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Ogni benedetta domenica

Calcio
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“Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Ogni atleta però è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile”. (1Cor 9, 24-25)

Rivolgendosi ai giovani di Roma e del Lazio in un discorso del 25 marzo 2010, Joseph Ratzinger cita un passo dalla Prima Lettera ai Corinzi di san Paolo sul significato profondo dello sport. Per il Papa Emerito, infatti, l’attività sportiva – e, come vedremo, il calcio in particolare – non rappresenta un semplice momento di svago, né un’occasione per mantenersi in buona salute, ma un’anticipazione della vita beata.

Solo nei primi due anni e mezzo del proprio pontificato (aprile 2005-gennaio 2008), Joseph Ratzinger tocca l’argomento «sport» non meno di cinquantatré volte [1]. A stupire non è però che o quanto ne parli, ma come. Per Benedetto XVI, in primo luogo, lo sport è etica. In un tempo (il nostro) in cui i valori fondamentali dell’occidente sono entrati in crisi, lo sport viene in aiuto alla tradizione, coltivando nel “gioco” la crescita intellettuale e spirituale della persona. Già Camus affermava:

«Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e le scene di teatro – le mie vere università».

La chiesa cattolica è da sempre attenta alle dinamiche della società. Il suo messaggio è eterno, ma gli uomini a cui si rivolge sono temporali. In questo senso non stupisce che Benedetto XVI, già filosofo e attento osservatore del reale, torni con tanta insistenza sul tema dello sport, fenomeno globale. Ma per rintracciare le ragioni più profonde del legame tra il Papa Emerito e lo sport, non possiamo limitarci a questa constatazione di ordine «storico».

Partiamo dalle origini e dalla terra del Papa tedesco. Gli anni d’oro del Bayern Monaco (1965-1979), quelli dell’esplosione, tanto per intenderci, di talenti come Sepp Maier, Franz Beckenbauer, Gerd Müller, sono gli stessi in cui il giovane Joseph si fa strada nel panorama filosofico e teologico delle università tedesche. La Baviera, roccaforte cattolica dal Seicento, è terra di contadini, di uomini di fede e di tifosi del Bayern Monaco.

È qui che nasce (16 aprile 1927) e studia Joseph Ratzinger, futuro Papa e tifoso della squadra più forte di Germania. Non dobbiamo però immaginarci Ratzinger come un hincha, alla stregua del suo successore al soglio papale, Francesco. A differenza dell’attuale pontefice, Ratzinger non è infatti un tifoso sfegatato, non ha soprattutto l’abbonamento allo stadio come Jorge Mario Bergoglio. Ad interessarlo in sommo grado, fin da bambino, è la teologia; ma anche il calcio, come vedremo, ha a che fare con il teologico.

Durante una delle primissime messe, il piccolo Joseph (5 anni) già vede con chiarezza il proprio futuro, innamorandosi della liturgia. Nel ’46 inizia così lo studio della filosofia e della teologia in compagnia del fratello Georg, a Frisinga. Nel ’51 viene ordinato sacerdote e nel ’52, a soli 25 anni, è già professore universitario. Nel 1959, all’età di 32 anni, tiene una cattedra a Bonn.

Se lo studio della filosofia e della teologia lo appassiona e lo tiene impegnato, nulla però gli impedisce di continuare a seguire il Bayern Monaco, di cui diventerà socio onorario diciassette anni più tardi.

La sua vita di accademico cambia quando Josef Frings, arcivescovo di Colonia, lo chiama come consulente teologico per seguire da vicino i lavori del più celebre Concilio dell’età moderna: il Vaticano II. Al termine dei lavori (1965), viene chiamato a Tubinga come professore di teologia. Ricorda il prelato Helmut Moll, che più tardi collaborerà per lunghi anni col suo ex professore alla Congregazione per la dottrina della fede: «Tra Ratzinger e gli altri non c’era confronto. Le lezioni che avevo sentito a Bonn da professori di impostazione neoscolastica apparivano aride e fredde, una lista di definizioni dottrinali esatte e basta. Quando a Tubinga ascoltai come Ratzinger parlava di Gesù o dello Spirito Santo, sembrava a tratti che le sue parole avessero accenni di preghiera». È da queste lezioni che nascerà la prima opera del teologo tedesco: Introduzione al cristianesimo.

