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Nel Regno di Làgnaus: comunicare la crisi organizzativa​​​​​​​

Nel regno di lagnaus
Nel regno di lagnaus

Nel Regno di Làgnaus: comunicare la crisi organizzativa

Prima di entrare in medias res, due parole in generale sulla crisi (identitaria? personale? professionale?). Ogni tanto mi domando cosa indaghino le persone alla perenne ricerca di se stesse o di un proprio ruolo. Tra l’altro, non di rado, è gente capace di divulgarlo al mondo intero, anche in contesti frivoli e inadeguati. Il fatto, dunque, dovrebbe restare circoscritto a uno specialista (psicoterapeuta, non solo psicologo delle organizzazioni) e al mondo interiore. Intendo, senza estrinsecazioni da bar, da palestra o, soprattutto, da social.

Ora, se è vero che il viaggio all’interno dell’io è senza dubbio affascinante, è fuori discussione che l’itinerario prima o poi debba finire in un punto d’approdo o con il naso di fronte al muro. Sembra una domanda apparentemente banale, ma se la ricerca è finalizzata a trovare qualcosa che di fatto non c’è ed è patrimonio di chiunque ci incontri, probabilmente non siamo alla ricerca di noi, ma stiamo proiettando la nostra insicurezza o, più semplicemente, la vanità al di fuori. In poche parole, il viaggio non è permanente, ma deve avere un inizio e una fine, altrimenti la ricerca è patologica e irrisolvibile. Non ultimo, la visione d’approccio possiede una prospettiva di equilibrio ontologico.

Già, ma com’è possibile se, durante una crisi esistenziale o professionale, manca proprio l’equilibrio? La maggior parte dei problemi nasce quando non esiste l’accettazione del proprio stato di disequilibrio, ci si rivolge al conforto di amici e parenti, anche nel bricolage dei ritagli da Facebook, ignorando che durante una crisi abbiamo il dovere di rivolgerci a professionisti seri. Inoltre, se la prospettiva da cui ci guardiamo, con un contorsionismo emotivo, è vicino ai glutei, non avremo buone chanches di risolverla.

Saper pesare l’anima nella psicostasia può rappresentare un colpo netto sul capo, ma quando ci si rialza – perché siamo sempre destinati a rialzarci nella nostra vita vissuta – la botta incassata sarà destinata a svegliarci da un torpore esistenziale che era riuscito a tradurci nella crisi. In questo caso, ad esempio, per un lutto, per una bocciatura in un concorso, bisogna dare spessore anche ai momenti positivi e, soprattutto, capire che la vera gioia non è un traguardo prefissato, ma il viaggio quotidiano verso quell’obiettivo (anche se, in ipotesi, non lo raggiungessimo).

In ambito professionale ha come concause (ma anche come effetti collaterali inevitabili) la disistima, la mancanza di motivazione e una generale insoddisfazione giornaliera verso il proprio ruolo nelle organizzazioni. Prima di dichiararsi in crisi, è molto probabile come rimedio un bagno di umiltà e che risulti necessario non comunicarla subito apertamente. Lavorare con un dirigente incapace spesso porta a un sentimento di profonda inutilità e arrendevolezza rispetto alle routine quotidiane. Quasi un modo di stravaccarsi sulla sedia in ufficio, svuotati di energia.

Forse qui la domanda da porsi è relativamente semplice: un dirigente deve essere tecnicamente capace di agire oppure, come più correttamente insegnano gli scienziati dell’organizzazione, deve essere in grado di scegliere e di gestire le persone in grado di realizzare al meglio le procedure? Se il dirigente fa questo, anziché gestire e programmare, non fa il dirigente. Già questa sintetica affermazione risolverebbe non poche crisi da “capo incapace”.

Certo, un buon dirigente deve essere in grado non solo di saper far fare (delegare), ma anche di far sapere, cioè di comunicare. Questo è lo svincolo autostradale verso la destinazione della probabile soluzione della crisi da sottostima apicale.

Ed è in tali contesti che il dirigente deve saper costruire una squadra e motivarla, avvolgendo i collaboratori nel fluire delle parole e delle azioni che fanno leva sul senso di appartenenza e sui risultati. Qui la base di partenza consiste nel dare linfa all’autostima dei componenti del proprio gruppo.

