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Responsabilità per infortunio del lavoratore

Cenni alla responsabilità per infortunio del lavoratore con particolare riferimento ad una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Corte di Cassazione - Sezione Quarta Penale (up), Sentenza 19 gennaio 2005, n. 1238).

Qual è il metro per determinare la responsabilità dei responsabili per la sicurezza e dei datori di lavoro in merito agli infortuni sul lavoro? Giurisprudenza di merito e di legittimità sono da alcuni anni coinvolte nel processo di delimitazione dei profili di responsabilità per colpa generica e specifica. La prima dipendente dagli obblighi che l’ordinamento pone a carico dei datori di lavoro, la seconda, originata dagli obblighi specifici previsti dalla disciplina sulla sicurezza negli ambienti di lavoro (in particolare, Decreto Legislativo 626/1994).

Due soggetti, responsabile del servizio prevenzione infortuni e responsabile di cantiere, sono tratti in giudizio per la morte di un lavoratore, il quale aveva utilizzato un mezzo alla guida del quale non era stato abilitato.

In particolare, il profilo della colpa specifica viene individuato in una serie di violazioni di disposizioni di cui al Decreto Legislativo 626/1994 e quello della colpa generica nell’aver acconsentito alla prassi di lasciare le chiavi di accensione dei mezzi attaccate al quadro elettrico, così da non impedire a chi lo volesse l’uso indiscriminato delle macchine.

La Corte di primo grado (Tribunale di Verbania) ha dichiarato gli imputati colpevoli condannandoli alla pena di sei mesi di reclusione e disponendo in ordine alle spese e danni in favore delle costituite parti civili, mentre la Corte di secondo grado (Corte d’Appello di Torino) investita dell’impugnazione da parte degli imputati, ne ha ritenuto la carenza di responsabilità in ordine sia ai profili di colpa specifica che a quelli di colpa generica.

Secondo la Corte d’Appello, per quanto riguarda il profilo della colpa specifica da difetto di informazioni, il lavoratore, assunto con mansioni di elettricista, era stato bene edotto, alla stregua di tutti gli altri, dei rischi connessi alla propria attività, di cui in nessun caso faceva parte la guida di alcuna macchina, e meno che mai di macchine tipiche di cantiere, quale quella alla cui guida si era verificato l’infortunio mortale.

Avverso quest’ultima sentenza è proposto ricorso per Cassazione.

Il percorso logico giuridico della Corte di Cassazione si sviluppa dall’esame del fatto all’origine dell’incidente, così come emerso e “cristallizzato” nel corso del giudizio della Corte d’Appello.

Orientamento consolidato è che la disciplina legislativa va sempre assoggettata ad una interpretazione ragionevole; e pertanto ragionevole è che il dovere di informazione concerne i rischi cui è esposto il singolo lavoratore nell’ambito delle sue specifiche mansioni (sia pure con riferimento alle operazioni a lui non direttamente affidate ma che comunque in qualche modo interessino la sfera di quelle), con esclusione, quindi, di ogni altro settore che comunque rimanga estraneo al campo di azione nel quale si esplicano le mansioni di sua specifica competenza.

Secondo la Corte di Cassazione, l’iniziativa di cui sopra del lavoratore di mettersi alla guida di un mezzo per il quale non era in alcun modo prevista la sua competenza e per la guida del quale non era stato in alcun modo addestrato, ha assunto quel carattere di imprevedibilità idoneo ad interrompere la serie causale, in modo tale da escludere la responsabilità degli imputati.

Di maggiore interesse risulta forse la seconda parte delle motivazioni della sentenza, nella quale la Corte di Cassazione approfondisce i profili di colpa generica che secondo i ricorrenti erano ravvisabili nella condotta degli imputati.

La Corte di Cassazione ha confermato la correttezza della sentenza impugnata, laddove aveva “escluso la colpa generica degli imputati, i quali, acconsentendo alla prassi di lasciare sempre inserite nel quadro di avviamento le chiavi dei vari mezzi, non hanno posto in essere alcuna condotta rimproverabile, posto che tutti i lavoratori erano a conoscenza del divieto di adoperare macchine non a loro espressamente affidate. Anzi, la circostanza del rifiuto, in una occasione, manifestato al lavoratore poi deceduto nell’incidente, di adoperare quello specifico carrello elevatore con la motivazione di non essere stato addestrato all’uso, rendeva logicamente ancor più imprevedibile la sua inopinata decisione di porsene alla guida, affrontando un percorso peraltro particolarmente ripido ed assolutamente inagibile a quel tipo di macchina”.

Ma agli imputati non può nemmeno essere addebitato il profilo di colpa generica per aver violato il dovere di presenza costante sul luogo di lavoro, come conseguenza specifica della posizione di garanzia e del debito di sicurezza previsto anche dall’articolo 2087 Codice Civile.

Secondo la Cassazione, occorre ricorrere al principio secondo il quale “ad impossibilia nemo tenetur”, concreta esplicazione del principio generale di ragionevolezza e di esigibilità della prestazione. Alla luce di questo principio tale obbligo va inteso nel senso che i soggetti tenuti debbono assicurare, più che la presenza fisica che non è in se necessariamente idonea a garantire la sicurezza dei lavoratori, la “gestione” oculata dei luoghi di lavoro mediante l’aver posto in essere tutte le misure imposte normativamente (informazione, formazione, attrezzature idonee e presidi di sicurezza), nonché ogni altra misura idonea, per comune regola di prudenza e di diligenza, a garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro.

Dato che la Corte d’Appello ha dimostrato con motivazione convincente che tali ultime misure erano state tutte poste in essere, anche sotto il profilo della colpa generica la pronuncia della stessa deve essere confermata e il ricorso in Cassazione rigettato.