Ma a Tubinga, come un po’ ovunque in quello strano momento nella storia dell’occidente, Ratzinger fa i conti col ’68. Il professore cerca e incoraggia il dialogo con gli atei, ma il vandalismo e la viltà di certi studenti nei confronti della fede cristiana, esposta al ludibrio e presa a calci persino all’interno della facoltà teologica, sono per lui una violenza intollerabile.

Ratzinger si reca così a Ratisbona, dove insegna teologia dogmatica. Il 25 marzo del ’77 viene eletto ad Arcivescovo di Monaco e di Frisinga. È in questo torno di tempo che diviene socio onorario del Bayern. L’enfant prodige della teologia è ormai troppo celebre perché i piani alti della chiesa cattolica non se ne accorgano. Così, appena un mese dopo l’inizio dell’arcivescovado, Ratzinger viene elevato da Paolo VI alla porpora cardinalizia. In poco tempo diventa stretto collaboratore del nuovo Papa Carol Wojtyla, che lo mette a capo della Congregazione per la dottrina della fede (1° marzo 1982). È sotto la supervisione di Joseph Ratzinger che viene così elaborato e pubblicato il nuovo catechismo della chiesa cattolica.

È proprio in questo periodo, e precisamente alla vigilia dei Mondiali di calcio del 1986, così cari a Jorge Mario Bergoglio, che Joseph Ratzinger pubblica un testo oggi contenuto nella raccolta Cercate le cose di lassù in cui analizza con grande lucidità l’importanza sociale del gioco del calcio. Questo testo, pur nella sua brevità, costituisce una testimonianza di primaria importanza rispetto al pensiero di Ratzinger in materia.

Il teologo, qui nei panni del sociologo, parte da una domanda precisa: «perché questo sport riesce a trasportare così tanta gente?». Egli analizza dunque il calcio immediatamente sul piano socio-culturale. La sua riflessione non si interroga sul gioco in sé, o perlomeno non in primo luogo, ma sulla sua importanza sociale: «nessun altro avvenimento sulla terra può avere un effetto altrettanto vasto, il che dimostra che questa manifestazione sportiva tocca un qualche elemento primordiale dell’umanità e viene da chiedersi su cosa si fondi tutto questo potere di un gioco».

Solo la religione, verrebbe da dire, ha un effetto tanto vasto, almeno a livello numerico. Qui però Ratzinger è radicale: «nessun altro avvenimento», dice, come il calcio, sposta a tal punto le masse. Nessun altro avvenimento «sulla terra», perlomeno. Un’aggiunta che sembra tautologica ma non lo è. Come vedremo meglio tra poco, per Ratzinger il calcio è infatti anticipazione della vita futura. C’è però un secondo elemento che non deve sfuggire dall’esordio del discorso: un qualche elemento primordiale, scrive Ratzinger, entra in gioco quando rotola sul terreno un pallone da calcio. Quale? Quello della libertà paradisiaca:

«Si potrebbe rispondere, facendo riferimento alla Roma antica, che la richiesta di pane e gioco [2] era in realtà l’espressione del desiderio di una vita paradisiaca, di una vita di sazietà senza affanni e di una libertà appagata. Perché è questo che s’intende in ultima analisi con il gioco: un’azione completamente libera, senza scopo e senza costrizione, che al tempo stesso impegna e occupa tutte le forze dell’uomo».

Un’azione completamente libera, scrive Ratzinger. Libera come la fede nel Figlio. Come spiega il teologo Giuseppe Barzaghi, infatti, commentando il celebre e controverso discorso di Ratisbona [3] di Benedetto XVI: «La fede non può essere imposta con la violenza. La fede è legata al Logos e il Logos ha il carattere del dialogo. La conversione non può essere imposta, è un’attrattiva, ha un carattere di fascino, possiede una forza che va al di là della violenza, si trasmette per contagio». La fede è libera, dunque, ma fino a un certo punto, nel senso che in essa gioca un ruolo preponderante l’attrattiva, il fascino, il volto di chi ce la presenta in quanto testimone. È esattamente ciò che accade col calcio. E infatti, prosegue Ratzinger:

«In questo senso il gioco sarebbe una sorta di tentato ritorno al Paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà («freien Ernst») di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello».

