Ragionevolezza e proporzionalità: storia italiana di un incontro tra i due baluardi del costituzionalismo moderno
Indice:
1. Il lungo cammino del principio di ragionevolezza
2. Il ritratto fugace della ragionevolezza
3. Uno sguardo al continente: la proporzionalità germanica e comunitaria
3.1 L’eredità della proporzionalità nell’azione amministrativa
4. L’atteso incontro tra il principio di proporzionalità e la Corte costituzionale
5. Una riflessione conclusiva
1. Il lungo cammino del principio di ragionevolezza
Il principio di ragionevolezza ha assunto nell’immaginario collettivo l’epiteto di “costola del principio di eguaglianza”[1], sugellato nell’articolo 3 della Costituzione, il quale ne ha da sempre rappresentato il livello minimale.
La genesi di tale criterio ha dunque trovato le sue origini nella decisione di controversie aventi come obiettivo quello di stabilire se una disciplina normativa differenziata potesse violare il principio di eguaglianza, o se invece fosse coerente con l’ordinamento e quindi potesse essere giustificata.
Ma lo sguardo scettico e misoneista del legislatore – considerato il momento storico immediatamente precedente – verso un organo, quale la Corte costituzionale, istituito per esercitare un controllo sull’attività legislativa del Parlamento, ha finito per ricostruire l’eguaglianza alla stregua di un imperativo volto ad inibire ogni forma di disparità formale derivante dalla legge, impedendone lo slancio poliedrico e riservandogli un ruolo del tutto monadico ed epidermico.
Sguardo scettico di cui si è fatto foriero lo stesso giudice costituzionale quando affermava nella sentenza n. 28 del 1957 che «ogni indagine sulla corrispondenza della diversità di regolamento alla diversità delle situazioni regolate implicherebbe valutazioni di natura politica, o quanto meno un sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento, che alla Corte costituzionale non spetta esercitare».
La giurisprudenza più risalente si era così ritagliata uno spazio di intervento del tutto residuale, garantendo un ampio margine di discrezionalità al legislatore, il cui unico limite risiedeva nell’impossibilità di dettare norme diverse per situazioni che esso stesso riteneva analoghe, dovendo tale principio assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali fossero le condizioni soggettive e oggettive a cui le norme giuridiche si riferivano.
I margini entro cui doveva muoversi il principio di eguaglianza erano, tuttavia, divenuti troppo angusti, sicché lo stesso giudice delle leggi ha dovuto attenuare la sua posizione, adottando un’impostazione ben più elastica.
Nella sentenza n. 53 del 1958 il giudice infatti ha ammonito il legislatore stabilendo che, qualora si fossero pareggiate situazioni oggettivamente diverse, ciò avrebbe determinato una violazione del principio di eguaglianza, approvando a contrario il diverso regolamento legislativo di situazioni eterogenee. Grimaldello dell’evoluzione del principio di ragionevolezza è stata dunque la valorizzazione dell’eguaglianza sostanziale (sancita al secondo comma dell’articolo 3 Costituzione) la quale, sottolineando la necessità di trattamenti differenziati in ossequio ad una parità di fatto, ha introdotto una valutazione di ragionevolezza del trattamento discriminatorio, dissolvendo così la tutela in una più ampia garanzia di fronte all’irrazionalità dell’ordinamento.
A testimonianza del progressivo sradicamento della ragionevolezza dall’archetipo dell’uguaglianza, la sentenza n. 7 del 1962 ove, secondo il giudice costituzionale, «mentre è da ritenere implicita nel principio predetto l’esigenza di disporre trattamenti differenziati per situazioni obiettivamente diverse, rimane, tuttavia, aperto al giudice della costituzionalità l’accertamento delle circostanze dalle quali si desuma l’inesistenza di ogni presupposto idoneo a giustificare la diversità di trattamento».
Il giudizio di uguaglianza-ragionevolezza, secondo la teoria trifasica della sua genesi[2], in questa fase si attestava però ancora come un giudizio a struttura trilaterale, fondato cioè su tre passaggi argomentativi:
1) l’accertamento dell’esistenza di un’irragionevole disparità di trattamento, attraverso una valutazione di omogeneità delle situazioni poste a confronto;
2) la ricostruzione della ratio della norma di raffronto, detta anche tertium comparationis, la cui individuazione veniva demandata al giudice a quo, ma poteva essere individuata in via interpretativa anche dalla stessa Corte;
3) il confronto con la norma oggetto di giudizio.
L’aumento delle incombenze gravanti sulla Corte ha determinato la necessità che si pervenisse ad un frasario motivazionale ben più complesso, da cui ne è coerentemente derivata la necessità di distinguere tra un’accezione ristretta del principio di eguaglianza formale, suscettibile di violazione da parte del legislatore soltanto in caso di discipline emanate ad personam o di discriminazioni puntualmente riconducibili all’articolo 3 Costituzione, e un’accezione più ampia che consentisse alla Corte di valutare la congruità della legge sottoposta al vaglio rispetto alla situazione di fatto, accertando la sussistenza effettiva di ragionevoli motivi per differenziare od omologare la disciplina legislativa di due fattispecie.
Da qui la tradizionale distinzione tra controllo di uguaglianza-ragionevolezza, implicante un mero confronto tra discriminazioni giuridicamente rilevanti sulla base dello schema del tertium comparationis e principio di ragionevolezza in senso stretto, volto invece a rilevare le oggettive irrazionalità delle leggi, indipendentemente da privilegi soggettivi e quindi a prescindere da schemi di giudizio unilaterali, racchiudendo in sé invece giudizi di coerenza e congruità delle scelte legislative rispetto alle fattispecie disciplinata.
La connotazione del tutto autonoma assunta progressivamente dal giudizio di ragionevolezza lo ha promosso a metodo ermeneutico funzionale all’interpretazione e all’integrazione di altri parametri costituzionali. Ciò a fortiori in ragione del fatto che tale canone non rappresentava più sic et simpliciter un criterio di giudizio di situazioni patologiche o di giustificabilità delle discriminazioni. Al contrario, la sua portata architettonica ha fatto sì che esso plasmasse al suo interno l’intero sistema dei pubblici poteri e assumesse il ruolo di ordinatore delle funzioni pubbliche e, allo stesso tempo, di elemento di legittimazione del potere e delle forme attraverso le quali esso si esprime[3].
Da qui il principio di ragionevolezza si è innervato negli altri giudizi assegnati alla Corte costituzionale, assumendo le vesti di una sorta di vademecum nel giudizio di legittimità costituzionale, operante non solo in tutte le operazioni di bilanciamento tra principi antagonisti, ma anche in molte decisioni concernenti i conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni o tra poteri dello Stato e, da ultimo, in molti giudizi concernenti l’ammissibilità del referendum.
2. Il ritratto fugace della ragionevolezza
Se è vero il giudizio di ragionevolezza è figlio di un assiduo e meticoloso lavoro di collaborazione tra giurisprudenza e dottrina, non possono essere sottaciuti i limiti endogeni allo stesso concetto di “ragionevole”. E così come la nottola della Minerva hegeliana inizia il suo volo soltanto al crepuscolo, anche il giurista, solo all’esito di un lungo e faticoso iter dottrinale e giurisprudenziale, volto alla ricerca dell’elisir del perfetto bilanciamento, può dare una valutazione sul ruolo svolto dal giudizio di ragionevolezza nel cercare sgrovigliare i nodi in cui si intrecciano i diritti fondamentali nella realtà empirica.
