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Responsabilità 231: per garantire il principio di innocenza occorre soggettivizzare

Castello di Romena
Ph. Antonio Zama / Castello di Romena

Indice: 

1. L’interpretazione oggettivizzante della responsabilità 231  

2. L’approccio soggettivizzante della responsabilità criminale d’impresa

3. Il caso IMPREGILO SPA   

4. Personalizzazione della responsabilità 231 e paradigma vicariale

 

1. L’interpretazione oggettivizzante della responsabilità 231 

La lettura oggettivista della responsabilità d’impresa, scontando le naturali difficoltà di un paradigma imputativo eccessivamente antropomorfizzato (soprattutto nei casi di reati presupposto commessi da soggetti apicali), si basa su una struttura dogmatica di tale forma di responsabilità che vede, nella sua dimensione oggettiva, il reato-presupposto mentre, per quanto attiene al versante soggettivo, la cd. colpevolezza d’organizzazione, definibile generalmente come il deficit organizzativo caratterizzante la realtà d’impresa interessata dal fatto di reato.

Se il lato oggettivo di tale impianto strutturale non pone particolari questioni problematiche, dovendosi limitare l’accusa a provare la responsabilità individuale dell’autore del reato-fonte, diversa è la questione attinente alla dimensione soggettiva.

Così come pare essere attualmente concepita dalle Corti nazionali, la colpevolezza d’organizzazione si atteggia a categoria oggettivizzata, consistente nella mera assenza delle condizioni di cui all’articolo 6 Decreto Legislativo 231. In altre parole, l’interpretazione giurisprudenziale dominante ritiene che la colpevolezza dell’ente collettivo vada individuata nell’assenza simultanea della serie di scusanti fissate dall’articolo 6, disposizione che finirebbe così per rappresentare la base per la costruzione di una colpevolezza in negativo, per sottrazione. Dunque, la dimostrazione delle circostanze individuate dalla disposizione vale a far sì che l’ente dimostri l’assenza di una colpevolezza propria.

Naturale deriva dell’approccio ivi descritto è però quella di dover considerare l’ente colpevole sino a che non riesca ad offrire la prova circa l’integrazione di ognuno dei requisiti di cui all’articolo 6 del Decreto 231, in maniera evidentemente incompatibile con la presunzione di innocenza di cui all’articolo 27 Costituzione che, come chiarito dal legislatore delegato ai punti 1.1. e 3.2 della Relazione ministeriale al Decreto Legislativo n. 231/2001, deve trovare necessaria applicazione anche nel processo agli enti, dovendo essa ritenersi una delle imprescindibili garanzie del diritto penale che debbono essere estese, nel rispetto di una consolidata giurisprudenza CEDU, anche ad altre forme di diritto sanzionatorio a contenuto punitivo (punto 3.3 della Relazione).  

In questo meccanismo oggettivante la colpevolezza, la responsabilità dell’ente e quella dell’individuo si presumono coincidenti, fino a che prova contraria non sia fornita dal primo.

 

2. L’approccio soggettivizzante della responsabilità criminale d’impresa

L’approccio soggettivizzante della responsabilità 231, il quale va via via diffondendosi in dottrina, propone una visione alternativa al paradigma di responsabilità supra descritto che, pur mantenendo l’ambiguo dato testuale odierno, permette di ricondurre ad armonia il sistema 231 con le garanzie costituzionali fondamentali per la materia penale.

Partendo dal condivisibile assunto che responsabilità penale individuale dell’autore del reato-presupposto e responsabilità dell’ente debbano essere trattate come due forme di responsabilità autonome e distinte, entrambe nel pieno rispetto dei principi di responsabilità personale e colpevole, gli Autori (per tutti, BARTOLUCCI e DE SIMONE) ritengono possibile costruire un paradigma di responsabilità della persona giuridica che superi le fragilità dell’approccio oggettivista.

Così, la struttura della responsabilità criminale d’impresa verrebbe ad essere composta, dal lato oggettivo, non già dal reato-presupposto dell’autore individuale, bensì dal deficit organizzativo, specificatamente individuato nella mancata implementazione di protocolli preventivi ad hoc del fatto di reato nei modelli di organizzazione, gestione e controllo, mentre, per quanto attiene al versante soggettivo, la colpevolezza d’organizzazione, al pari del suo omologo nella responsabilità penale individuale, verrebbe ad essere riempita con il profilo della concreta e personale esigibilità dell’adozione delle misure organizzative avverse alla concretizzazione del rischio-reato.