Non si può qui non citare san Tommaso d’Aquino, il quale (nel commento al De hebdomadibus di Boezio) proprio nel gioco vede l’attività più simile alla preghiera: «Infatti, la contemplazione della sapienza (e, quindi, di Dio, sapienza suprema) non può trovare miglior termine di paragone, che non il gioco. Ovviamente, con “gioco” non s’intende qui il gioco “interessato”, nel quale si gioca per guadagnare soldi o vincere un premio, ma il gioco spontaneo, disinteressato, come quello dei bambini: i bambini giocano per giocare. Il gioco così inteso non ha altro scopo se non sé stesso, così come la contemplazione di Dio non ha altro scopo se non sé stessa».

È dunque in questo gioco disinteressato – lo stesso di cui parla Kant, ma sotto un’altra lente, nella Critica del giudizio a proposito del bello – che «si gioca» la religiosità del pallone. Religiosità che qui, lo ripetiamo, non interessa ancora la «fede» dei tifosi, ma il semplice gioco nella sua pratica. Quel gioco di cui Pasolini sottolinea il carattere sacro: «rito di fondo ed evasione, [il calcio è] l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo».

Torniamo alle parole di Ratzinger. Libertà ed evasione, ludica attività disinteressata: ecco i segreti del gioco del calcio. Ma c’è dell’altro. Il Fußball, per Ratzinger, «simboleggia la vita stessa e la anticipa, per così dire, in una maniera liberamente strutturata. A me sembra che il fascino del calcio stia essenzialmente nel fatto che esso collega questi due aspetti in una forma molto convincente». Il calcio, dunque, simboleggia la vita. Quale? Non quella terrena, ché soffre le doglie del parto (Rm 8,22), ma quella che, attraverso questa stessa sofferenza, spera di entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (Rm 8,21).

Il calcio, dunque, non sarebbe altro che un’anticipazione del Paradiso. In Filosofia del calcio di Bernhard Welte (che raccoglie due saggi, uno del ’78 e uno dell’82, forse dunque influenzando il pensiero calcistico di Joseph Ratzinger), il teologo tedesco scrive: «il gioco ben regolamentato della rivalità è l’auspicata e piacevole forma del gioco della vita – sebbene nella vita ciò sia piuttosto raro. Il gioco del calcio indica questo» (p. 39 dall’edizione Queriniana, trad. it. O. Tolone, 2010). Ciò che è piuttosto raro nella vita, cioè il gioco della rivalità, assume nel calcio la sua più piena configurazione.

Ma il calcio, per Ratzinger, non è soltanto il paradiso in terra. La sua funzione non è soltanto anticipatrice. Il calcio è infatti educazione, ethos, disciplina e relazione con l’altro: «costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere con l’allenamento la padronanza di sé; con la padronanza la superiorità e con la superiorità la libertà. Inoltre gli insegna soprattutto un disciplinato affiatamento («diszipliniertes Miteinander»): in quanto gioco di squadra, costringe all’inserimento del singolo nella squadra.

Unisce i giocatori con un obiettivo comune: il successo e l’insuccesso di ogni singolo stanno nel successo e nell’insuccesso del tutto». Ratzinger scrive tutto ciò nel 1985. Il calcio, oggi, è profondamente cambiato. Tra procuratori squali e ricattatori, giocatori merce e mercenari, quand’anche si parli del «successo del tutto» non si pensa mai alla squadra in senso tecnico, ma al brand in senso economico.

