Raptus: “rapimento” della capacità d’intendere e di volere. Quando il diritto di vivere si riduce alla forza fisica

Violenza
Violenza

Abstract

È divenuta ormai consuetudine dei mass media utilizzare il termine raptus di etimologia latina, “rapimento”, durante la divulgazione di una notizia di fulminea violenza, la quale ha condotto un individuo alla totale perdita di autocontrollo. Risulta doveroso specificare che si ricorre alla voce raptus, solamente nel caso in cui la vittima sia fisicamente debole rispetto all’aggressore; mentre quando è fisicamente forte o quasi quanto quest’ultimo, ciò non avviene.

È per tale ragione che il pubblico dei mass media, inevitabilmente vede il raptus come prodromo di avvenuta violenza sui deboli. Ma trattare determinate tematiche senza cognizione di causa, non può fare altro che generare effetti controproducenti.

Come infondere paura, rischiando di indurre la società a credere di non essere più al sicuro con tutti questi “pazzi” liberi di ex fidanzati, ex mariti, madri o padri, che dal nulla a mani nude oppure con l’ausilio di armi da fuoco o armi bianche, feriscono o uccidono senza motivo vittime indifese. L’origine di codesta paura, la si trova nella rappresentazione del raptus come un’infermità mentale ovvero una malattia psichiatrica. Ma in realtà il raptus è un “velo” dietro al quale si possono, ma non è detto, celare quest’ultime.

A tal proposito diventa cruciale la distinzione tra un raptus consequenziale di un’infermità mentale o malattia psichiatrica, da una reazione violenta, frutto di uno stato emotivo e passionale, non annessa ad uno stato patologico.

Perché è proprio da questa distinzione che dipende l’imputabilità di un reo.

Difatti l’art. 90 c.p. non considera gli stati emotivi e passionali, motivo di esclusione o attenuazione dell’imputabilità. Nel caso in cui venisse accertato che il raptus sia stato conseguenza di un’infermità mentale o di una malattia psichiatrica, l’imputabilità non verrebbe automaticamente meno. Questo perché, bisognerà altresì accertare che vi sia nesso di causalità, nonché legame eziologico, tra la condotta e l’evento.

Nel momento in cui ne venisse accertato anche il nesso di causalità, le cause di esclusione o di diminuzione dell’imputabilità non sono categoriche. Cosicché a quelle specificatamente previste dal codice penale possono affiancarsene altre, purché quest’ultime escludano totalmente o in parte la capacità d’intendere e di volere. Dunque qualora l’incapacità d’intendere e di volere non fosse attribuibile a nessuna categoria specificatamente prevista dal codice penale, si potrebbe comunque legittimare un’assoluzione ai sensi dell’art. 85 c.p. Difatti stando a ciò che prevede il citato art., risulterebbe ingiusto giudicare imputabile un soggetto al quale è stata accertata l’incapacità d’intendere e di volere, solo perché si ignorano le ragioni di tale incapacità o perché magari tali ragioni non sono riconosciute in una determinata classificazione diagnostica. Detto ciò sarebbe opportuno che l’indagine venisse svolta sotto un aspetto tecnico, prettamente psicopatologico – funzionale, anziché affidarsi al riscontro dell’esistenza delle capacità psichiche, ridotte dalla legge a capacità d’intendere e di volere.

 

Indice

1. Configurabilità del reato ancorata alla suitas.

2. Incidenza del raptus e delle “reazioni a corto circuito” sulla capacità d’intendere e di volere: Cass. pen., Sez. I, 13 maggio 1993, n.4954 (ud. 3 marzo 1993); Cass. pen., Sez. III, 30 dicembre 1985, n.12508 (ud. 11 ottobre 1985).

3. Tipologia d’infermità vs cause di attenuazione o esclusione dell’imputabilità.

4. Stato di mente al momento del fatto.  

5. Quando l’animus necandi diventa chiave di discrimine tra omicidio volontario ed omicidio preterintenzionale.  

6. Utilizzo del termine raptus da parte dei mass media.

7. Spunti bibliografici.

 

1. Configurabilità del reato ancorata alla suitas

Per la configurabilità del reato, l’articolo 42 del Codice Penale impone la presenza della suitas, vale a dire coscienza e volontà nella condotta tenuta. Il comma 1 sancisce difatti, “Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà”.

