto conclusivo dei relativi procedimenti” (in questo caso si è anche espressa la Cassazione con la sentenza n. 5527 del 13 aprile 2001): si è in presenza della prima forma arbitrale quando le parti vogliono pervenire ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 del codice di rito; mentre si ha arbitrato irrituale quando le parti, invece intendono deferire la controversia all’arbitro attraverso un atto negoziale, atto questo riconducibile alla loro volontà.

Da ultimo, nel caso in cui nessuno di questi elementi possa essere d’ausilio al fine di rilevare la natura rituale o irrituale del procedimento arbitrale, la giurisprudenza di legittimità e di merito ritiene che, nel dubbio, si imponga la dichiarazione di irritualità dell’arbitrato.

4. Arbitrato e principi costituzionali.

Circa il rapporto tra la disciplina dell’arbitrato e la nostra Carta Fondamentale bisogna dar rilievo ai problemi di legittimità costituzionale dell’arbitrato con alcuni articoli della Costituzione. Per quanto concerne gli arbitrati obbligatori, dottrina (Fazzalari) e giurisprudenza sono fermi nell’affermare che “l’arbitrato obbligatorio non ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento: donde la introduzione….dell’apparente salvaguardia del diritto della parte di rivolgersi al giudice ordinario (c.d. declinatoria dell’arbitrato, escogitata essa dalla normativa sulle opere pubbliche)”.

Si ha arbitrato obbligatorio quando la deroga alla giurisdizione ordinaria non ha la propria fonte nella volontà delle parti, ma nella legge o da altre fonti non provenienti dalle parti, in questo caso se la soluzione arbitrale fosse imposta dalla legge risulterebbero vulnerati sia l’autonomia privata, sia il principio del giudice “naturale” (art. 25 cost.).

Al riguardo sono varie le pronunzie della Corte Costituzionale (ma anche della Cassazione con la nota sentenza n. 1458 del 10 febbraio 1992, dove la Suprema corte si è schierata pubblicamente contro l’arbitrato obbligatorio) in materia di arbitrati obbligatori, quali la celebre sentenza n. 127 del 1977 che sancisce l’attribuzione di principio generale, costituzionalmente garantito, all’art. 806 del codice di procedura civile, o ancora la recente sentenza n. 221 del 8 giugno 2005 che reputa illegittima una norma di legge che imponeva un arbitrato obbligatorio.

Per gli arbitrati volontari, invece, si è posta una questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 Cost. in riferimento all’assenza del contraddittorio nel procedimento per la dichiarazione di esecutività del lodo ex art. 825 del codice di rito.

Ma in questo caso la Corte Costituzionale non ha ritenuto violato il diritto di difesa perché “nel procedimento tendente alla creazione del titolo esecutivo non vi è violazione del diritto di difesa, non è preclusa (aggiungo alla parte) la successiva sindacabilità del provvedimento di esecuzione, e la possibilità di ottenere la sospensione della esecuzione” secondo quanto prevede il comma 3 dell’art. 825 del c.p.c.

Altra questione di legittimità costituzionale è stata posta riguarda l’esclusione del doppio grado di giurisdizione, in questo caso la questione è infondata perché, come rilevato dalla Corte di Cassazione, con il decisum del 22 ottobre 1979, n. 5843, “il nostro sistema costituzionale non garantisce il doppio grado di giurisdizione, la cui previsione è contenuta solo nelle leggi ordinarie”.

Infine problemi di legittimità costituzionale hanno riguardato l’art. 25 della Costituzione, anche in questo caso non si ha violazione.

Al riguardo la suprema Corte, con la sentenza del 18 aprile 1975, n. 1458, ha statuito che “la garanzia costituzionale del giudice naturale opera rispetto a giudici precostituiti nell’ambito dell’organizzazione giurisdizionale e non impedisce la risoluzione della controversia in via arbitrale”.