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Privacy: “trascurabile imbarazzo” o lesione alla reputazione?

Negata la tutela per foto apparsa in cronaca.
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La Cassazione nega la tutela per uno scatto utilizzato nell’impaginazione di una notizia di cronaca, essendo derivato alla ricorrente soltanto un “trascurabile imbarazzo”.

 

Il fatto

Tutto parte da uno scatto fatto ad una donna al fine di pubblicizzare un centro benessere di un hotel di provincia.

Una foto, scattata quindi per fini meramente pubblicitari, diventa l’oggetto di una causa, intentata dalla donna raffigurata nello scatto in argomento, in quanto il medesimo sarebbe stato poi riutilizzato da un giornale locale nell’opera di impaginazione di una notizia di cronaca che fa luce su un’indagine effettuata nello stesso centro benessere.

Proprio di luci si tratta, ma non bianche bensì rosse, dal momento che oggetto dell’indagine era un presunto giro di prostituzione.

Da qui il titolo dell’articolo del giornale locale (“Sauna a luci rosse”) e la richiesta di risarcimento per violazione della privacy, dell’onore e della reputazione da parte della donna.

 

Privacy: nessuna confusione tra la lesione al diritto d’autore e quella alla riservatezza

È alquanto possibile che una foto, scattata da un professionista per un determinato fine e ambito, sia riutilizzata da altri.

È bene precisare che qui non è il diritto alla privacy –la cui produzione normativa nazionale ed europea diventa sempre più abbondante – ad essere posto sotto i riflettori, quanto piuttosto il diritto d’autore. Insomma, tutto un’altra questione!

Il problema sorge qualora una foto, raffigurante una determinata persona in un determinato contesto, venga estrapolata dal medesimo per essere riutilizzata per altri fini.

In tal caso, la prospettiva risarcitoria è duplice per:

  • lesione alla privacy;
  • eventuale danno reputazionale.

 

La base giuridica. Onore e reputazione

Quelli dell’onore e della reputazione possono essere considerati quali fondamentali, e quindi inviolabili, alla luce della carta costituzionale, ex art. 2 Cost., ricondotti nel più ampio spettro della dignità umana, anch’essa –per sua natura- inviolabile.

Al di là del dettato costituzionale, che resta comunque di fondamentale importanza (in quanto è sulla base dello stesso che si ramifica tutta la legislazione successiva), l’attenzione va posta sulle norme codicistiche e, in particolare, su quelle del codice penale.

Ai sensi dell’articolo 595 del codice penale, “chiunque […] comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516”.

Insomma, nel nostro ordinamento, la reputazione è sacrosanta e quella violata per mezzo stampa è sicuramente la più grave, essendo soggetta anche alla pena più severa rispetto a quelle contemplate nei primi due commi del summenzionato articolo.

 

Privacy: e il danno?

La Cassazione si è espressa due volte sul tema.

Sin da subito la Suprema Corte ha precisato che si tratta di un danno non patrimoniale, e quindi deve essere ricondotto nell’orbita nell’art. 2059 c.c., intendendosi in termini unitari e senza distinzione tra reputazione personale e professionale.

In un secondo momento, nel 2016, la Corte ha specificato che il danno non patrimoniale risarcibile non esiste in re ipsa, ma necessità di essere provato dal ricorrente anche mediante presunzioni semplici.

 

Privacy: il danno ai sensi del Gdpr

Bisogna segnalare che non sempre la violazione della privacy comporta una violazione della reputazione.

In tal caso, un risarcimento c’è e viene contemplato dall’art. 82 del Gdpr (Regolamento Ue 2016/679).

Chiunque subisca un danno materiale o immateriale causato da una violazione del presente regolamento ha il diritto di ottenere il risarcimento del danno dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento”, costituendosi, dunque, una responsabilità solidale, ai sensi dell’art. 1292 c.c.

Con ordinanza n. 17383/2020, la Cassazione ha affermato che il risarcimento derivante dalla violazione delle norme in materia di privacy non esiste in re ipsa, ma il danno deve essersi verificato concretamente.

Inoltre, il giudice sarà chiamato ad una valutazione circa la serietà e la rilevanza del pregiudizio alla privacy, considerando che il danno non patrimoniale è risarcibile qualora si superino certe soglie di tolleranza.

 

Privacy: la Cassazione chiude il cerchio

Con sentenza n. 29030/2021, alla luce di quanto sopra esposto, ha negato la tutela e il risarcimento alla ricorrente, dal momento che nessuno –nella sua cerchia di conoscenze – l’ha mai ricollegata allo scandalo, derivandone, dunque, solo un “trascurabile imbarazzo”.

Un po’ di rossore sul viso, provocatoci da imbarazzo per una notizia di cronaca che ci vede indirettamente coinvolti, non è per la Cassazione meritevole di tutela né tantomeno soggetto a risarcimento.