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Questo reato non s’ha da prescrivere, o forse sì

Il caso Taricco e la posta in gioco, tra retorica punitiva e garantismo penale

Di Marco Bassini

 

Nel paese di Cesare Beccaria, il principio della certezza del diritto se l’è vista davvero brutta negli ultimi tempi fino a quando, a inizio dicembre, la Corte di giustizia dell’Unione europea (con la sentenza del 5 dicembre, causa C-42/17, M.A.S. e M.B.) ha fatto elegantemente (ma risolutamente) retromarcia da una sua sortita oggettivamente infelice, la famigerata sentenza Taricco, che risaliva al settembre 2015 (sentenza dell’8 settembre 2015, causa C-105/14).

Il terreno di scontro su cui si è combattuta, senza esclusione di colpi, una battaglia che ha visto coinvolta anche la Corte costituzionale italiana è quello della prescrizione dei reati. Un tema ad alta sensibilità politica, che non a caso conosce una diversa disciplina nei vari Stati membri dell’Unione europea, più o meno ispirata, comunque, a una finalità garantistica a beneficio di chi si ritrovi coinvolto in un processo penale. Il caso Taricco, rimasto perlopiù relegato alle stanze dei giuristi, ha avuto il merito di riportare alla luce un contrasto a tratti ideologico, tra due diverse visioni della prescrizione: l’una, cui tendenzialmente aderiscono le leggi in vigore negli Stati europei, come presidio di garanzia, l’altra quale salvacondotto e scudo per l’impunità, che solletica maggiormente gli appetiti di alcuni operatori del diritto che vedono frustrate dalla prescrizione le aspettative di “fare giustizia”.

Questa curiosa vicenda (il cui effetto kafkiano è quello di aver avvicinato ancor di più il momento in cui il reato contestato nel processo da cui tutto è scaturito diverrà prescritto) si articola in tre passaggi essenziali:

1) la contestazione di aver commesso una frode fiscale connessa al versamento dell’IVA, un’imposta il cui gettito è in parte destinato alle casse dell’Unione europea;

2) l’avvio, in Italia, di un procedimento penale per un reato che ha un termine di prescrizione ben definito, a una data precisa;

3) l’idea di un giudice, insoddisfatto delle lungaggini delle indagini, di inventarsi una costruzione alquanto originale, scomodando l’obbligo per gli Stati dell’Unione europea di contrastare le frodi per arrivare ad affermare che i termini di prescrizione, non s’hanno da applicare o, quantomeno, che per giungere a una condanna definitiva servono termini di prescrizione più ampi. E come fa, questo giudice, a inventarsi che la prescrizione non s’ha da applicare? Chiamando in causa il diritto dell’Unione europea, e in particolare una norma che, come si vedrà, con la prescrizione non c’entra niente.

Sembrerebbe un racconto farsesco, ma c’è un giudice in Italia che ci ha provato davvero. E una Corte, a Lussemburgo (non lo dimentichi chi magnifica l’Europa in ogni dove, come e quando), che ci ha creduto, almeno in un primo momento, scatenando – come è comprensibile – reazioni assai preoccupate tra gli operatori del diritto.

Il giudice è il GUP del Tribunale di Cuneo che avrebbe dovuto decidere se processare, tra gli altri, il sig. Taricco per alcune frodi carosello (nel processo italiano, il GUP è il Giudice dell’Udienza Preliminare, che valuta se il materiale emerso nel corso delle indagini sia idoneo a sostenere l’accusa nel corso del processo in una sorta di udienza “filtro”). La Corte è quella di giustizia, che ha il compito di interpretare e di applicare in modo uniforme il diritto dell’Unione europea in tutti gli Stati membri. E che, interpellata dal Tribunale di Cuneo, ha stabilito, con una sua pronuncia del settembre 2015, che i giudici italiani possono disapplicare le norme sulla prescrizione dei reati per salvaguardare l’esigenza di perseguire e punire frodi che, come quelle connesse al versamento dell’IVA, attentano agli interessi finanziari dell’Unione europea.