Pur non potendo negare, su di un piano assiologico, che sublime è l’immagine della ragionevolezza, di essa tuttavia non rimane che un nome, la cui empirica inafferrabilità lo rende ancora oggi una categoria sfuggente, tanto che lo stesso Livio Paladin affermava che un principio di ragionevolezza in realtà non esiste, poiché si tratta di una formula verbale alla quale non corrisponde una nozione ben determinata[4]. Il flebile e sfuggente volto della ragionevolezza ha costituito una spada di Damocle per la dottrina, che sin dalle sue prime apparizioni ha cercato di brinarne lo stato aeriforme. Notevole ne è stato lo sforzo per cercare di trovare un linguaggio comune, di cui ancora oggi vi sono poche tracce.
Si pensi alla ricostruzione di Zagrebelsky, il quale ha operato una distinzione sulla base dell’intensità del vizio di arbitrarietà della legge, enucleando le tre figure dell’irrazionalità, dell’irragionevolezza e dell’ingiustizia[5]. O, guardando ai contributi meno risalenti, ad Andrea Morrone e Gino Scaccia.
Il primo ha individuato tre i differenti moduli operativi della ragionevolezza nel giudizio di eguaglianza-ragionevolezza, di razionalità e di bilanciamento degli interessi, chiarendo tuttavia che il sindacato di ragionevolezza «non si indentifica né, tantomeno, si risolve in nessuno dei tre ambiti di giudizio [...] perché tutti li trascende, unificandoli in ragione di determinate caratteristiche morfologiche comuni»[6].
Il secondo nella sua ricostruzione ha accolto invece l’impostazione, prevalente in dottrina, che divide l’intera giurisprudenza costituzionale, avente come parametro l’articolo 3 Costituzione, in due macro aree: lo schema di giudizio a struttura trilaterale e la ragionevolezza in senso stretto, all’interno della quale, si distinguono poi diversi moduli decisionali, della razionalità sistematica, della ragionevolezza strumentale e della giustizia-equità, tutti poi trasversalmente attraversati dalla tecnica del bilanciamento di interessi[7].
In tutte le sue varie declinazioni, il sindacato di ragionevolezza ha comportato un notevole grado di libertà e di creatività giurisprudenziale, che si è accompagnato altresì al rischio di un indebito sconfinamento in valutazioni di merito e di opportunità. Se è infatti innegabile che la ragionevolezza sia entrata, come metodo ermeneutico e criterio di giudizio, nella quotidiana esperienza della giurisprudenza costituzionale, non possono essere sottaciuti i pericoli paventati delle oscillazioni ed oscurità che possono appuntarsi nella mancata definizione rigorosa del concetto di ragionevolezza, Dalla fuggevole formalizzazione dell’argomentazione giuridica ne risulta un controllo di costituzionalità meno trasparente e con un più elevato rischio di ricadute in giudizi di valore.
Il concetto di ragione, e quindi di ragionevolezza, è ancorato ad un soggettivismo empirico, per cui «l’uomo è la misura di tutte le cose»; ad una fase astratta e apriori della misura legislativa in quanto giudica preventivamente la corrispondenza del fine ai valori costituzionali ma non tiene conto, data la sua eccessiva astrattezza, degli effettivi risvolti in concreto della misura. Che cos’è la ragionevolezza, scrive in tono sardonico Antonio Baldassarre «se non […] ciò che quindici uomini (ma anche meno) riuniti a Palazzo della Consulta, ritengono secondo il loro arbitrio che sia ragionevole?»[8]. Di talché essa è solo in qualche misura controllabile, ma è destinata a rimanere inappagata ogni volontà di caricarla di contenuti di certezza, stabilendo in via preventiva protocolli di giudizio o, addirittura, gerarchie assiologiche.
I risvolti empirici più significativi delle illazioni poc’anzi svolte si osservano volgendo lo sguardo allo spinoso tema delle leggi-provvedimento, ovvero di quelle leggi che, cingendosi di un’aura personalistica, tradiscono il loro più importante comandamento, l’astrattezza e la generalità[9]. Si tratta invero di provvedimenti di natura sostanzialmente amministrativa, che il legislatore abilmente riveste con la forma legislativa.
Se notevoli sono stati gli sforzi della dottrina di argomentare l’esistenza di un divieto di adottare le leggi provvedimento – non senza difficoltà dati i notevoli punti di frizione circa la ricostruzione unitaria del concetto di legge provvedimento –, la Corte costituzionale si è da sempre fatta patrocinante di una loro generale ammissibilità, in quanto compatibili con i principi e le norme costituzionali. Ciò, tuttavia, non escludendo la necessità di un maggiore sforzo da parte del giudice nell’indagine di legittimità, all’uopo di garantire una valutazione più coerente con l’ordinamento. Sforzo che ha condotto, negli anni ’90, a sancirne la totale ammissibilità, purché si garantisse un profondo rigorismo nell’impiego del giudizio di ragionevolezza.
Liberando le briglia al deferential scrutiny, il giudice delle leggi si è inoltrato verso uno scrutinio rigoroso di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio; scrutinio che doveva essere tanto più rigoroso quanto più marcata fosse stata la natura provvedimentale dell’atto legislativo posto a controllo[10].
Se tuttavia la lente attraverso cui la Corte tutela e bilancia i diritti fondamentali è quella dello strict scrutiny, chiarire cosa esso implichi in concreto non è stato affatto facile. Le forme di giudizio a servizio della Corte si sintetizzano infatti in una moltitudine di moduli e tecniche; un aspetto questo che lascia inappagata ogni richiesta di definire in via preventiva i protocolli di giudizio. Nella realtà lo scrutinio “forte” si è rivelato un controllo sulla manifesta arbitrarietà e la palese irragionevolezza delle scelte del legislatore, ma non si è spinto a considerare in concreto e analiticamente gli elementi di fatto posti alla base della scelta. Proprio per questo il percorso verso uno scrutinio più rigoroso intrapreso dalla Corte si è rivelato tutt’altro che costante[11]. Varie sono state le pronunce in cui il giudice delle leggi ha annunciato l’applicazione dello strict scrutiny, senza tuttavia applicarlo in concreto e altrettante quelle in cui quest’ultimo, celandosi dietro un tradizionale atteggiamento di self-restraint, ha affermato che le valutazioni a lei consentite non potessero eccedere i limiti del semplice sindacato di ragionevolezza[12].
Il ritratto fugace del principio di ragionevolezza rischia così di diventare un «arma suicida»[13] per il giudice costituzionale, esponendosi al cimento di sconfinare in giudizi di merito, delegittimando così il potere stesso della Corte, troppo spesso accusata di travalicare i confini del merito politico, e quindi delle scelte di opportunità politica del legislatore.
3. Uno sguardo al continente: la proporzionalità germanica e comunitari
La natura inafferrabile del principio di ragionevolezza, il profondo iato che la esime foriera di protocolli definitori precisi, genera inevitabilmente equilibri costituzionali effimeri; ragion per cui si rende necessario rivolgere lo sguardo oltre i confini territoriali, andando alla ricerca di uno strumento che possa sommergere i “crucci estrosi” che il principio di ragionevolezza trascina con sé. In particolare l’espansione universalistica un cui si muove il diritto, che è un fatto umano del tutto dinamico e non statico, si confronta inevitabilmente con il regime sovranazionale, in particolare quello comunitario e della CEDU, da cui assimila ogni elemento che possa promuovere un’armoniosa convivenza del microcosmo nel macrocosmo. Ed ecco che fra questi strumenti di armonia ne emerge uno in particolare, a cui è dato il nome di principio di proporzionalità, noto soprattutto al giudice comunitario quale bilancia su cui librare gli interessi che l’esperienza pone di volta in volta in discordia fra loro.