Con questo articolo si esige la verifica dell’imprescindibile correlazione psichica, reale o potenziale, che dovrà sussistere tra l’agente e la condotta illecita da egli tenuta, affinché si possa parlare di responsabilità penale. Ovverosia se la suddetta condotta potesse essere governata dall’agente ed essere in tal caso reputata propria.

La suitas reale concernente un’azione, consiste nella condotta quale conseguenza di un input cosciente della volontà, volto alla realizzazione di un moto muscolare. Mentre la suitas potenziale consiste nella condotta che pur non essendo stata conseguenza di un input cosciente, poteva essere repressa con una maggiore forza di volontà. Questo perché la volontà è in grado di frenare un’azione con il dominio della pulsione e della repressione.

A differenza di quanto accade indiscutibilmente con la suitas reale, ove le condotte tenute sono classificabili come reati dolosi, senza la dovuta rimarchevole considerazione verso la suitas potenziale, molteplici reati colposi finirebbero per non essere puniti. Dunque senza suitas non vi è colpevolezza. Nozione che non viene espressa nel nostro ordinamento giuridico se non tramite l’espressione responsabile. La colpevolezza nel lessico giuridico rappresenta il complesso degli elementi soggettivi sui quali si basa la responsabilità penale.

Responsabilità penale che i mass media tenderebbero ad escludere in svariati casi di cronaca nera, stando alla superficialità con la quale usano il termine raptus. Parlano del raptus, la cosiddetta violenza fulminea, come fosse sempre e comunque un rapimento della capacità d’intendere e di volere, lasciando interpretare conseguentemente al loro pubblico inesperto in materia, di essere circondati da “pazzi”. Il raptus in tal senso finisce per essere visto come conseguenza di un’infermità mentale o di una malattia psichiatrica; ma la realtà dei fatti è che, né l’infermità mentale né la malattia psichiatrica sono automaticamente correlate ad esso.

 

2. Incidenza del raptus e delle reazioni a “corto circuito” sulla capacità d’intendere e di volere

A tal proposito è indispensabile distinguere un raptus consequenziale di un’infermità mentale ovvero malattia psichiatrica, da una reazione violenta, frutto di uno stato emotivo e passionale. Questo perché riguardo l’imputabilità, ai sensi dell’articolo 90 del Codice Penale le cosiddette “reazioni a corto circuito”, i quali generalmente si restringono alla cerchia degli stati emotivi e passionali, non annessi ad uno stato patologico, non costituiscono motivo di esclusione o attenuazione dell’imputabilità. “In tema di imputabilità la cosiddetta “reazione a corto circuito” quando non risulti dimostrato il suo collegamento ad uno stato patologico, risolvendosi in un turbamento di carattere transitorio, dovuto a forte eccitazione emotiva o a una condizione di passionalità, non incide sulla capacità d’intendere e di volere”. Cass. pen., Sez. I, 13 maggio 1993, n. 4954, (ud. 3 marzo 1993), Zannoni. Conforme Cass. pen., Sez. III, 30 dicembre 1985, n. 12508 (ud. 11 ottobre 1985), Rustici.

Facendo riferimento alla suddetta capacità d’intendere e di volere, la cui congiunzione e, fa dipendere l’una dall’altra; articolo 85, comma 1 del Codice Penale “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso, non era imputabile”.

E ancora, comma 2, “È imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere”. Concisamente con capacità d’intendere ci si riferisce alla capacità di percepire l’importanza sociale delle proprie condotte; mentre con capacità di volere, alla libera autodeterminazione nel decidere quali siano le condotte più confacenti da tenere. Pertanto affinché un reato possa essere configurato e l’autore di esso dichiarato imputabile, è indispensabile che vi siano suitas nell’uno e capacità d’intendere e di volere nell’altro caso.

Ma è bene discernere la suitas dalla capacità d’intendere e di volere. Questo perché, la suitas si riferisce alla relazione tra il volere dell’agente ed una specifica condotta, permette dunque di esaminare la riconducibilità o diversamente, di una specifica condotta alla volontà dell’agente; invece l’imputabilità concernente la maniera di essere di un soggetto, si riferisce alla sua maturità psichica e alla sua sanità mentale. Da ciò si può evincere che un soggetto imputabile e dunque capace d’intendere e di volere, può aver agito senza coscienza e volontà, come si può riscontrare nei casi di forza maggiore ovvero di costringimento fisico.