Ratzinger già vede, nel 1985, il pericolo a cui il calcio, in quanto fenomeno di massa, è esposto: «naturalmente tutto ciò [scil. la bellezza dello sport e del gioco di squadra, l’ethos calcistico] può essere inquinato da uno spirito affaristico che assoggetta tutto alla cupa serietà del denaro, trasforma il gioco da gioco a industria, e crea un mondo fittizio di dimensioni spaventose». Non serve aggiungere altro, ci siamo dentro fino al collo.

Ratzinger passa così ad osservare l’importanza sociale non del gioco in sé, ma della sua fruibilità. Non tutti gli sport, infatti, hanno i “tifosi”. Il calcio sì. Come mai? «Assistendovi, gli uomini si identificano con il gioco e con i giocatori, e partecipano quindi personalmente all’affiatamento e alla rivalità, alla serietà e alla libertà: i giocatori diventano un simbolo della vita dei tifosi; il che si ripercuote a sua volta su di loro [scil. i giocatori]: in ciò, essi si sentono confermati». È in questo senso che Simon Kuper, in Calcio e potere (2008), afferma che «il calcio è un gioco ma anche un fenomeno sociale. Quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco, esso cessa di essere solo un gioco».

E ancora, rifacendoci ad una testimonianza ancora più antica del Joseph Ratzinger calciofilo, il calcio rappresenta «un “evento globale”, che collega gli uomini – in ogni punto del globo terrestre, attraversando tutti i confini – in un solo e comune stato d’animo, nella speranza, nell’angoscia, nella passione e nella gioia» (cit. dal Bollettino dell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga, nr. 19, 1° giugno 1978).

Conclude Ratzinger, tornando al testo del 1985: «forse, riflettendo su queste cose, potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà». Nella conclusione del testo, dunque, Ratzinger riassume, con la consueta capacità di sintesi, i punti fondamentali del proprio discorso. La citazione è evangelica: «sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» (Mt 4,4; cfr. Lc 4,4). Frutto della creazione dell’uomo, il calcio è un evento consacrato a Dio. Non l’evento, ma un evento privilegiato per assaporare, anche solo per analogia, la nostra vita futura.

Una dinamica già vista da Bernhard Welte: «[nel calcio] non viene giocata semplicemente l’immagine mitico-archetipica della vita collettiva degli uomini così com’è, bensì l’immagine della vita come dovrebbe essere. Viene progettata un’immagine ideale o esemplare dei comportamenti umani. Potrebbe essere un disegno proveniente dalla profondità arcaica dell’uomo (ricorda l’elemento primordiale di Ratzinger), che certamente tiene conto della realtà, ma allo stesso tempo guarda al di là di essa, prospettando così un criterio per gli avvenimenti reali della vita, che non è desunto dalla realtà e che essa tuttavia reclama» (La partita come simbolo della vita. Riflessioni filosofico-teologiche sul gioco del calcio, pp. 57-58).

Ma cosa intende, Ratzinger, con «mondo della libertà»? Non di certo la libertà tipica del nostro tempo, sfrenata e folle, così libera da essere violenta, non problematizzata, una finta libertà. Quando parla di libertà, Ratzinger ha in mente un concetto ben più profondo: «La libertà si nutre però della regola, della disciplina, che insegna l’affiatamento e la rivalità leale, l’indipendenza del successo esteriore e dell’arbitrio, e diviene appunto, così, veramente libera». La libertà che è teleologicamente posta nel gioco del calcio è basata sulla regola, sulla disciplina e sul rispetto (rivalità leale). In questa idea della libertà, della regola, si ritrova quell’ideale monacale, proprio dell’ordine benedettino, che influenza a tal punto Ratzinger da indurlo a scegliere, vent’anni più in là al momento dell’elezione papale, proprio il nome di Benedetto XVI.

Il testo che abbiamo letto e analizzato si pone sotto la luce dello «Überschreitung». Possiamo tradurre questo vocabolo, più volte utilizzato da Ratzinger, con «oltrepassamento», «superamento». Attraverso il calcio, cioè, l’uomo oltrepassa sé stesso, approda su un terreno non più temporale ma quasi eterno, quasi divino.