Il principio di proporzionalità ha, tuttavia, origini ben più risalenti dell’esperienza sovranazionale. In particolare esso pare aver trovato il suo più fertile terreno di emersione nell’ambito della dialettica tra autorità dello Stato e libertà dell’individuo, erigendosi a limite alle ingerenze nella sfera giuridica del privato a quanto indispensabile per il raggiungimento di scopi collettivi e pubblicistici, garantendo che i diritti e le libertà di questi ultimi venissero incisi nella minor misura possibile, ancorché sufficiente a conseguire l’obiettivo perseguito dall’autorità. È a partire dall’esperienza del Polizeirecht che si inizia così a delineare quel principio sussumibile nella nota formula di Fritz Fleiner per cui «la polizia non deve sparare ai passeri coi cannoni».
Tuttavia, il giudizio di proporzionalità, in un clima ideologico ancora dominato dall’idea dello Stato-persona, intesa come “personalità assoluta”, qual era quello della Germania di fine XIX secolo, si risolveva nel porre in rapporto una gamma infinita di strumenti ispettivi, investigativi, repressivi, a disposizione delle forze dell’ordine, con l’evidente obiettivo di garantire la sicurezza collettiva. Nella sua originaria formulazione quindi, il principio di proporzionalità si presentava come mero autolimite dell’azione statale, non esplicando quelle ben più ampie potenzialità che, in seguito, avrebbe espresso nel diritto amministrativo e nel diritto costituzionale germanico. Esso era ben lungi dal rappresentare l’indirizzo finalistico e il limite funzionalistico del potere pubblico che, in seguito, avrebbe acquisito. La dottrina giuridica del tempo infatti, ricostruiva in termini assolutistici l’autorità statale, sicché l’interesse pubblico era sovraordinato ad ogni altro interesse e le libertà individuali erano considerate tali se e in quanto concesse dallo Stato[14].
Il legame speculativo tra bilanciamento e controllo di proporzionalità si è instaurato solo con l’avvento del Verfassungsstaat (ovvero dello Stato costituzionale di diritto, che si sostituisce allo Stato di diritto), in cui i diritti e i principi fondamentali son stati posizionati su un piano assiologico ontologicamente anteriore rispetto all’organizzazione dei poteri, erigendosi a base di legittimazione dell’intero sistema costituzionale. Ed è proprio su un sfondo basato su una diversa concettualizzazione dei Grundrechte (i c.d. diritti fondamentali) che, in altri termini, si sono realizzate le condizioni necessarie per verificare l’adeguatezza del mezzo, ancorché idoneo e necessario al fine perseguito, tramite il bilanciamento tra interessi (Abwägung) pregiudicati del singolo e i vantaggi conseguiti dalla collettività[15]. Non è certo un caso dunque che la proporzionalità strictu sensu (Verhältnismäßigkeit im engeren Sinne), che può condurre a valutazioni del fine oltre che della necessità e della idoneità dei mezzi impiegati, sia sorta soltanto dopo il 1945, a seguito dell’esperienza totalitaria dello Stato nazionalsocialista.
La lunga riflessione della Corte costituzionale federale tedesca sulla natura del principio di proporzionalità si è diretta verso l’obiettivo di razionalizzare i propri protocolli di verifica, e le sue fasi applicative sono state accuratamente ricostruite, così da dar vita alla strutturazione di un vero e proprio test di giudizio. Il principio di proporzionalità si scompone infatti, secondo un accordo unanime della dottrina, in un sistema “a tre gradini”:
- l’idoneità, volta ad accertare la sussistenza di un ragionevole nesso di strumentalità tra mezzi e fini dell’intervento[16];
- la necessità, che si esplica nella “regola del mezzo più mite” (c.d. mildestes Mittel), secondo il quale occorre dare preferenza, tra i vari strumenti di intervento, a quello che determina il sacrificio minore;
- infine, la proporzionalità in senso stretto, ovvero la verifica che la limitazione non sia sproporzionata al fine di interesse pubblico che la sorregge.
Mentre le prime due fasi sono associate alla formula della “proporzionalità latu sensu”, la terza è usualmente definita come “proporzionalità strictu sensu”; ciò in ragione del fatto che le prime due prescindono da operazioni di bilanciamento e si focalizzano sulla sussistenza di una relazione (positiva o negativa che sia) tra mezzi impiegati e fini perseguiti; la seconda invece, implica una vera e propria misurazione comparata e coordinata tra interessi che sono assistiti da una analoga protezione giuridica.
Sin dagli albori dell’esperienza comunitaria, le teorizzazioni tedesche esaminate poc’anzi, hanno fornito un importante punto di riferimento per l’operato della Corte di Lussemburgo la quale, dal canto suo, ha dato vita ad una casistica così estesa da potersi affermare che il principio di proporzionalità oggi permea l’intero diritto dell’Unione europea. Benché meriterebbe una maggior dignità la rassegna giurisprudenziale che ha segnato l’evoluzione di tale scrutinio, allo scrivente pare più opportuno soffermarsi su alcuni aspetti fondamentali utili alla nostra analisi, elencando solo alcune delle fondamentali étapes evolutive della proporzionalità comunitaria.
I primi, seppur timidi, richiami a tale principio risalgono alle sentenze Federation Charbonniere de Belgique del 1956 e Mannesmann del 1962, in cui si evidenziava l’adesione della giurisprudenza comunitaria ad una forma di controllo di proporzionalità legata alla garanzia dell’equilibrio di mercato, così da garantire il raggiungimento degli obiettivi perseguiti con il minimo sacrificio possibile per le imprese. Il principio di proporzionalità è stato poi compiutamente disciplinato per la prima volta con la sentenza Internationale Handelsgesellschaft del 1970 in cui il giudice ha fornito una chiara e piena legittimazione della proporzionalità nell’ambito dei Trattati, riservando a quest’ultima il ruolo di categoria dogmatica, di principio generale del diritto comunitario e aprendo così la breccia alla successiva evoluzione giurisprudenziale, che vedrà il suo turning point solo negli anni ‘80 con la nota pronuncia Cassis de Dijon[17].
Rivolgendo ora le attenzioni al fondamento normativo della proporzionalità comunitaria, la conclusione avanzata assurgeva a fonte del diritto l’articolo 40 CEE, il quale affermava che le organizzazioni comuni di mercato dovevano attenersi a misure strettamente necessarie per il perseguimento degli obiettivi indicati dall’articolo 39 del Trattato. Questa disposizione tuttavia è risultata inadatta a fornire la base normativa di tale principio, anzitutto poiché, attenendo ad una specifica politica comunitaria, rischiava di frustrare l’applicabilità del principio; ma soprattutto perché così operando la complessa nozione trifasica della proporzionalità sarebbe stata ridotta al solo requisito della necessità dell’intervento, trascurando invece l’idoneità e la proporzionalità in senso stretto. Da qui il bisogno di disancorare la proporzionalità da un circostanziato settore di intervento, favorendo la tesi che quest’ultima costituisca una manifestazione del principio dello Stato di diritto. Il canone della proporzionalità sarebbe quindi un derivato implicito dei Trattati, parte integrante dei principi generali del diritto dell’Unione europea, e garantirebbe così una maggior flessibilità e capacità di permeare interamente l’ordinamento comunitario[18].