 

3. Tipologia d’infermità vs cause di attenuazione o esclusione dell’imputabilità

Le cause di esclusione o attenuazione dell’imputabilità sorrette dalla dottrina giuridica, non sono tipiche. Perciò oltre a quelle esplicitamente previste dal codice penale possono indicarsene altre, purché il risultato di queste, sia la consistente perdita della capacità d’intendere e di volere. In sintesi questo sta ad indicare che l’esame sull’imputabilità esige una verifica sulla presenza o meno della capacità suddetta e su qualunque altro elemento in grado di farla decrescere.

Stando a ciò se ad assumere peso è la capacità d’intendere e di volere assente o grandemente scemata, tralasciando il fattore causale, diviene voluttuario qualsiasi dibattimento circa la tipologia d’infermità.

Difatti in primo luogo si appura la mancanza di capacità d’intendere e di volere e successivamente la si rapporta ad un certo quadro nosograficamente noto; una via raziocinante concettualmente capovolta, se vogliamo.

Ipoteticamente un profilo d’incapacità d’intendere e di volere non attribuibile ad alcuna tipologia d’infermità secondo quanto disposto dagli articoli 88 e 89 del Codice Penale, sarebbe ad ogni modo in grado di legittimare un’assoluzione ai sensi dell’articolo 85 del Codice Penale.

Questo perché risulterebbe arbitrario giudicare imputabile un soggetto al quale è stata riscontrata incapacità d’intendere e di volere, dato che le circostanze non permettono di comprendere le ragioni di questa incapacità o ancora perché non fa parte di alcuna specifica classificazione diagnostica. La suddetta capacità può dipendere da stati di carattere fisiologico determinati dalla minore età, da uso smodato di genere tossico afferente alcool o stupefacenti, o anche da stati di carattere psicologico, ovverosia vizio totale o parziale di mente.

Il concetto d’infermità è considerato differente e più vasto rispetto a quello di malattia mentale, in quanto inclusivo oltre che di quest’ultima, di diverse tipologie di devianza seppure non patologiche. Vale a dire anomalie psichiche che nonostante non facciano parte del novero di malattie psichiatriche, sono rapportabili alla psicopatologia clinica. Vi è una differenziazione determinata dalla Cassazione tra psicosi e psicopatie. La psicosi risulta una reale malattia, capace di alterare i processi intellettivi o volitivi; mentre la psicopatia consiste in una vera e propria atipicità del carattere, la quale non influisce sul campo intellettivo o volitivo, inidonea perciò ad escludere o scemare grandemente la capacità d’intendere e di volere.

 

4. Stato di mente al momento del fatto

Gli articoli 88 e 89 del Codice Penale di seguito riportati, dispongono quali debbano essere le condizioni mentali del reo, nel momento in cui ha tenuto una condotta penalmente rilevante, affinché si possa escludere o ridurre l’imputabilità. Secondo l’articolo 88 del Codice Penale “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere”. Secondo l’articolo 89 del Codice Penale “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita”. Stando alle suddette disposizioni, si possono arguire principalmente due chiavi di lettura. La prima concerne l’imputabilità ancorata al fattore temporale della condizione mentale in cui si trovava il reo nel momento in cui ha commesso il fatto. Perciò il perito ovvero il consulente tecnico dovrà svolgere un lavoro peritale che si trova a monte. Dal momento che non sarebbe rilevante al fine di un’eventuale imputabilità, lo stato mentale dell’agente, precedente o successivo al fatto commesso. La seconda riguarda invece la capacità d’intendere o di volere, che a differenza di quanto sancito dall’articolo 85 del Codice Penale, vengono prese in considerazione in maniera autonoma l’una dall’altra negli articoli 88 e 89 del Codice Penale.

Un tratto distintivo non condiviso da chi ritiene che la volontà, intesa come autodecisione, necessiti a priori di un apprezzabile nonché consapevole giudizio ragionevole delle motivazioni; oltre ad aggiungere che una matura capacità intellettiva non può essere sconnessa da una buona capacità volitiva.