Le aspettative del giudice procedente di fare giustizia sono quindi state soddisfatte in un primo momento, e quelle dell’imputato di veder cessare a una data certa i tormenti del processo, ove prima non sia sopraggiunta una condanna definitiva, sono andate invece frustrate.

La sentenza Taricco ha testimoniato così, come si comprenderà meglio oltre, il cedimento delle ragioni del garantismo penale di fronte all’impellenza di tutelare interessi di natura puramente economica, celebrando lo svuotamento del senso intimamente garantistico della prescrizione.

Come si diceva, quella combattuta nella vicenda in commento è una battaglia giocata su un campo in cui si scontrano, ideologicamente, due diverse concezioni dell’istituto della prescrizione: l’una, assorbita dall’ordinamento giuridico, la riempie di un contenuto garantisco; l’altra, più vicina agli spigolosi crinali di un populismo penale, la svuota di tale senso, facendone un mero orpello.

Confrontando con le origini della prescrizione questa sua ultima stereotipata ricostruzione come espediente che guadagna dalle lungaggini del processo patite dall’imputato il dividendo dell’impunità si comprende tutta la debolezza di questa versione, accreditata in parte consistente dell’opinione pubblica, complici per vero le controverse manovre politiche che ne hanno guidato le riforme più e meno recenti. Se, infatti, si coglie l’essenza della prescrizione come formidabile presidio affinché l’azione punitiva dello stato si svolga in modo efficiente (ossia in tempi ragionevoli) – vale la presunzione che lo stato non ha interesse a punire un reato dopo che si trascorso un tempo eccessivo – e la situazione di incertezza cui è esposto l’imputato non possa perdurare oltre un limite intollerabile, si comprende il perché quella ricostruzione appare miope, pressapochista e animata da una retorica punitiva che però fa gola a chi crede che l’unico modo di “fare giustizia” sia condannare (e non già, come vorrebbe la Costituzione, condannare, se proprio, all’esito di un giusto processo svolto in una durata ragionevole).

E poi, a ben vedere, dietro le norme sulla prescrizione dei reati si cela un altro, impor- tantissimo interesse generale la cui tutela informa qualsiasi momento di produzione e applicazione del diritto: la certezza giuridica, presupposto perché ogni individuo possa dirsi veramente libero, in quanto la sua condotta si possa svolgere a fronte di una prospettazione puntuale delle conseguenze (anche sanzionatorie) che da essa potranno scaturire, e nell’eventuale accettazione delle stesse.

Ma come si è arrivati ad accreditare, anche solo temporaneamente, una lettura che, seguendo i canoni del garantismo e della certezza del diritto, appare totalmente inaccettabile? La Corte di giustizia ha utilizzato una norma, l’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la cui lettura è accessibile anche ai non giuristi:

1. L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione.

2. Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari.

Questa norma ha ben poco, se non nulla, a che vedere con il diritto penale.

Non c’entra nulla perché si limita a richiedere agli Stati di adottare misure sufficientemente dissuasive che possano fungere da deterrente contro gli illeciti che attentano agli interessi finanziari dell’Unione europea, senza specificare o esigere che queste misure corrispondano a sanzioni penali. L’obiettivo della norma è evidente: da un lato evitare una sorta di zona franca per tutti gli illeciti che anziché colpire le finanze dello stato, attentino a quelle dell’Unione europea; dall’altro assicurarsi che gli Stati membri perseguano in modo analogo entrambe le tipologie di frodi, evitando “discriminazioni” che potrebbero derivare, per esempio, da un trattamento sanzionatorio più o meno sfavorevole a seconda della tipologia di interessi finanziari colpiti.

Ebbene, secondo la sentenza Taricco del settembre 2015, l’Italia violerebbe questa norma perché il suo regime sulla prescrizione è inadeguato e non consente di perseguire e di punire efficacemente i reati che colpiscono le finanze dell’Unione, come per esempio le frodi carosello in materia di IVA: secondo la Corte di giustizia, poiché le indagini per questi reati sono di particolare complessità e richiedono di norma maggiore tempo, è necessario sottrarli ai termini prescrizionali che operano per altri reati. Di conseguenza, i giudici nazionali di fronte ai quali pendano processi per frodi in materia di IVA sarebbero tenuti a disapplicare le norme sulla prescrizione, che costituiscono un ostacolo all’attuazione dell’art. 325 del Trattato.