L’ampia querelle attorno al fondamento del principio di proporzionalità si è sopita a partire dal 1992, allorché quest’ultimo è stato codificato dal Trattato CEE, sicché oggi la disputa teoria sulla sua origine “conserva un valore meramente storiografico”. Successivamente al Trattato di Lisbona, l’assetto del principio cardine dell’ordinamento europeo è rimasto sostanzialmente invariato, continuando a limitare l’azione dell’Unione a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati.
Da principio di matrice giurisprudenziale, esso si è evoluto fino ad assumere un ruolo di asse portante nell’ambito del sistema comunitario, modulando, assieme alla sussidiarietà, l’esercizio delle competenze dell’Unione europea. Bisogna tener presente, tuttavia, che la nozione di proporzionalità, così come cristallizzata nei Trattati, non coincide con quella di elaborazione giurisprudenziale, essendo l’ambito di operatività della seconda ben più ampio della prima. La nozione giurisprudenziale della proporzionalità infatti, a differenza di quella scritta, la quale costituisce solo un parametro di legittimità per le Istituzioni comunitarie, «si impone sia alle Istituzioni comunitarie nell’adozione dei loro atti che agli Stati membri nell’esecuzione di questi all’interno dei rispettivi ordinamenti»[19].
Di più, la proporzionalità di matrice giurisprudenziale, nonostante fosse, a detta dei più, la risultante della trifasica e sequenziale elaborazione tedesca della proporzionalità, era stata oggetto di varie perplessità da parte di alcuni autori, i quali invece ritenevano che l’autonomo inserimento di tale principio nell’ambito del diritto comunitario avrebbe comportato una rimodulazione strutturale rispetto alla versione germanica[20]. Secondo queste ricostruzioni vi era quindi una diversità ontologica tra la nozione di proporzionalità comunitaria e il suo archetipo tedesco; diversità che si esprimeva nell’esistenza o meno del gradino più “maturo” della proporzionalità. Sovente infatti si sono registrate pronunce che ricostruivano tale principio secondo uno schema binario, eretto esclusivamente dalla verifica dell’idoneità e della necessità[21]. Bisogna sottolineare, tuttavia, che il giudice europeo non ha mai voluto sottoporre l’atto impugnato al rigido, tassativo e sequenziale triplice esame sopra analizzato, quanto piuttosto rendere la nozione di proporzionalità più docile e poliedrica possibile, al fine di adeguarla alla moltitudine di fattispecie che si possono presentare, nell’ottica di un case-by-case approach.
All’indomani della “costituzionalizzazione” del principio di proporzionalità, i suoi effetti si sono riversati anche nell’ambito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, con la finalità di garantire un corretto bilanciamento tra la tutela diritti fondamentali e il perseguimento di interessi generali. Quest’ultima, in virtù dell’articolo 6 TUE, possiede lo stesso valore costituzionale dei Trattati ed appartiene quindi al diritto primario dell‘Unione Europea.
Il controllo di proporzionalità assume senz’altro un ruolo chiave nella tutela dei diritti fondamentali che costituiscono l’entourage unificato delle tradizioni giuridiche degli Stati membri della CEDU.
Senza voler ripercorre il lungo iter che ha portato alla sua formazione, è importante sottolineare il ruolo sussidiario svolto dalla Convenzione nella tutela dei diritti umani. Il ricorso alla Corte di Strasburgo è ammesso infatti solo qualora, esauriti i ricorsi interni, il risultato perseguito a livello nazionale risulti inadeguato a proteggere gli standard minimi di protezione dei diritti fondamentali statuiti dalla CEDU, di guisa che agli Stati membri venga sempre garantito un margine di apprezzamento, ovvero uno spazio di discrezionalità nell’applicazione della Convezione per bilanciare l’adempimento degli obblighi pattizi con la tutela di altre esigenze interne. È proprio nel contesto del margine di apprezzamento garantito agli Stati membri che fa il suo ingresso il test di proporzionalità, il quale si pone quindi come rivale del primo, nella misura in cui quest’ultimo verifica la legittimità delle restrizioni operate dallo Stato aderente. Nell’ambito della Convenzione europea infatti, in ragione della relatività di alcuni diritti, viene rimesso alle autorità pubbliche nazionali il compito di verificare se sia necessario o meno il sacrificio delle libertà protette dalla Convenzione, al fine di garantire il pubblico interesse.
Il controllo di proporzionalità assume un diverso rilievo a seconda che la misura da adottare sia generale ovvero particolare, da cui ne deriva anche il suo carattere ben più ambiguo e dissolvente, rispetto al modello comunitario e tedesco. Nel primo caso la Corte di Strasburgo si limita a valutare se, il legislatore abbia correttamente agito entro il perimetro del margine di apprezzamento ad esso riservato, concedendogli quindi una più ampia forma di discrezionalità[22]. Qualora si tratti invece di misure particolari ed individuali lo scrutinio si fa molto più severo, dovendo il legislatore esibire “very weighty reasons”[23]. In particolare si verifica molto più rigore da parte della Corte di Strasburgo quando si tocchi «un aspetto particolarmente importante dell’esistenza o dell’identità individuale»[24], riguardando minoranze religiose o etniche, oppure soggetti particolarmente vulnerabili.
3.1. L’eredità della proporzionalità nell’azione amministrativa
Dell’esperienza pilota del principio di proporzionalità nel mondo tedesco e comunitario si sono scorti i primi germogli, nel contesto italiano, nell’ambito del diritto amministrativo e, in particolare, nel contesto della nozione di discrezionalità amministrativa. Esso raccomandava all’autorità amministrativa, nell’adozione del provvedimento finale nei confronti del privato, un’analisi penetrante, fondata sulla già citata “teoria dei tre gradini” di matrice germanica. Questi requisiti, dell’adeguatezza, necessità e proporzionalità, rappresentavano una minuziosa unità di misura in sede di ponderazione quantitativa degli interessi, che portava a compimento la parabola dell’azione amministrativa proporzionata.
I risvolti positivi dovuti all’impiego del “modulo proporzionale” hanno conseguentemente suscitato l’interesse del giudice amministrativo a servirsi del test di proporzionalità nella valutazione della legittimità dell’azione amministrativa, assegnandogli così un ruolo tout court di canone generale, operante nella fase pre e post azione amministrativa. Non potendo in tal sede analizzare l’ampio iter giurisprudenziale, sarà opportuno richiamare solo alcuni punti cardinali.
Il principio di proporzionalità inteso come criterio di valutazione della legittimità dell’azione amministrativa inizia a porre le sue radici nel diritto amministrativo, seppur applicato in maniera nascosta, a partire dalla stessa attività giurisprudenziale del Consiglio di Stato, che lo ha inserito all’interno delle figure sintomatiche dello sviamento di potere e, successivamente, dell’ingiustizia manifesta, aprendo così le porte allo sconfinato orizzonte della razionalità dell’uso del potere discrezionale della pubblica amministrazione[25].
Tuttavia, per lungo tempo il principio di proporzionalità è stato implicitamente rammentato dalla giurisprudenza amministrativa, senza che mai quest’ultima ne facesse un richiamo esplicito. L’indiretto riferimento passava per il tramite del controllo giurisdizionale sull’ingiustizia manifesta, la quale presentava, per un certo verso, delle assonanze con il principio di proporzionalità. Le prime aperture verso un sistema fondato su un rapporto di proporzione si son rinvenute a partire dall’entrata in vigore della Costituzione, il cui impatto ha conseguentemente portato alla formazione di un inquadramento dell’eccesso di potere come sindacato sulla violazione di principi generali dell’azione amministrativa, passaggio nodale per la successiva affermazione di un generale principio di proporzionalità.