Negli anni del proprio pontificato, Ratzinger, come sappiamo, avrà ben poco tempo per occuparsi di calcio. Ci piace vedere nella finale mondiale del 2014 come un ideale passaggio di consegne tra l’Emerito Papa tedesco e il nuovo Papa argentino, Bergoglio. Nell’Udienza Generale del 9 gennaio del 2008, Benedetto XVI ricorda: «Possa il gioco del calcio essere sempre più veicolo di educazione ai valori dell’onestà, della solidarietà e della fraternità, specialmente fra le giovani generazioni».

Ancora una volta, dunque, la riflessione del pontefice si concentra sul gioco del pallone come strumento d’educazione fondamentale, di unione fraterna. Così, all’indomani della vittoria in Coppa d’Asia della nazionale irachena (2007), Papa Benedetto XVI esclama: «Come tante volte ho pianto con gli Iracheni, in questa circostanza con loro gioisco. Questa esperienza di lieta condivisione rivela il desiderio di un popolo di avere una vita normale e serena. Auspico che l’evento possa contribuire a realizzare in Iraq, con l’apporto di tutti, un futuro di autentica pace nella libertà e nel reciproco rispetto. Congratulazioni!».

La teologia e la missione pastorale di Joseph Ratzinger si fondano sul recupero della tradizione cattolica come argine, freno, alla smoderata insensatezza morale, filosofica, culturale, dell’Occidente – e, per estensione, del mondo in generale.

Da questo punto di vista, lo sport, senza sostituirsi alla religione, rappresenta però un aiuto fondamentale all’opera di restaurazione dei valori portanti della nostra civiltà: lo sport, infatti, «risulta essere di enorme aiuto in particolare per i giovani, visti i mutamenti sociali, la sempre più diffusa perdita di valori e il crescente disorientamento» (Benedetto XVI, Discorso alla Squadra Nazionale Austriaca di Sci Alpino, 6 ottobre 2007). E ancora: «lo sport, praticato con passione e vigile senso etico, specialmente per la gioventù, diventa palestra di sano agonismo e di perfezionamento fisico, scuola di formazione ai valori umani e spirituali, mezzo privilegiato di crescita personale e di contatto con la società» (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti ai Campionati Mondiali di Nuoto, 1° agosto 2009).

«Per i cristiani, il riferimento alla luce rimanda al Verbo incarnato, luce del mondo che illumina l’uomo in ogni sua dimensione, compresa quella sportiva. Non vi è nulla di umano, eccetto il peccato, che il Figlio di Dio, incarnandosi, non abbia valorizzato. Tra le varie attività umane vi è quella sportiva, che attende, anch’essa, di essere illuminata da Dio, mediante Cristo, perché i valori che esprime siano purificati ed elevati sia a livello individuale che collettivo» (Benedetto XVI, Messaggio al Cardinale Severino Poletto, Arcivescovo di Torino, in occasione della XX edizione dei Giochi Olimpici Invernali, 29 novembre 2005).

Dall’inizio alla fine, con una coerenza ammirevole e una riflessione continua, mai banale, ma sempre profonda e sintetica ad un tempo, Benedetto XVI ha sottolineato la straordinaria importanza sociale, etica e religiosa dello sport in generale e del calcio in particolare. Ci piace immaginarlo in compagnia di una birra, vestito di un candido e purpureo abito talare: i colori dell’abito cardinalizio, i colori del Bayern Monaco.

 

[1] Notizia da Mons. Josef Clemens, Segretario del Pontificio Consiglio per i Laici, L’attività sportiva nel pensiero di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, Gli Eventi di Elea. Incontro su «Calcio, valori in gioco», Aula Magna, Università LUMSA, Roma, 18 dicembre 2009, ore 18.00.

[2] L’espressione latina «panem et circenses» risale a Giovenale (ca. 55-127), Satire 10, 81.

[3] Il discorso, noto col titolo di Fede, ragione e università, venne tenuto dal neo Papa Benedetto XVI a Ratisbona, luogo per lui denso di ricordi, nel settembre del 2006. Il discorso, a cui sono stati dedicati fiumi d’inchiostro, ha sollevato numerose polemiche a proposito delle presunte critiche di Ratzinger all’Islam.