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Perché una vittoria di Putin in Ucraina è una sconfitta del popolo russo

President of Russia Vladimir Putin at a meeting with permanent members of the Security Council
President of Russia Vladimir Putin at a meeting with permanent members of the Security Council

I russi sono a Kiev. Di nuovo, si potrebbe aggiungere, dato che proprio in quell’entità medievale nota come Rus’ di Kiev, centrata nell’odierna capitale ucraina, furono gettati i semi geopolitici del futuro Impero zarista. Una considerazione storica che peraltro stride enormemente con la narrazione ufficiale del presidente russo Vladimir Putin, che nel riconoscere le sedicenti repubbliche popolari di Doneck e Luhans’k si è voluto prendere beffa dell’intera tradizione storica ucraina – declassando di fatto il proprio vicino occidentale a entità eternamente satellite della Russia, realizzata in vitro dal ‘russissimo’ rivoluzionario Lenin.

L’obiettivo del Cremlino non sembra tanto rievocare il ‘glorioso’ passato sovietico e ricostituire le repubbliche sorelle, ma impedire nel più brutale e cinico dei modi che si completi l’avvicinamento dell’Ucraina all’Occidente – ossia all’UE e, anzitutto, alla NATO. Mosca si è insomma costruita una personalissima macchina del tempo per tornare al 2014, prima che a Kyiv scoppiasse la rivoluzione di Euromaidan e che la classe dirigente presieduta dal magnate filo-russo Viktor Janukovyč venisse destituita da un nuovo establishment fieramente occidentalista e anti-russo.

Nonostante le perdite umane e militari russe si stiano rivelando più notevoli di quanto preventivabile, a meno di clamorose sorprese sembrerebbe questione di giorni prima che l’artiglieria russa prenda la capitale Kyiv – al netto della strenua e sorprendentemente ostica resistenza dell’esercito ucraino rimpolpato da riservisti e volontari. Si iniziano però a rincorrere ipotesi su un’eventuale proposta di negoziato tra Putin e Zelens’kyj, indice del fatto che la prosecuzione delle ostilità forse non conviene troppo a entrambi: per l’ucraino, perché passerebbe alla storia come il presidente vittima della seconda Anschluss russa di Kyiv in un secolo; per il russo, perché se è vero che l’Occidente ha ripetuto allo sfinimento di non voler intervenire militarmente, è altrettanto innegabile che USA e UE stanno colpendo Mosca là dove fa male: l’economia, piede d’argilla del gigante militare sovietico (prima) e russo (poi).

Le sanzioni implementate da Washington, ieri, e da Bruxelles, oggi, sferrano infatti un colpo formidabile al sistema bancario russo, di fatto segregandolo senza usare l’opzione ‘nucleare’ di cacciare Mosca dal sistema di comunicazione interbancaria SWIFT. In particolare, la Casa Bianca ha bersagliato le due principali banche russe – Sberbank e VTB – attraverso una chiusura immediata del loro accesso al mercato dei capitali statunitensi. Considerando che Sberbank è il principale erogatore nazionale di stipendi e pensioni, le conseguenze sulla popolazione si preannunciano problematiche.

Si potrebbe argomentare che la Russia abbia un debito bassissimo in relazione al PIL (21,39%) e che perciò possa pur sempre indebitarsi per sostenere i propri istituti finanziari. Ma per fare altro debito servono pur sempre creditori pronti a sottoscriverlo – e un altro aspetto delle sanzioni occidentali è l’impossibilità pratica per Mosca di finanziarsi sui mercati statunitensi ed europei.

Quella attualmente in corso in Ucraina non è quindi una guerra ‘calda’ (o hard war) tra Russia e Ucraina, ma anche un conflitto ‘freddo’ (o economico) tra Russia e UE-USA. La “mano invisibile” a trazione occidentale non ha infatti perdonato a Mosca l’attacco dell’Ucraina, facendo sprofondare il rublo negli abissi più reconditi: al momento in cui si scrive il cambio RUB-USD viaggia intorno a 83-1, ma giovedì mattina ha raggiunto il record storico di 89,20-1. Lo stesso dicasi per il cambio RUB-EUR.

A livello pratico, ciò si traduce in un peggioramento dell’inflazione, già all’8,73% (negli USA è al 7,5%), e in un fastidioso carovita per i russi ‘ordinari’ – che difficilmente trarranno benefici immediatamente concreti dall’impennata del prezzo di gas e petrolio.