Per averne un primo richiamo diretto bisogna attendere la fine del XX secolo. Nel febbraio del 1992 il giudice amministrativo ha imposto per la prima volta all’amministrazione pubblica «di adottare provvedimenti con forme e modalità tali da arrecare il minor sacrificio possibile» richiamandosi così, alla necessarietà di enucleare il mezzo più mite ad equivalenza di risultati[26].
Sigillo finale all’apoteosi del principio di proporzionalità nel diritto amministrazione lo ha posto la legge n. 15 del 2005, modificativa della legge sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990, grazie alla quale esso non ha indugiato più a mero flatus voci, ma si è conformato a parte integrante nell’ordinamento italiano, attraverso l’articolo 1 della legge de quo, con cui sono stati recepiti nel nostro ordinamento tutti i principi di matrice comunitaria, tra cui quello della proporzionalità. Dunque, se sin dalle prime pronunce, la giurisprudenza aveva impiegato il controllo di proporzionalità dell’azione amministrativa come monito all’eccesso di potere, l’espressa menzione codicistica dei principi generali dell’azione amministrativa ne ha consacrato la sua definitiva emersione, garantendogli l’epiteto principio generale dell’ordinamento[27] che oggi permea di sé potenzialmente tutto l’agire amministrativo.
Le brevi considerazioni fin qui svolte ci inducono ad un’ulteriore riflessione sulla natura, autonoma o strumentale, della proporzionalità amministrativa rispetto al principio di ragionevolezza. Prima di procedere a dimostrare l’autonomia di tale principio, è opportuno operare una premessa sulla nozione del principio di ragionevolezza nel campo del diritto amministrativo e sulla delimitazione dei suoi confini.
Lo scrutinio di ragionevolezza rappresenta un momento essenziale ed ineliminabile dell’attività giurisdizionale, un canone ermeneutico generale di tutti i giudizi di legittimità riguardanti l’azione amministrativa. Eppure per lungo tempo la dottrina amministrativistica italiana si è occupata di ragionevolezza solo in termini negativi, ovvero in termini di irragionevolezza e illogicità dell’agire amministrativo quale causa dello sviamento di potere.
Nelle prime pronunce del Consiglio di Stato la ragionevolezza non era intesa come vera a propria tecnica di giudizio, quanto piuttosto come parte di un più generico giudizio di legittimità del provvedimento, comprendente anche sommarie valutazioni in termini di ragionevolezza. Della nozione in “positivo” la dottrina prende piena coscienza a partire da un noto saggio degli anni ‘50[28], ove i sintomi dell’eccesso di potere, quali l’illogicità manifesta e la contraddittorietà tra motivi e dispositivo, vengono ricondotti ad «ipotesi in cui si manifesta una violazione del principio di ragionevolezza dell’agire amministrativo». Secondo l’Autore questo principio «è connaturato alla stessa esistenza dell’ordinamento amministrativo» e si qualifica come «vera e propria norma giuridica, rappresentando le esigenze generali che l’agire amministrativo deve soddisfare per dare garanzia di raggiungere la sua meta». Con il tempo quindi le ricerche successive si sono occupate del ruolo ascrivibile al principio di ragionevolezza nel processo di delimitazione del potere discrezionale, rendendo quest’ultimo «il perno del dover essere della discrezionalità».
La concezione del principio di ragionevolezza nella giurisprudenza amministrativa, si pone quindi come canone di valutazione del corretto esercizio del potere discrezionale dell’agire amministrativo, in termini di adeguatezza della considerazione degli interessi in gioco, diffondendo i suoi effetti nella fase dedicata all’istruttoria procedimentale, operando quale anticorpo agli eccessi di discrezionalità e potere che durante l’iter di formazione della scelta amministrativa si possono formare, con il fine ultimo di garantire il principio di buon andamento dell’amministrazione, sancito all’articolo 97 della Costituzione.
Se tuttavia si ammette l’inquadramento della ragionevolezza nella fase istruttoria, quale corollario dei principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, bisogna concludere che altro è la valutazione di una previsione in chiave di proporzionalità, ed altro è lo scrutinio sotto il profilo della ragionevolezza, trattandosi di parametri che afferiscono a due distinte nozioni giuridiche[29]. Si tratta di due processi logici, quello del giudice “ragionevole” e quello del giudice “proporzionale”, completamente diversi. Se al primo si addice la verifica di congruità dell’imposizione di un sacrificio all’interesse concorrente, compito del secondo è quello di spostare la lente d’ingrandimento sull’adeguatezza della misura al fine di pubblico interesse che l’amministratore voleva raggiungere.
Apodittica è dunque la diversità ontologica tra i due principi: il controllo di ragionevolezza si informa entro criteri di logicità-congruità della scelta della pubblica amministrazione, ed è condotto sulla base di valutazioni oggettive – e se vogliamo meno intense e penetranti –, che prescindono da considerazioni di merito. Essa presiede ad una armonica composizione degli interessi in giuoco, ma non offre alcuna garanzia che, nel perseguimento del suo scopo, la pubblica amministrazione assicuri agli interessi soccombenti il minor pregiudizio possibile. La ragionevolezza è intesa come giudizio di valore sul modo in cui è stata esercitata la discrezionalità amministrativa, ma non svolge necessariamente il ruolo di garante del binomio libertà-autorità[30]. La proporzionalità implica invece valutazioni ben più complesse, che favoriscono il comportamento più ragionevole in relazione agli interessi privati coinvolti nell’attività amministrativa, alla luce del principio di matrice tedesca del mildestes Mittel[31]. È attraverso la proporzionalità che si definisce la “quantità” del potere discrezionale da impiegarsi, affinché il fine pubblico possa essere raggiunto tramite il mezzo che comporti il minor sacrificio possibile all’interesse del privato.
4. L’atteso incontro tra il principio di proporzionalità e la Corte costituzionale
Orbene, se nel contesto del diritto amministrativo, seppur con qualche riserva, si è generalmente riconosciuta una piena dissonanza tra ragionevolezza e proporzionalità, sul piano costituzionale l’evoluzione del principio di proporzionalità non ha raggiunto lo stesso traguardo, e in più di un’occasione, è emerso un uso promiscuo dei concetti di razionalità, uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità, quasi si fosse trattato di sinonimi. Per molto tempo nelle pronunce del giudice delle leggi la liason tra ragionevolezza e proporzionalità è stata letta in un rapporto di species ad genus, in cui la seconda si assumeva essere uno strumento più specifico con cui raggiungere il più ampio e generale sindacato di ragionevolezza[32]. «Solo nel quadro di un sistema informato ai paradigmi della adeguatezza e proporzionalità» si legge nella sentenza n. 257 del 2006 «è possibile sindacare la razionalità intrinseca (e, quindi, la compatibilità costituzionale) degli equilibri prescelti dal legislatore», a dimostrare che per il giudice costituzionale la proporzionalità è stata per lungo tempo un corollario della ragionevolezza.