Fulcro dei suddetti articoli è dunque la nozione di infermità. Essa non è intesa esclusivamente sotto il profilo psichico, bensì anche sotto quello fisico, sempre che sia in grado di influire sullo stato mentale del reo. Si prenda in considerazione ad esempio l’articolo 96 del Codice Penale, il quale sancisce al comma 1: “Non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità d’intendere o di volere”; e prosegue al comma 2: “Se la capacità d’intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita”. Una risposta al quesito riguardante le motivazioni per le quali il legislatore ha optato per la nozione infermità anziché malattia mentale, quale presupposto dell’esclusione o della limitazione dell’imputabilità del reo, si basa sul fatto che non vi è assoluta necessità di giungere, in ogni caso, a una diagnosi di vera e propria malattia mentale qualificata, essendo sufficiente l’intervento di una profonda, seppur fugace e momentanea, perturbazione morbosa dello psichismo, che interessi la capacità d’intendere o quella di volere; mentre dall’altra parte come afferma Canepa (1974), l’utilizzazione del concetto di “malattia mentale”, anziché di quello di “infermità”, avrebbe escluso dalla possibilità di considerazione ai fini della valutazione della loro incidenza sull’imputabilità, di tutti quegli stati morbosi di tipo psicopatologico che non costituiscono “malattia”, ma “esiti” di malattia. Come gli esiti di un grave trauma cranico occorso all’imputato o all’indagato molti anni prima della commissione del reato per il quale viene sottoposto all’indagine psichiatrico - forense sull’imputabilità.

Un altro quesito di non minore importanza, è quali siano i disturbi mentali che ottengono rilevanza da un punto di vista d’infermità, con conseguente attuazione degli artt. associati al vizio di mente. A tal proposito risulta doveroso citare la sentenza n. 9163 della Cass. Pen. Sez. Unite 25 maggio 2005 e depositata l’8 marzo 2005, nella quale si asserisce che “Anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere di un soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, rilevanza, gravità e intensità tali da concretamente incidere sulla stessa; per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie caratteriali” e gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”.

Riguardo ai vizi di mente, con particolare riferimento al vizio parziale di mente, vi sono comprensibili disapprovazioni circa la sua nozione e applicazione. Dal momento che tale intervento può essere reputato parecchio più azzardato rispetto al vizio totale di mente. “Se non altro, perché si pretende che lo psichiatra forense abbia la capacità di misurare e quantificare la compromissione di funzioni psichiche e di tradurla in categorie normative con riferimento a un momento (quello del fatto reato) consuetamente lontano rispetto al momento dell’accertamento peritale”. Ciò che porta Fornari (2004) ad affermare: “Io sono convinto che siamo di fronte alla più assoluta arbitrarietà, anche se molti pensano che il riconoscimento di un vizio parziale di mente sia espressione “di raffinata abilità clinica”, “di felice intuizione”. Invece, non si tratta altro che di compromessi, di aggiustamenti che si sposano quando non si sa come concludere e non si ha il coraggio e l’umiltà di ammetterlo; oppure quando si condividono pregiudizi ideologici che vorrebbero vedere il perito aderire a una tesi di sempre residua libertà, capacità e responsabilità in ogni autore di reato malato di mente; oppure quando si vuole sedare l’opinione pubblica con una sentenza che tranquillizzi gli animi e le paure della gente; oppure quando ostinatamente si vuole occupare quella “terra di nessuno” costituita dal mistero della psiche umana, contribuendo alla complessità e alla profondità dell’agire, individuabile nella possibilità di quantificare la compromissione di un terzo (non di più non di meno) dell’imputabilità”.

 

5.Quando l’animus necandi diventa chiave di discrimine tra omicidio volontario ed omicidio preterintenzionale

Il punto cardine della differenziazione tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale si trova   nel c.d. “animus necandi”, dal latino “intenzione di uccidere”. Difatti nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è rappresentata dall’animus necandi, ovverosia dalla presenza di dolo; mentre nell’omicidio preterintenzionale la volontà suddetta lascia fuori la prevedibilità dell’evento morte. L’indagine concernente codesta differenziazione è rimandata alla scrupolosa analisi di elementi oggettivi ricavati dalle tangibili modalità della condotta tenuta. Per l’esistenza del dolo viene richiesto un duplice coefficiente psicologico, vale a dire, la rappresentazione e la volontà del fatto antigiuridico. [Art. 43, comma 1 c.p. “Il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”].