Cenni alla responsabilità per infortunio del lavoratore con particolare riferimento ad una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Corte di Cassazione - Sezione Quarta Penale (up), Sentenza 19 gennaio 2005, n. 1238).

Qual è il metro per determinare la responsabilità dei responsabili per la sicurezza e dei datori di lavoro in merito agli infortuni sul lavoro? Giurisprudenza di merito e di legittimità sono da alcuni anni coinvolte nel processo di delimitazione dei profili di responsabilità per colpa generica e specifica. La prima dipendente dagli obblighi che l’ordinamento pone a carico dei datori di lavoro, la seconda, originata dagli obblighi specifici previsti dalla disciplina sulla sicurezza negli ambienti di lavoro (in particolare, Decreto Legislativo 626/1994).

Due soggetti, responsabile del servizio prevenzione infortuni e responsabile di cantiere, sono tratti in giudizio per la morte di un lavoratore, il quale aveva utilizzato un mezzo alla guida del quale non era stato abilitato.

In particolare, il profilo della colpa specifica viene individuato in una serie di violazioni di disposizioni di cui al Decreto Legislativo 626/1994 e quello della colpa generica nell’aver acconsentito alla prassi di lasciare le chiavi di accensione dei mezzi attaccate al quadro elettrico, così da non impedire a chi lo volesse l’uso indiscriminato delle macchine.

La Corte di primo grado (Tribunale di Verbania) ha dichiarato gli imputati colpevoli condannandoli alla pena di sei mesi di reclusione e disponendo in ordine alle spese e danni in favore delle costituite parti civili, mentre la Corte di secondo grado (Corte d’Appello di Torino) investita dell’impugnazione da parte degli imputati, ne ha ritenuto la carenza di responsabilità in ordine sia ai profili di colpa specifica che a quelli di colpa generica.

Secondo la Corte d’Appello, per quanto riguarda il profilo della colpa specifica da difetto di informazioni, il lavoratore, assunto con mansioni di elettricista, era stato bene edotto, alla stregua di tutti gli altri, dei rischi connessi alla propria attività, di cui in nessun caso faceva parte la guida di alcuna macchina, e meno che mai di macchine tipiche di cantiere, quale quella alla cui guida si era verificato l’infortunio mortale.

Avverso quest’ultima sentenza è proposto ricorso per Cassazione.

Il percorso logico giuridico della Corte di Cassazione si sviluppa dall’esame del fatto all’origine dell’incidente, così come emerso e “cristallizzato” nel corso del giudizio della Corte d’Appello.

Orientamento consolidato è che la disciplina legislativa va sempre assoggettata ad una interpretazione ragionevole; e pertanto ragionevole è che il dovere di informazione concerne i rischi cui è esposto il singolo lavoratore nell’ambito delle sue specifiche mansioni (sia pure con riferimento alle operazioni a lui non direttamente affidate ma che comunque in qualche modo interessino la sfera di quelle), con esclusione, quindi, di ogni altro settore che comunque rimanga estraneo al campo di azione nel quale si esplicano le mansioni di sua specifica competenza.

Secondo la Corte di Cassazione, l’iniziativa di cui sopra del lavoratore di mettersi alla guida di un mezzo per il quale non era in alcun modo prevista la sua competenza e per la guida del quale non era stato in alcun modo addestrato, ha assunto quel carattere di imprevedibilità idoneo ad interrompere la serie causale, in modo tale da escludere la responsabilità degli imputati.

Di maggiore interesse risulta forse la seconda parte delle motivazioni della sentenza, nella quale la Corte di Cassazione approfondisce i profili di colpa generica che secondo i ricorrenti erano ravvisabili nella condotta degli imputati.

La Corte di Cassazione ha confermato la correttezza della sentenza impugnata, laddove aveva “escluso la colpa generica degli imputati, i quali, acconsentendo alla prassi di lasciare sempre inserite nel quadro di avviamento le chiavi dei vari mezzi, non hanno posto in essere alcuna condotta rimproverabile, posto che tutti i lavoratori erano a conoscenza del divieto di adoperare macchine non a loro espressamente affidate. Anzi, la circostanza del rifiuto, in una occasione, manifestato al lavoratore poi deceduto nell’incidente, di adoperare quello specifico carrello elevatore con la motivazione di non essere stato addestrato all’uso, rendeva logicamente ancor più imprevedibile la sua inopinata decisione di porsene alla guida, affrontando un percorso peraltro particolarmente ripido ed assolutamente inagibile a quel tipo di macchina”.

Ma agli imputati non può nemmeno essere addebitato il profilo di colpa generica per aver violato il dovere di presenza costante sul luogo di lavoro, come conseguenza specifica della posizione di garanzia e del debito di sicurezza previsto anche dall’articolo 2087 Codice Civile.

Secondo la Cassazione, occorre ricorrere al principio secondo il quale “ad impossibilia nemo tenetur”, concreta esplicazione del principio generale di ragionevolezza e di esigibilità della prestazione. Alla luce di questo principio tale obbligo va inteso nel senso che i soggetti tenuti debbono assicurare, più che la presenza fisica che non è in se necessariamente idonea a garantire la sicurezza dei lavoratori, la “gestione” oculata dei luoghi di lavoro mediante l’aver posto in essere tutte le misure imposte normativamente (informazione, formazione, attrezzature idonee e presidi di sicurezza), nonché ogni altra misura idonea, per comune regola di prudenza e di diligenza, a garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro.

Dato che la Corte d’Appello ha dimostrato con motivazione convincente che tali ultime misure erano state tutte poste in essere, anche sotto il profilo della colpa generica la pronuncia della stessa deve essere confermata e il ricorso in Cassazione rigettato.