La persona giuridica dovrebbe quindi ritenersi responsabile ogniqualvolta sia interessata da un’omissione organizzativo-gestionale, a cui è causalmente riconducile l’evento-reato-presupposto, e tale deficit organizzativo non si accompagni alla presenza di condizioni che, nella vicenda concretamente considerata, rendano inesigibile l’adozione ed implementazione dei presidi preventivi la cui adozione avrebbe, al di là di ogni ragionevole dubbio, impedito la concretizzazione del rischio-reato.

Risultato di questo orientamento è quello di costruire una responsabilità della persona giuridica propria, in quanto oggettivamente fondata su un deficit organizzativo ad essa olisticamente ascrivibile, nonché personale, costruendo la colpevolezza come concreta esigibilità soggettiva dell’impedibilità del fatto.

Unico esempio giurisprudenziale dell’applicazione dell’approccio soggettivista è rappresentato da una pronuncia della Sez. II della Corte d’Appello di Brescia che, in data 21 dicembre 2011, ebbe a pronunciarsi sulla responsabilità di una società chiamata a rispondere, ex articolo 5 e 25septies, del delitto di lesioni ed omicidio colposo a causa della condotta ascrivibile al legale rappresentante della medesima.

Pur ravvisando la mancata implementazione del modello organizzativo per la prevenzione del reato in questione, per il quale la responsabilità degli enti è stata introdotta a seguito della l. 123/07, la Corte assolve l’ente perché “la questione del lasso ristrettissimo di tempo (pochi giorni) intercorso tra l'entrata in vigore della norma che ha esteso (anche) alle lesioni colpose la disciplina prevista dal D.Lvo 231/01 e la data dell'infortunio può essere valutata favorevolmente per la società appellante sulla base del semplice principio che viene comunemente espresso col brocardo latino ad impossibilia nemo tenetur, tenuto conto che la predisposizione ed attuazione di modelli di organizzazione e di gestione quali quelli contemplati dall'articolo 6 del predetto decreto non poteva umanamente essere attuata in quattro giorni (per di più nel mese di agosto); si tenga presente, peraltro, che il legislatore solo a distanza di mesi dall'entrata in vigore del D.Lgs 231/01 aveva dettato (con l'articolo 30 D.Lgs 81/08) una disciplina specifica circa i contenuti che quei modelli devono necessariamente prevedere”.

L’ente viene quindi assolto, pur in assenza della principale delle condizioni di cui all’articolo 6 (l’adozione del modello di organizzazione) poiché il giudice riconosce l’inesigibilità di quello che sarebbe stato il comportamento alternativo lecito.

 

3. Il caso IMPREGILO SPA  

Come si è potuto evincere, i due orientamenti appena descritti hanno riflessi palesemente opposti sulle vicende giurisprudenziali che vengono ad interessare le imprese in giudizio, lungi quindi la questione essere di interesse meramente dottrinale ed accademico.

Esemplificativa, in questo senso, è la ben nota vicenda IMPREGILO.

Brevemente, il caso ha riguardo la IMPREGILO s.p.a., società interessata da un reato di aggiotaggio, integrante reato – presupposto ex articolo 25ter Decreto Legislativo 231/01, perpetrato dal proprio presidente del c.d.a. e dall’A.D. in materia, la quale, dopo essere stata assolta sia dal G.U.P. che dalla Corte di Appello di Milano per la riconosciuta idoneità del modello organizzativo, ha visto la sentenza di assoluzione essere oggetto di annullamento con rinvio ad opera della Cassazione, con un totale ribaltamento dei due gradi antecedenti di giudizio.