Non che la risalente esperienza italiana fosse rimasta del tutto avulsa dai meccanismi di valutazione di cui si compone il test di proporzionalità. In molti casi infatti la Corte ha operato una verifica di legittimità costituzionale in termini di adeguatezza del mezzo rispetto al fine. Si pensi alla sentenza n. 14 del 1964 dove la Consulta ha utilizzato nel suo iter argomentativo ragionamenti basati sull’«idoneità dei mezzi allo scopo che [la norma] doveva conseguire» e sul «compiuto apprezzamento delle ragioni pro e contro»; o alla sentenza n. 231 del 1985 sui limiti alla trasmissione della pubblicità commerciale radiotelevisiva, ove il giudice costituzionale nel giudicare incongruo e sproporzionato il divieto assoluto di pubblicità commerciale per i ripetitori esteri, ha affidato alla Consulta stessa il compito di verificare «il rapporto di congruità tra mezzi e fini, per salvaguardare la libertà garantita contro interventi arbitrariamente restrittivi o contro interventi che praticamente annulla[vano] il diritto inerente alla libertà stessa». Ancora nella sentenza n. 1130 del 1988 si legge che «il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore [...] rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire». È dunque evidente che il giudice costituzionale non è stato mai estraneo a certa terminologia e ad una valutazione di idoneità e adeguatezza del fine che si vuole perseguire. Proprio a partire da quest’ultima sentenza inoltre, parte della dottrina ha sottolineato per la prima volta la necessità di scindere il principio di ragionevolezza in una duplice categoria, l’una intesa come metodo di scrutinio nei casi di eguaglianza, l’altra, definita “in senso stretto”, che più si avvicinerebbe alla proporzionalità continentale, costituendone un alter ego[33].
La renitenza del giudice costituzionale si è esibita invero nell’assenza di una rigida e formalizzata logica di giudizio che invece si è diffusa negli altri contesti internazionali, limitandosi piuttosto ad applicare un più generico esame di congruità dei mezzi rispetto al fine, senza procedere ad alcuna valutazione della proporzionalità tra sacrifico imposto e vantaggio conseguito[34]. E proprio nella sua mancata formalizzazione si è inserita la critica all’astrattezza di giudizio del giudice costituzionale.
Eppure, se si guarda all’ultimo decennio di attività della Corte costituzionale, non in poche occasioni il test di proporzionalità, o quanto meno il suo presagio, ha assunto linee sempre più nitide. I primi indizi di questa evoluzione della Corte verso un criterio di giudizio meglio si sono ravvisati con la sentenza sul mandato di arresto europeo, la n. 227 del 2010. Già in quell’occasione infatti il giudice delle leggi aveva sottolineato che «la differenza di trattamento doveva essere sottoposta ad un rigido schema di proporzionalità» al fine di «non andare oltre quanto necessario per consentire l’obiettivo», benché si fosse trattato poi di una ricostruzione appena abbozzata e non articolata in tutti i suoi aspetti. Ben nota ci è poi la sentenza sul caso Alitalia[35] dove la Consulta, nel dichiarare la conformità a Costituzione della norma oggetto di censura, ha seguito un ragionamento logico evidenziando la necessità di impiegare uno strumento di verifica tale da consentire la corretta identificazione degli interessi in grado di giustificare la scelta del legislatore. Il sindacato della Corte deve infatti spingersi sino a valutare l’idoneità, la necessarietà e l’adeguatezza delle limitazioni introdotte, così da garantire «il soddisfacimento contestuale di una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti». Particolare interesse, sempre in tema di legislazione provvedimentale, ha suscitato anche la più volte stigmatizzata sentenza n. 85 del 2013 sull’hard case delle attività di acciaierie di Taranto. «La Costituzione italiana» secondo la Consulta «come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi [...]. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato [...] secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale». In questa vicenda, la necessità di garantire un’integrazione reciproca tra i diritti fondamentali così da pervenire ad un costante punto di equilibrio, senza determinare l’espansione illimitata di uno dei diritti che sarebbe divenuto in tal caso “tiranno”, è stata portata alle sue estreme conseguenze, facendo rifugiare la Corte dietro un atteggiamento di self-restraint, rimettendo alla competenza politica il punto di equilibrio dei valori.
I tratti del “presagio di proporzionalità” si son fatti sempre più nitidi nel giudizio della Corte sicuramente nell’anno di attività del 2014, dove due fondamentali sentenze, la n. 1 e la n. 162 hanno costituito una splendida cartina di tornasole della volontà del giudice di dirigersi verso l’inizio di una “quarta fase” dell’evoluzione del principio di ragionevolezza, se si tiene conto della sua genesi trifasica, generalmente adottata dalla dottrina. Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della legge elettorale n. 270 del 2005 (nota a tutti come Porcellum), a dire della Corte le scelte dispositive non superavano lo scrutinio di ragionevolezza e proporzionalità. Secondo quest’ultima infatti «in ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, quale quello in esame, siffatto scrutinio impone a questa Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale». Il giudizio deve necessariamente svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988)». Dunque, se prima i rimandi a tale principio si limitavano ad una superficiale applicazione del test di congruità dei mezzi rispetto al fine, senza procedere ad una concreta valutazione della proporzionalità tra sacrificio imposto e beneficio perseguito, nella prima sentenza del 2014 il giudice ha costruito la sua motivazione attorno ad un test di proporzionalità, ritenendolo un mezzo «utilizzato da questa Corte come da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza», nonché un «essenziale strumento della Corte di giustizia dell’Unione europea per il controllo giurisdizionale di legittimità degli atti dell’Unione europea e degli Stati membri, che richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento degli obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimenti di detti obiettivi»[36].
Ancor più incisivo è stato il richiamo alla proporzionalità nella successiva sentenza n. 162 relativa alla fecondazione eterologa. Nel caso in specie la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto di censura considerando manifestamente sproporzionato e discriminatorio il divieto totale di fecondazione eterologa, il quale non costituirebbe l’unico mezzo, né tantomeno il più ragionevole, per rispondere alla tutela dei diritti concorrenti. Benché infatti la libertà e la volontarietà di diventare genitori non implichi che quest’ultima possa esplicarsi senza limiti, questi limiti, secondo la Corte, «anche se ispirati da considerazioni e convincimenti di ordine etico, pur meritevoli di attenzione in un ambito così delicato, non possono consistere in un divieto assoluto, come già sottolineato, a meno che lo stesso non sia l’unico strumento per tutelare gli altri interessi di rango costituzionale». Dunque, attraverso il principio di proporzionalità si riesce a «valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra le misure appropriate, prescrive quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obietti». Fondamentale al nuovo frasario motivazionale impiegato in questa sentenza è stato l’apporto delle Corti sovranazionali nella costruzione di un canone di giudizio, quale quello di proporzionalità, sempre più nitido e cristallizzato[37]. La decisione de quo della Consulta ha ricalcato infatti appieno le censure stabilite in primo grado – e ribaltate poi dalla Grande Camera in ragione di una generica mancanza di consensus da parte della maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa – nella decisione sul caso SH c. Austria del 2010, ove il giudice ha affermato che il divieto di fecondazione eterologa avrebbe violato gli artt. 8 e 14 della Convenzione, costituendo una sproporzionata compressione del diritto all’autodeterminazione della coppia in ordine alla propria genitorialità.
Ecco allora che il legame tra ragionevolezza e proporzionalità diventa tangibile. Una tangibilità suffragata da un sempre più frequente richiamo alle giurisdizioni sovranazionali. Per richiamare solo alcune fra le tante sentenze, le nn. 172 del 2012 e 202 del 2013, nelle quali diretto è stato il richiamo alla proporzionalità della misura nel contesto della CEDU.