Perché sorga una responsabilità dolosa occorre dunque in primo luogo che il soggetto si sia rappresentato il fatto antigiuridico, la logica che sta alla base di questo requisito del dolo è evidente: si rimprovera al soggetto di aver avuto ben chiaro dinanzi agli occhi il fatto antigiuridico e di non essersi lasciato trattenere da quella rappresentazione ammonitrice. In base all’intensità del momento volitivo quanto di quello rappresentativo, possono attribuirsi al dolo tre gradazioni: dolo intenzionale; dolo diretto; dolo eventuale. Il dolo intenzionale si configura nel momento in cui il soggetto passa all’azione con lo scopo di realizzare il fatto. La configurazione del dolo diretto avviene allorquando il soggetto non prefigge la realizzazione del fatto, ma si rappresenta pur sempre come probabile o pressoché certo, il verificarsi dell’evento quale conseguenza dell’azione. Affinché si configuri invece il dolo eventuale, bisogna che il soggetto non prefigga la realizzazione del fatto, ma si rappresenti non come certo, piuttosto come altamente possibile, il verificarsi dell’evento quale conseguenza dell’azione e pur di non astenersi dall’agire, accetta che l’evento possa verificarsi.

Vi sono inoltre circostanze, nelle quali la risoluzione può essere la conseguenza immediata di un improvviso impulso ad agire (si parla in questo caso di dolo d’impeto, che si manifesta nei casi in cui la spinta ad agire ha radici ‘affettive’, come l’ira o la gelosia). A tal proposito si può fare riferimento ad un caso di omicidio volontario di una bambina di 2 anni, con richiesta di configurabilità di omicidio preterintenzionale, frutto di un raptus. Tale bambina piangeva a dirotto, quando vi fu una reazione isterica del padre, il quale la prese in braccio e iniziò a scuoterla con violenza. La drammatica conseguenza fu il decesso a causa del trauma cranico encefalico riportato. La difesa del padre omicida richiese, come già anticipato, una riqualificazione dell’episodio come omicidio preterintenzionale, frutto di un raptus (Cass. sent. n. 13970/2016 Sez. I Penale).

L’omicidio preterintenzionale è disciplinato dall’articolo 584 del Codice Penale il quale dispone che: “Chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 e 582, cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da dieci a diciotto anni”. La nozione di atti diretti non coincide con quella di atti idonei diretti in modo non equivoco, contemplata in tema di tentativo, con riferimento all’art. 56 c.p.; questo perché viene reputata sufficiente dalla sopracitata disposizione la presenza dell’inequivocità e non altresì dell’idoneità lesiva. Dunque l’art. 584 c.p. punisce la condotta del reo che con atti diretti a ledere o a percuotere, cagiona la morte di un uomo; ma dall’elenco delle lesioni riportate dalla bambina si è potuto arguire in modo lampante, l’intensità della violenza con la quale il reo ha agito e di conseguenza non vi è stato alcun dubbio nel respingere l’anzidetta richiesta di riqualificazione dell’episodio. Di seguito le lesioni riscontrate con l’ausilio di una consulenza medica: trauma cranico gravissimo, fratture costali, trauma toracico, lesioni polmonari, trauma addominale con rottura epatica ed ematoma perineale. Ad essere fatale per la bambina è stato il trauma cranico, provocato da uno schiaffo, stando alla dichiarazione del padre, ma le risultanze di un’intercettazione ambientale intercorsa tra il ricorrente e la moglie, così come quelle della consulenza medica del PM, danno conto che si è trattato esclusivamente di percosse.

Infatti, è risultato che il trauma cranico encefalico, unica causa della morte, poteva essere ricondotto ad una dinamica coerente con la circostanza che la bambina, colpita da uno schiaffo o un pugno, avesse battuto la testa su una superficie liscia. Ne discende la illogicità della motivazione per essere stata apoditticamente esclusa l’argomentazione difensiva sulla sussistenza di atti diretti unicamente a percuotere e, quindi, la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale. Allo stesso modo, i giudici di merito hanno omesso di motivare in ordine alla prospettata sussumibilità del fatto nel reato di cui all’art. 572 c.p. aggravato dalla morte. Art. 572, comma 1 c.p. “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni” Ancora, comma 2 “Se del fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni”.