Del resto, poniamoci una domanda doppia. Come mai spesso parliamo male dei vertici e ci domandiamo come mai un dirigente così incapace sia riuscito a diventarlo? E poi, a ben vedere, lo facciamo senza un motivo scatenante, ma soltanto per seguire il pensiero dominante di qualche collega perennemente imbacuccato nel Regno di Làgnaus. Lì alberga la lagna autoreplicante e sempreverde. Alla macchinetta della buvette di Làgnaus è più facile imbattersi nel caffè scontentato o nel tè lamentoso per fare comunella nello sport meno faticoso di sparlare dei propri capi. Tuttavia, le parole spesso ritornano un senso a turlupinare le persone in costanza di lagna.

Infatti, ci sono dei professionisti della lamentela, sempre insoddisfatti anche il giorno dopo aver avuto una progressione verticale di carriera, solo per il malsano senso di dover comunque essere al centro dell’attenzione e lagnarsi di qualcosa.

Se la crisi professionale è dovuta in larga misura a quello di cui abbiamo trattato all’inizio, significa che la prospettiva con cui ci guardiamo è intorno ai nostri glutei e costellata da luoghi comuni. Esistono persone che galleggiano soltanto tra i cahiers de doléance preconfezionati ad arte oppure nella leadership dal male oscuro,

La crisi, infatti, ha mille facce e una sola via d’uscita: essere autentici, onesti prima di tutto con se stessi, senza sconti e senza timore di scontentare qualcuno. Quando, di contro, la crisi è solo di facciata, per porsi al centro dell’attenzione, per farsi “malusare” (nell’accezione vernacolare di “voler farsi notare”), diventa una scusa per qualche azione bagatellare poco apprezzata nelle organizzazioni serie.

Essere intrisi di crisi, inoltre, non rappresenta un fatto esclusivamente negativo. Anzi, esistono moltissimi aspetti positivi di una tappa (o più di una) obbligatoria per chiunque, se vissuta con intelligenza e, perché no, anche con una buona dose di coraggio. Infatti, bisogna “aprirla ufficialmente”, metterla sul piatto con i propri responsabili, senza sottintesi che alla lunga non fanno che confluire nel torrente burrascoso dei malintesi, ma senza indossare la maschera della mancata valorizzazione priva di evidenze concrete.

Far finta di non essere in crisi, non a caso, è un autogol terribile, anche nella sfera personale. Del resto, il termine deriva dal greco “giudicare”, quindi ritenere sé in una condizione in cui è necessario riflettere su molti aspetti. Ho letto con molto piacere questo articolo.

Nel caso in cui lo leggeste, tenete da parte gli aspetti spirituali e religiosi. Accentuate semmai gli aspetti laici, che più ci interessano in questa sede, partendo dalla frase maggiormente significativa: “È necessario anche sottolineare che le persone mature sono quelle che hanno il coraggio di attraversare la crisi e non, invece, quelle che non hanno le crisi” (p. 94).

Ecco, tornando al torrente burrascoso, si vede il guado quando si agisce e non ci si lascia attraversare dalla crisi, bensì la si attraversa. E, per scrutare il guado, bisogna prima scrutarsi, cioè comunicare con sé di sé.

Non è da tutti ammetterlo o aprirne una, ma è fondamentale se si vuole preservare qualcosa. Anzi, spesso l’uscita consapevole dalla zona di comfort determina una cesura tra gli equilibri in cui ci sembrava di camminare su una strada sicura e invece eravamo su un filo a 30 metri d’altezza a fare i funamboli senza bilanciere.

E, poi, la chiarezza. Avere la forza di comunicare con parole chiare e precise, con sé e con gli altri, è il primo passaggio obbligato. Ha costi alti, ma ricavi altissimi: si guadagna copiosamente in autenticità e in autostima. Se si è onesti intellettualmente, a volte per costruire bisogna anche saper distruggere in modo mirato (come nel restauro di un immobile), senza devastazione. Se, di contro, si vuole distruggere, anche in modo inconsapevole, è sufficiente il silenzio misto all'indifferenza e il gioco è fatto.

Infine, si può comunicare la crisi con azioni o con sinonimi? No, la crisi deve essere comunicata come tale, altrimenti albergherà, nei tanti avvezzi a letture approssimative e superficiali, la convinzione di trattare d’altro. Una comunicazione lineare ed essenziale ci salva dall’ipocrisia del detto e del non detto, della qual cosa si nutrono le organizzazioni opache, quelle che si muovono nel pantano dei legami deboli. La forza di comunicare una crisi organizzativa, infatti, è spesso il primo passo per risolverla.