In tema di regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, secondo la Consulta il legislatore poteva anche prevedere casi in cui, di fronte alla commissione di reati di una certa gravità, ritenuti particolarmente pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico, l’amministrazione fosse tenuta a revocare o negare il permesso di soggiorno automaticamente e senza ulteriori considerazioni; ma occorreva pur sempre che una simile previsione potesse considerarsi rispettosa di un bilanciamento proporzionato tra l’esigenza, da un lato, di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e di regolare i flussi migratori e, dall’altro, di salvaguardare i diritti dello straniero, riconosciutigli dalla Costituzione. Anche qui l’iter logico dalla Corte costituzionale è forgiato a pieno su quello della Corte di Strasburgo nella pronuncia 2009, Cherif e altri c. Italia. In quest’ultima i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano precisato che, benché gli Stati mantenessero il potere di espellere gli stranieri condannati per reati puniti con pena detentiva, tuttavia, quando nel Paese dove lo straniero intende soggiornare vivono i membri stretti della sua famiglia, occorreva bilanciare in modo proporzionato il diritto alla vita familiare del ricorrente e dei suoi congiunti con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con l’esigenza di prevenire minacce all’ordine pubblico, valutando una serie di elementi quali, ad esempio, la natura e la gravità del reato commesso dal ricorrente; la durata del soggiorno dell’interessato; il lasso di tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta del ricorrente durante tale periodo; la situazione familiare del ricorrente ecc.
Si permetta un’ultima riflessione sulla materia dei delitti e delle pene. L’idea di una necessaria proporzione tra il reato commesso e la pena prevista è considerato un indiscusso caposaldo del pensiero illuminista, di cui si è fatto promotore, primo fra tutti, Cesare Beccaria nella sua opera magna “Dei delitti e delle pene”. Eppure questa idea sembra essere rimasta per lungo tempo un flatus voci, “concetto carsico” che qua e là riaffiorava, ma che tuttavia rimaneva assorbito dalle censure fondate invece sul principio di uguaglianza.
Lo strumento impiegato per lungo tempo dalla Corte costituzionale come monito al corretto uso della discrezionalità legislativa sulle scelte di politica criminale si è forgiato nel giudizio di uguaglianza-ragionevolezza, secondo il già menzionato schema ternario del tertium comparationis, mediante il quale bisognava connettere ad una rima obbligata la previsione sanzionatoria con cui sostituire quella considerata irragionevole[38].
A partire da un primo sporadico richiamo nella sentenza n. 341 del 1994, negli ultimi quattro anni soprattutto all’indomani della nota pronuncia n. 236 del 2016, la panoplia argomentativa da cui la Corte costituzionale attinge nei suoi giudizi vede evolvere il canone della ragionevolezza verso un paradigma ben più vicino quello della proporzionalità, non fosse altro che per la necessità, all’uopo invocata, di spostare l’attenzione più che sull’articolo 3 Costituzione, sul combinato disposto tra articolo 3 Costituzione, e finalità rieducativa della pena, sancito nell’articolo 27, comma 3, della Costituzione che funge a sua volta «da parametro “espresso” (a differenza della proporzione che rimane criterio “implicito”) di verifica della legittimità della dosimetria edittale; onde, il controllo della ragionevolezza delle cornici astratte finisce necessariamente con l’implicare la presa in considerazione della finalità (o delle finalità) che l’ordinamento persegue con la minaccia della pena»[39]. Questo è dunque il punto zenit dell’evoluzione dell’iter seguito dalla Corte costituzionale, non più fondato sulla parità di trattamento e su uno schema di raffronto con altra disposizione similare, ma bensì «sull’articolo 27, comma 3, Costituzione, nel suo valore fondante, in combinazione con l’articolo 3 Costituzione», giacché laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore ha fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, si avrebbe la conseguenza di ingenerare nel condannato la convinzione di essere vittima di un ingiusto sopruso, sentimento che ostacolerebbe l’inizio di qualunque efficace processo rieducativo [40].
Un punto zenit che si rafforza ulteriormente nel frasario impiegato nella sentenza n. 179 del 2019, per cui il giudizio di proporzionalità deve svolgersi dapprima in astratto, verificando la legittimità dello scopo perseguito dal legislatore ragionevole, e successivamente scendere ad un piano concreto, con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti. In questa pronuncia il giudice costituzionale ha dimostrato di aver sempre più chiara la differenza, anche cronologica, oltre che ontologica, tra principio di ragionevolezza e test di proporzionalità. Il primo è ubicato su un piano anteriore del giudizio, avendo la funzione di verificare se lo scopo perseguito dal legislatore sia astrattamente ragionevole e quindi legittimo, tenuto conto della complessità dei valori da tenere in equilibrio tra loro; il secondo invece si inserisce in una logica di giudizio che opera sul piano empirico, verificando se effettivamente se il fine sia stato perseguito tramite il mezzo che comporti il minor pregiudizio possibile all’interesse postergato, tenendo conto dell’adeguatezza della misura e se il fine sia stato raggiunto.
5. Una riflessione conclusiva
Orbene, giunti ormai all’epilogo della nostra breve analisi, sia concesso allo scrivente qualche conclusiva riflessione.
Il ganglio dello Stato costituzionale giace nel custodire la più libera espressione dei diritti fondamentali di cui è araldo il moderno costituzionalismo; e nell’abilità del custode della Costituzione di ponderare con solerzia il ginepraio di contingenze in cui tali diritti possono venire ad intrecciarsi fra di loro. Il rifiuto del solipsismo di stampo borghese che vedeva nella sublimazione dell’io l’unica forma di libertà, ha generato un caleidoscopio di corrispondenze che hanno condotto inevitabilmente ad un contrasto tra i diritti di cui i consociati si son fatti titolari, provocando uno iato che spettava al giudice costituzionale colmare.
È così che la fraseologia del giudice si è trasformata, mentre si barcamenava ad inseguire il polimorfismo della realtà moderna, e ha trovato nel principio di ragionevolezza il giusto espediente per abbracciare la mutevolezza dei rapporti fra i consociati. Dopo un’iniziale ritrosia del giudice, esso è uscito dal suo “bozzolo” dell’eguaglianza per trasformarsi nel principio architettonico del sistema di cui tutti oggi ne apprezziamo le gesta.
Ma retorica delle antinomie che la realtà giuridica ci disvela, ha reso necessario impinguare la ragionevolezza di una maggior solidità di repertorio. Il criterio del ragionevole, così come delineato, non può che comportare infatti una giurisprudenza fluttuante, destinata a mutare a seconda delle motivazioni che spingono il legislatore a prevedere determinate misure e, mutatis mutandis, a seconda delle valutazioni soggettive e morali che di tali motivazioni i giudici costituzionali effettueranno[41].
Non è accettabile che il giudice proponga secondo la logica di ciò che lui ritiene essere ragionevole[42] criteri applicabili sul piano dell’argomentazione e su quello della valutazione; il giudizio di ragionevolezza è solo in qualche misura controllabile, ma è destinata a rimanere inappagata ogni volontà di caricarlo di contenuti e certezza. Esso è un’incantevole rosa di cui, si direbbe, possediamo solo il nome.
Seppur all’inizio i passi del giudice costituzionale si son mostrati del tutto verecondi ad adeguarsi a logiche di giudizio affini alle Corti sovranazionali, l’approccio dialogico tra le Corti, vero guardiano dell’armonia sistemica, ha permesso l’ingresso del principio di proporzionalità nell’ordinamento italiano, foriero di un protocollo di giudizio non già appena abbozzato, ma contrassegnato da operazioni logiche e strumenti argomentativi adoperati in una successione capace di dare articolata struttura alla motivazione del giudice e di costituire il punto di appoggio per il suo riesame.