La sentenza della Corte di giustizia, peraltro, non offriva alcun elemento in grado di limitare il suo impatto o di renderlo almeno in parte compatibile con le garanzie previste dall’ordinamento italiano: subordinava la disapplicazione a un accertamento da parte del giudice della natura sistemica della prescrizione rispetto a casi “gravi” di frodi; non precisava se dovessero applicarsi termini di prescrizione più lunghi previsti per alcuni speciali reati o se non dovessero applicarsi affatto termini di prescrizione; non circoscriveva temporalmente l’efficacia della sua decisione, non chiarendo così se la disapplicazione dovesse riguardare solo i processi futuri o anche quelli pendenti. Tutto sarebbe dipeso, così, da una valutazione discrezionale del giudice: un’operazione in netta controtendenza con l’esigenza di salvaguardare la certezza del diritto, con significative ripercussioni anche sul principio di separazione dei poteri.

La Corte di giustizia ha così consegnato una sentenza pericolosa, alla quale ha posto fortunatamente rimedio su impulso della Corte costituzionale italiana, preoccupata che l’adesione alla sentenza europea finisse per fare tabula rasa delle garanzie previste dalla Carta.

Ma perché la sentenza Taricco ha messo in crisi i valori del garantismo e della certezza del diritto?

Per diversi motivi.

In primo luogo, perché è intervenuta su un terreno manifestamente estraneo alla sua competenza (almeno prima che venisse approvata, soltanto nel luglio 2017, la direttiva cosiddetta “PIF” sulla protezione degli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale).

L’Unione europea, infatti, può regolare soltanto le materie che gli Stati membri le hanno espressamente attribuito, tra cui non rientrano le norme sulla prescrizione. E la Corte di giustizia non può che applicare il diritto dell’Unione nelle materie in cui il suo intervento è ammesso. Dunque, una norma come l’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che fa obbligo agli Stati di contrastare le frodi contro gli interessi finanziari dell’Unione, non avrebbe motivo di avere alcuna ricaduta in questo campo. Assumendo la prospettiva della certezza del diritto, del resto, non c’è alcuna chance per un individuo di prevedere che da quel vincolo imposto all’Italia, come a tutti gli altri stati dell’UE (ossia contrastare efficacemente le frodi), possa evincersi la regola che vuole la disapplicazione dei termini di prescrizione quando questi costituiscano un ostacolo per il perseguimento delle frodi.

In secondo luogo, la sentenza, se per un verso ha legittimato i giudici italiani a disfarsi dei termini di prescrizione, per altro verso ha subordinato la legittimità di tale operazione a una condizione: e cioè che il giudice riscontrasse che i termini di prescrizione impedivano di perseguire frodi “gravi” in un numero “significativo” di casi. In altri termini, ciascun giudice doveva valutare se i termini di prescrizione costituissero una reale minaccia per la protezione delle finanze dell’Unione per poterli disapplicare; diversamente, il reato restava soggetto a prescrizione nei termini originari. La sentenza introduceva così due elementi di carattere valutativo, che si scontrano in modo evidente, per loro natura, con l’esigenza di applicare in modo uniforme il diritto penale.

Una situazione evidentemente intollerabile, che non a caso si scontrava con due pilastri di civiltà giuridica che hanno una tenuta granitica nell’ordinamento italiano.

Il primo: in Italia, le norme sulla prescrizione (così come ogni modifica dei relativi termini) non possono essere applicate retroattivamente se sfavorevoli all’imputato, al pari delle norme che definiscono i reati e le relative pene. Questo principio riflette, del resto, l’essenza stessa della libertà individuale come libertà di autodeterminazione, nello svolgimento della propria condotta, fondata su una chiara conoscenza e accettazione delle conseguenze che l’ordinamento vi ricollega. Pretendere un’applicazione retroattiva di norme che mutano il quadro dei reati e delle relative pene disattende l’affidamento sullo scenario presente alla mente di chi abbia intrapreso una precisa condotta al momento in cui la stessa veniva consumata.

