Piccola storia (senza pretese) dei cognomi italiani
Che il nome che portiamo sia “importante” ben lo sappiamo e magistralmente bene lo ha sottolineato quel gran genio di O. Wilde nella sua divertente quanto dissacrante commedia teatrale “The Importance of Being Earnest” (pregna di intenzionali equivoci, imperniati sul paradosso di un tale Ernest ... che earnest = onesto non lo era affatto).
Arguti giochi di parole a parte, già i nostri saggi padri latini, con la famosa locuzione nomen omen (il nome è un presagio), ne rimarcavano il “peso” preponderante sul nostro destino individuale.
Se è stimolante conoscere l’etimologia degli oltre 7mila nomi di battesimo allo stato presenti nel Belpaese, ancora più inebriante è avventurarsi nella folta selva dei circa 330mila cognomi censiti.
Un numero esorbitante. Praticamente un primato a livello mondiale.
Rossi e Ferrari i più diffusi (come prevedibile), ma, rovistando di qua e di là, è tutto un simpatico scovare e ... ce n’è davvero per tutti i gusti.
Il cognome nella Roma antica
Dietro ad ogni cognome c’è una storia, che affonda le sue radici nell’antica Roma.
Il cittadino romano era, per legge, munito di: prenomen (Lucius, Marcus ... corrispondente al nostro nome); nomen (che indicava la gens di appartenenza: Claudia, Giulia ...); cognomen, ovvero il soprannome.
Quest’ultimo veniva di prassi attribuito in ragione di caratteristiche fisiche (è il caso di Publio Ovidio Nasone, il cui naso non passava di certo inosservato), di abitudini (Caligola viveva in stretta simbiosi con i suoi sandali, caligae), di gesta memorabili (Scipione l’Africano, per la schiacciante vittoria sui cartaginesi).
A complicare ulteriormente la faccenda, già di suo piuttosto complessa, l’eventuale ricorso all’agnomen: una sorta di nickname talvolta attribuito in caso d’adozione.
Si segnala che sono tuttavia rari i cognomi di origine latina pervenuti intonsi fino a noi (i Cocci, direttamente dalla gens Cocceia, possono andarne fieri).
Il Medioevo e la “consacrazione” del cognome
È nell’età di mezzo che i nostri attuali cognomi si forgiano e si irrobustiscono.
Come accade ancora oggi nei paesini, per ovviare a quella fastidiosa questione dell’omonimia, si inizia infatti ad aggiungere, all’inflazionato Francesco di turno, l’indicazione del patronimico, della provenienza o del mestiere svolto.
Nascono così i Di Giuseppe&co, i Pugliese, i Fornaciari (fornai) e via discorrendo (ladri di polli inclusi, che paiono infestare soprattutto la Lombardia: Fumagalli).
Interessante constatare che, su scala nazionale, i cognomi rappresentativi dell’attività professionale esercitata terminano con la desinenza -aro; se ne discostano alcune regioni, che invece prediligono il finale -aio (Toscana), -ero (Piemonte), -in (zona nord-est).
Dal Concilio di Trento alla moderna onomastica
La registrazione obbligatoria dei battezzati, introdotta dal Concilio di Trento (correva l’anno del Signore 1546), costituisce una tappa decisiva per il riordino dei cognomi già preesistenti.
Parallelamente, si scatena l’inventiva per fornire un’identità (e una conseguente dignità) anche ai tanti neonati “trovatelli”: Proietti (da proiectus, gettato), Esposito (perché “appoggiato” sulla famosa ruota dei conventi), Diotallevi (benaugurale al pari di Laudadio).
Fenomeno, quello dell’abbandono dei minori, particolarmente praticato nel meridione, posto che è qui (Campania in primis) che se ne trova la più alta concentrazione.
Da allora in poi, la derivazione greca (es. Cristofori) radicata in Sicilia e nel resto dell’ex Magna Grecia, germanica (es. Bernardi), ebraica (es. Adami) si mescola ai graziosissimi diminutivi (es. Riccardini) e vezzeggiativi (es. Guiducci) tipici dell’Italia centrale.
Ad arricchire la gamma delle sfumature, le ruspanti varianti dialettali (Zanni, il Giovanni veneziano).
Sempre onnipresenti, infine, i richiami floro-faunistici (Bosco, Lupo) ed i connotati psico-fisici (Savio, Grosso); a tal proposito, l’autarchica Sardegna, con l’imperversare dei Sanna (gente dai canini pronunciati?) e quegli altri quattro o cinque cognomi ricorrenti resta un caso “isolato”.
Largo alla fantasia
Un crescendo colorito che solo il genio italico poteva coniare nella sua unicità, in un climax ascendente di “pittoricità”: Bellomo, Quattrocchi, Pappalardo, Chiappafreddo.
Tinte forti. Carattere da vendere.
Fuorviante Mastronzo che – al bando le illazioni – non è altro che la forma contratta di Mastro Oronzo: non già quindi da censura bensì ... semplice frutto di ingenua cesura.