Contestata perciò dalla Corte d’Appello, alla luce di quanto detto, la compatibilità tra l’affermazione della sussistenza del dolo alternativo o eventuale e quella del dolo d’impeto ritenuto dai giudici di merito, atteso che, come è stato affermato dalle Sez. U., n. 38343 del 24 aprile 2014, Espenhahn, un comportamento repentino ed impulsivo accredita l’ipotesi di un’insufficiente ponderazione di certe conseguenze illecite.

La condanna inflitta è 16 anni di reclusione, per i Giudici di merito non vi è alcun margine di dubbio circa la volontarietà della condotta tenuta dall’imputato. Valutazione accolta dai Magistrati della Cassazione, i quali a loro volta indirizzano il loro giudizio nella direzione dell’omicidio volontario anziché di quello preterintenzionale, in quanto al reo erano comprensibili le tragiche conseguenze della sua violenta condotta. Art. 133 c.p. “Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa”. Confermata perciò la condanna a titolo di omicidio volontario in capo all’imputato che aveva ripetutamente colpito alla testa, al torace e all’addome la figlia di 2 anni ed irrilevante dunque il fatto che abbia agito in preda all’ira per lo snervante e continuo pianto della figlia; dal momento che non può per certo far escludere a priori la lucidità mentale e le facoltà cognitive, necessarie al fine di permettere al reo in questione, di prevedere l’evento morte quale conseguenza della propria condotta, manifestazione peraltro di natura violenta e brutale.

 

6.Utilizzo del termine raptus da parte dei mass media

Non può certamente essere considerata un caso o peggio ancora un caso di raptus, la palese analogia che si riscontra nell’identità dei soggetti coinvolti in questi fatti di cronaca nera, dove le vittime sono donne o figli indifesi, i cui ex, padri o madri si reputano proprietari delle loro vite. Questi casi di cronaca nera, le cui vittime sono meno forti fisicamente rispetto ai carnefici, non possono continuare ad essere etichettati come casi di raptus. Il raptus non è un impulso che si manifesta solamente in soggetti che agiscono contro terzi più deboli di essi. Anche se ad oggi erroneamente i mass media continuano ad utilizzare tale termine in casi di violenza, dove le cause di determinate condotte tenute, sono ben altre.

Per tale motivo sarebbe confacente analizzare gli antecedenti segnali dei comportamenti tenuti dal reo, che hanno portato ad un tragico epilogo. Tenendo conto delle testimonianze di chi, a contatto con il soggetto suddetto, afferma di aver notato atteggiamenti alquanto preoccupanti, o ancora delle querele ovvero denunce, non limitandosi soltanto di metterle a verbale. Per quanto in alcuni casi, si possa trattare di un raptus, dietro ad esso si troverà una concatenazione di segnali, di fronte ai quali se si fosse prestata la dovuta attenzione e data l’importanza che meritavano, si sarebbe potuto intervenire tempestivamente evitando tragedie. Ad oggi invece si continua ad avere un atteggiamento impassibile, limitandosi a conteggiare le “vittime da raptus” sullo schermo del televisore, auspicandosi che a fine anno siano meno dell’anno precedente.

Avv. Valeria Citraro, De iure criminalibus, Il principio di colpevolezza e la suitas della condotta, aprile 2016.

Luigi Alibrandi, Codice penale, aggiornato alla Gazzetta Ufficiale n. 70 del 24 marzo 2018, La Tribuna, p. 1992.

Luca Sammicheli – Giovanna Donzella, I rapporti tra imputabilità e infermità mentale, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, n. 3/2004.

Annamaria Casale – Paolo De Pasquali – Maria Sabina Lembo, con la prefazione della Prof.ssa Simonetta Costanzo, Profili criminali e psicopatologici del reo, Maggioli, 2014, pagg. 39 – 45.

A cura di Vittorio Volterra, Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, Seconda edizione, Edra, 2017, pagg. 17 – 19.

Giorgio Marinucci – Emilio Dolcini, Manuale di Diritto Penale, Parte generale, Quarta edizione, Giuffrè, 2012, pagg. 292 – 297.

Sentenza Cassazione Penale, Cass. Pen. Sez. I – n. 13970, 05 novembre 2015.