Il secondo: il principio di determinatezza delle norme penali, corollario della certezza del di- ritto, per cui l’applicazione o la disapplicazione di una norma che incrimina una determinata condotta non può dipendere da un apprezzamento discrezionale del giudice che di volta in volta sia investito del caso. Parimenti, nemmeno la scelta di applicare o no i termini di prescrizione potrebbe provenire da un apprezzamento discrezionale del giudice, dovendo al contrario essere affrancata a un chiaro riferimento normativo.

Ci sarebbe, poi, ad abundantiam, un ulteriore dato: non spetta ai giudici, in ossequio al principio della separazione dei poteri, modificare i termini di prescrizione ma semmai ai legislatori.

Insomma, ve n’era abbastanza affinché perfino la mite e posata Corte costituzionale italiana, pur non tra le più Euro-friendly quando si parla di principi e diritti fondamentali, si ribellasse, chiedendo alla Corte di giustizia, a febbraio 2017 (e in particolare con l’ordinanza n. 24/2017), un passo indietro e minacciando di non dare esecuzione a una sentenza che avrebbe decretato conseguenze devastanti sul piano del garantismo penale e della certezza giuridica. La Corte costituzionale, con un provvedimento dal tono tutt’altro che irenico, ha fatto riferimento alla teoria dei controlimiti, che le consente, quale custode ultimo dell’ordine costituzionale, di impedire l’applicazione del diritto dell’Unione, così come delle sentenze della Corte di giustizia, quando questi possano collidere con i principi supremi dell’ordinamento (che, arginando la prevalenza del diritto UE funzionano, per l’appunto, come “controlimiti”). 

La necessità per la Corte costituzionale di far ricorso a questo argomento di grande peso è emblematica dell’importanza del conflitto che rischiava di deflagrare tra l’Italia e l’Unione europea. Un conflitto che con la seconda sentenza è stato disinnescato da ultimo dalla stessa Corte di giustizia, che ha preso atto dell’impossibilità di conciliare la propria “versione” della prescrizione con i capisaldi dell’ordinamento italiano in materia penale, riconoscendo che l’esigenza di tutelare le finanze dell’Unione non può portare a sacrificare il principio di legalità e la certezza del diritto.

Va detto che la Corte costituzionale, con qualche timido riferimento, non ha negato l’esistenza di possibili criticità nel regime in vigore in Italia, criticità che se del resto si pone mente al travagliato iter che ha generato le modifiche ora tanto controverse (la famigerata legge ex Cirielli del 2005) sembrano dotate di un qualche fondamento. Così, qualcuno ha osservato che la vicenda avrebbe potuto prestare il fianco a un’agognata modifica del regime della prescrizione: ma il fine, si sa, non può mai giustificare i mezzi, specialmente quando a essere interessati, è bene non dimenticarlo, sono i diritti degli individui e la libertà personale. Altri, semmai, sono i canali di intervento da seguire in questa direzione: se una riflessione è opportuna, bene è anzitutto che essa trovi spazio nelle sedi competenti, ossia nel Parlamento; e che gli organi a ciò preposti svestano i panni di quella retorica punitiva che spesso percorre i dibattiti che intercettano il tema della prescrizione. Non è certo uno scambio di colpi bassi tra corti mascherato da “dialogo” a poter assicurare all’Italia il regime sulla prescrizione in campo penale che merita. Né, a voler essere sinceri e sospettosi, a doverla sollecitare.

Insomma, un buon promemoria per chi pensa che un’acritica adesione al diritto dell’Unione europea sia sempre e comunque dovuta; e un monito a chi magnifica sempre e comunque l’Europa, tanto indispensabile in un’epoca di congiunture difficili quanto costruzione che non può portare ad abdicare a un ineliminabile pluralismo costituzionale ma soprattutto a un patrimonio garantistico in cui si riflette il cuore della nostra cultura giuridica. L’abbiamo scampata, ma che paura.