Ciò che qui interessa, lungi da una puntuale trattazione dei provvedimenti pronunciati da tali organi, è constatare come, pur partendo tutti dal medesimo dato testuale e dal convincimento che il sistema 231 debba essere pienamente rispettoso dell’articolo 27 Costituzione, la pronuncia del giudice di prime cure, pedissequamente osservata anche in secondo grado, e quella del Supremo Giudice si presentano come arresti giurisprudenziali espressivi dei due modelli descritti: l’uno pienamente soggettivistico, nell’ambito del quale il giudicante valuta la regola cautelare (protocollo) adottata dall’ente sulla base del criterio della prognosi postuma, a base parziale, indagando altresì l’esigibilità del comportamento alternativo lecito e attribuendo rilevanza anche alle circostanze concomitanti, contingenti, che avrebbero reso hic et nunc soggettivamente inesigibile un comportamento conforme alla regola cautelare stessa, mentre l’altro, oggettivistico, in cui la Cassazione, compiendo un’opera di decontestualizzazione fattuale, valuta come inidoneo il modello, ravvisando un deficit colposo di organizzazione che, alla luce della “migliore scienza ed esperienza” al tempo dei fatti, non era né prevedibile né tanto meno impedibile in concreto.

La vicenda insegna quindi che, a parità di apparato normativo di riferimento, l’interprete potrà giungere a soluzioni antitetiche ove, come nel caso dei giudici di prime cure, faccia proprio un preferibile criterio di valutazione prognostica o, come invece ha fatto il Supremo Giudice, adotti una prospettiva decontestualizzata che, nel solco del giudizio retrospettivo, finisce per tradursi in un’ipotesi di responsabilità oggettiva, “sotto le mentite spoglie di una richiesta di condotta nei fatti inesigibile” (PALIERO).

 

4. Personalizzazione della responsabilità 231 e paradigma vicariale

Il breve excursus precedente dovrebbe aver restituito l’immagine di un sistema che, nel tentativo di dare una soluzione costituzionalmente accettabile ai principali problemi che aleggiano in questa materia, è ancora fortemente animato da tensioni difficilmente componibili tra l’aspirazione personalistica dell’illecito e la sua natura strutturalmente identificativa, continuando così ad incentrarsi su logiche antropomorfistiche di dubbia costituzionalità, derivanti dalla difficoltà di poter ritenere che l’applicazione delle garanzie di cui all’articolo 27 Costituzione possa ritenersi compatibile con un sistema di responsabilità, a contenuto sostanzialmente penale, costruito su una soluzione identificativa tra ente e persona fisica-autrice del reato.

Una piena e coerente applicazione del principio di responsabilità personale, ad avviso di chi scrive, non può prescindere dal porre al centro dell’accertamento processuale il vero soggetto dell’accertamento, ovverosia l’ente, già in sede di indagine della tipicità, non dovendosi invece postporre un suo ingresso sulla scena al momento (logicamente successivo) del vaglio della colpevolezza d’organizzazione.    

Un disinnesco dei rischi di responsabilità oggettiva insiti nell’attuale normativa, così come interpretata dalla giurisprudenza largamente dominante, potrebbe essere rappresentato da una rilettura personalizzante, costituzionalmente orientata, dell’attuale schema di imputazione, nell’ambito della quale componente oggettiva dell’accertamento sia data dal giudizio sulla disorganizzazione dell’ente mentre quella soggettiva dal giudizio circa l’esigibilità del comportamento alternativo lecito, dunque correttamente organizzato, dello stesso.

In altre parole, il giudice, in sede di accertamento, non sarebbe chiamato a domandarsi se l’ente è disorganizzato al fine di ritenerlo colpevole del fatto di reato (previamente accertato) commesso dalla persona fisica inserita nel suo organigramma, bensì si porrebbe tale quesito, in via preliminare, come necessario preludio all’interrogativo sul se, alla luce delle circostanze concrete del caso sottopostogli, fosse possibile pretendere dalla persona giuridica i presidi idonei ad impedire la concretizzazione dal fatto di reato della persona fisica, venendo così quest’ultimo ad occupare la posizione di evento causalmente riconducibile alla disorganizzazione dell’ente e dunque (anche) ad esso ascrivibile.

Concludendo, si ritiene quindi che l’affermazione di una siffatta impostazione, lungi dall’essere la panacea di ogni male, avrebbe il rilevante pregio di favorire una più coerente e piena applicazione dei principi di cui all’articolo 27 Costituzione, con correlati riflessi dilatatori in materia di diritto di difesa, come si spera di aver mostrato con particolare riferimento al paragrafo 2 del presente contributo.