Storicamente, però, è proprio il carovita uno degli storici fattori trainanti dello scontento popolare, che potrebbe verosimilmente crescere nei prossimi mesi diventando ancor di più la spina del fianco del circolo putiniano. Un assaggio di ciò che potrebbe accadere è arrivato giovedì, quando migliaia di manifestanti hanno protestato pacificamente in alcune città russe, tra cui Mosca e San Pietroburgo, al grido di “net vojne!“: “no alla guerra” contro i ‘fratelli’ consanguinei slavi, no al massacro di vite umane. Come ormai consuetudine russa, c’è voluto davvero poco prima che le forze dell’ordine intervenissero per disperdere la cospicua folla e arrestarne i presunti agitatori.

Finora il movimento anti-corruzione capeggiato dall’attivista Aleksej Naval’nyj non è riuscito a fare breccia nell’elettorato medio al di fuori delle grandi città perché considerato un fenomeno borghese, ‘manettista’, insomma tutto critica e niente proposta. Che Putin usi un prestanome per comprare immobili di extra-lusso coi soldi dei contribuenti diventa tutto sommato ‘passabile’ se il 27 di ogni mese arrivano le pensioni e i benefits statali. Ma la storia recente russa insegna che il regime inizia a scricchiolare proprio quando è il russo medio ad avvertire in prima persona le conseguenze del malgoverno: non a caso le più grandi proteste dell’ultimo decennio in Russia si sono verificate per contestare l’aumento dell’età pensionabile. In tal caso, il costo economico potrebbe trasformarsi in costo sociale, e di lì a seguire in costo poliziesco – dato che le autarchie, in mancanza di prebende, sono solite reprimere il dissenso coi manganelli.

Costi economici – e umani – potrebbero quindi derivare da un’annessione tout court di pezzi di Ucraina, sia in caso di inglobamento di Luhans’k e Doneck, sia in caso di ‘germanizzazione’ del conflitto – ossia di spartizione in Ucraina occidentale e Ucraina centro-orientale. Beninteso, ipotesi del genere sono ancora poco più che fantapolitica. Ma il prestigio politico di aver ricomposto un pezzo del puzzle sovietico, unita all’aspetto di aver riportato sotto il proprio potere le ricche regioni orientali dell’Ucraina, potrebbe motivare Putin ad attaccare.

A premere troppo sull’acceleratore, però, la macchina rischia di andare a sbattere. E a pagarne le conseguenze potrebbe essere chi – come i russi ordinari – siede sul sedile affianco al guidatore.

 

E l’Italia?

Prime Minister Draghi meeting with US President Joe Biden at Palazzo Chigi, 10/29/2021. Photo: (governo.it)
Prime Minister Draghi meeting with US President Joe Biden at Palazzo Chigi, 10/29/2021. Photo: (governo.it)

L’Italia, analogamente al resto dei Paesi di UE e NATO (ma non solo), ha fermamente condannato l’aggressione russa per bocca tanto del presidente del Consiglio Mario Draghi che del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, oltre al resto delle comunità governativa e parlamentare.

Insieme agli altri 26 Stati dell’UE, Roma ha adottato un pacchetto di sanzioni che mirano a paralizzare il sistema bancario-finanzario russo, senza però farlo uscire da SWIFT: pare infatti che l’Italia, assieme alla Germania, sia tra i pochi contrari a questa ipotesi. Proprio Roma e Berlino saranno verosimilmente le nazioni europee occidentali più colpite dal ridotto flusso di affari con le imprese di Mosca, frutto tanto delle sanzioni europee quanto delle scontate controsanzioni russe. A soffrire, tra gli altri, l’industria e il commercio (specialmente nel settore alimentare e del lusso), ma in realtà l’intera economia se Mosca chiedesse a Gazprom di allentare il rubinetto del gas attraverso Jamal-Europe.

A livello militare, invece, nome più volte ribadito dalla NATO, nessun esercito occidentale (tantomeno quello italiano) metterà piede in Ucraina. Per due motivi elementari:

  1. Kiev non è membro della NATO e quindi non le si applica la clausola di difesa collettiva contemplata dall’art. 5 del Trattato NATO (la commitment clause), tale per cui un attacco contro un singolo membro equivale a un attacco all’intera NATO. Tra l’altro, pur volendo fare le cose in fretta, l’ingresso nell’Alleanza Atlantica è precluso a quegli Stati che abbiano dispute territoriali in corso, quale è appunto l’Ucraina (e questo a Mosca lo sanno perfettamente)
  2. Per i motivi di cui sopra, intervenire spontaneamente, senza un chiaro vincolo, a difesa dell’Ucraina significherebbe spalancare le porte a un conflitto europeo apocalittico che coinvolgerebbe quattro potenze nucleari, tra cui le due principali (USA e Russia). In pratica, far avverare lo spettro che ha incombuto sull’Europa per quasi mezzo secolo.