Se dunque la dottrina ha unanimemente concordato sulla teoria trifasica della genesi del principio di ragionevolezza, ovvero sul suo passaggio da uguaglianza, a uguaglianza-ragionevolezza, sino poi a rendere ancora più nitidi i margini di manovra mediante il criterio di ragionevolezza strictu sensu, a parer dello scrivente sembra potersi presagire l’inizio di una quarta fase di tale giudizio, ovvero quella del test proporzionalità, i cui principali agenti influenzali sembrano essere stati, da un lato il crescente ruolo svolto dal giudice amministrativo; dall’altro, la progressiva unificazione dei giudizi nell’ottica di un più fluido dialogo tra Corte costituzionale e le Corti sovranazionali.
Ecco allora che i due lembi si riuniscono in un solo, che il fil rouge che lega il microcosmo al macrocosmo diventa ora tangibile e che, seppur con qualche remora, il principio di proporzionalità diventa un caposaldo dell’ordinamento costituzionale in un contesto storico dove, alla perdita di centralità della legge, ne è derivato un ruolo sempre maggiore svolto dai principi costituzionali.
[1] A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, p. 9.
[2] A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2019, p. 139, distinguono tre fasi della giurisprudenza costituzionale sul principio di ragionevolezza.
[3] G. SCACCIA, Motivi teorici e significati pratici della generalizzazione del canone di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in La ragionevolezza del diritto, M. LA TORRE, A. SPADARO (a cura di), Torino, 2020, p 231 e ss.
[4] L. PALADIN, Esiste un principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale?, in Principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, riferimenti comparatistici, Milano, 1994, p. 163-167.
[5] G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 147 e ss.
[6] A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, cit., p. 385.
[7] G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000
[8] A. BALDASSARRE, Intervento, in La Costituzione tra norma giuridica e realtà sociale, a cura di N. OCCHIOCUPO, Bologna 1978, p. 27.
[9] C. MORTATI, Le leggi provvedimento, Milano, 1969.
[10] Ex multis: Corte Costituzione sent. 346/1991, Corte Costituzione 94/1995, Corte Costituzione sent. 2/1997, Corte Costituzione sent. 157/1997.
[11] G. ARCONZO, Contributo allo studio sulla funzione legislativa provvedimentale, Milano, 2013, p. 190 e ss.
[12] Così Corte Costituzione sentt. nn. 141/1999 e 25/2001, G. ARCONZO, op. cit., pp. 194-195.
[13] Vedi G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, cit., p. 399.
[14] Si veda D. U. GALETTA, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998.
[15]Per un approfondimento sul fondamento costituzionale del principio di proporzionalità nell’ordinamento tedesco si veda G. SCACCIA, Il controllo di proporzionalità della legge in Germania, http://www.ginoscaccia.it/wp-content/uploads/2018/05/14-Il-controllo-di-proporz....pdf.it.
[16] In realtà vi sarebbe un’ulteriore verifica, quella della legittimità, ossia che il legislatore abbia agito per uno scopo legittimo, non in contrasto con i principi costituzionali; tuttavia la maggior parte delle corti che ha adottato tale principio a garanzia dell’ordinamento costituzionale, si limita a svolgere le altre tre, omettendo la prima. Sul punto M. HEINTZEN, Il principio di proporzionalità, Modena, 2015, p. 24, sottolinea come se tratti di «un’omissione innocua, poiché essi rinviano a norme giuridiche diverse dal PdP e che vietano in via generale scopi o mezzi indipendentemente dal PdP».
[17] G. SCACCIA, Il principio di proporzionalità, cit., p. 244
[18] G. SCACCIA, ivi, p. 236.
[19] M. C. CICIRIELLO, Il principio di proporzionalità nel diritto comunitario, Napoli, 1999, p. 24.
[20] D. U. GALETTA, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale, cit., p. 21.
[21] Sul punto si vedano la Sentenza Buitoni, 20 febbraio 1979, C-122/78; e la sentenza Germania (Banane-Organizzazione comune dei mercati), 5 ottobre 1994, C-280/93.
[22] D.U. GALETTA, Il principio di proporzionalità nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fra principio di necessarietà e dottrina del margine di apprezzamento statale: riflessioni generali su contenuti e rilevanza effettiva del principio, in Rivista italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 1999, p. 770.
[23] G. SCACCIA, Proporzionalità e bilanciamento tra diritti nella giurisprudenza delle Corti europee, www.rivistaaic.it.
[24] Paradiso e Campanelli c. Italia.
[25] Per un ampio approfondimento si veda A. SANDULLI, La proporzionalità nell’azione amministrativa, Padova, 1998, p. 367 e ss.
[26] Cons. St., Sez. V, 18 febbraio 2002, n. 132.
[27] Cons. St., Sez. VI, 14 aprile 2006, n. 2087, considerata il punto zenit dell’evoluzione giurisprudenziale di tale diritto.
[28] F. BENVENUTI, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Rass. dir. pubbl., 1950.
[29] Così come affermato dal TAR Sicilia, Sez. III, n. 291 del 2006.
[30] G. LOMBARDO, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, p. 939 e ss., secondo il quale il principio di ragionevolezza andrebbe circoscritto semplicemente come adeguata considerazione degli interessi in giuoco, senza aver alcun legame con la rispondenza a “regole di buon senso” e a “ragioni obiettive”.
[31] F. NICOTRA, I principi di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa, in www.federalismi.it, 14 giugno 2017.
[32] G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 216 nota 29; M. P. VIPIANA, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza, cit., pp. 69 e ss.; G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, cit., pp. 294 e ss.; A. RUGGERI, Ragionevolezza e valori, attraverso il prisma della giustizia costituzionale, in Dir. soc., 2001, pp. 421 e ss.
[33] A. ANZON, Modi e tecniche del controllo di ragionevolezza, in La giustizia costituzionale a una svolta. Atti del seminario di Pisa del 5 maggio 1990, R. ROMBOLI (a cura di), Torino, 1990, pp. 31 e ss.
[34] M. CARTABIA, I diritti fondamentali e la cittadinanza dell’Unione, in Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, F. BAS- SANINI e G. TIBERI (a cura di), II ed., Bologna, 2010, p. 111.
[35] Corte Costituzione sent. n. 270 del 2010.
[36] E. BINDI, Test di ragionevolezza e tecniche decisorie della Corte costituzionale (a margine della dichiarazione d’incostituzionalità della legislazione elettorale), in Ianus, n. 10-2014.
[37] A. PATRONI GRIFFI, Il bilanciamento nella fecondazione assistita tra decisioni politiche e controllo di ragionevolezza, in Rivista AIC, n. 3/2015, 24 luglio 2015.
[38] A. MERLO, Considerazioni sul principio di proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale in materia penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 1427 e ss.
[39] F. BAILO, Verso la costituzionalizzazione del principio di proporzionalità delle pene nella giurisprudenza della Consulta, in Giur. It., 2013, p. 31, il quale cita a sua volta G. FIANDACA, Scopi della pena tra comminazione edittale e commisurazione giudiziale, in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, p. 144.
[40]F. VIGANÒ, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in www.penalecontemporaneo.it
[41] G. ARCONZO, Contributo allo studio della funzione legislativa provvedimentale, cit., p. 314.
[42] A. BALDASSARRE, Intervento, in La Costituzione tra norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 127.