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Responsabilità penale dei medici e pandemia

Criminal liability of doctors and pandemic
Independence Day, l'astratto a fuoco
Ph. Giacomo Porro / Independence Day, l'astratto a fuoco

Articolo pubblicato nella sezione Orizzonti di diritto del numero 1/2020 della Rivista "Percorsi penali".

 

Il presente lavoro è destinato all’opera collettanea Scalese, G., (a cura di), “Pandemia, necessità e legislazione dell’emergenza”.

 

Abstract

Lo scritto, dopo aver analizzato le cause della “medicina difensiva” e la situazione attuale determinata dal virus, propone una riforma legislativa che limiti la responsabilità dei medici ai soli casi di dolo e di colpa grave.

The work, after analyzing the causes of "defensive medicine" and the current situation caused by the virus, proposes a legislative reform that limits the liability of doctors only to cases of willful misconduct and gross negligence.

 

Sommario

1. Premessa

2. L’involuzione giurisprudenziale

3. La “filiera” della medicina difensiva

4. La ripresa della “filiera” dopo l’esaltante fase degli “eroi in camice bianco” che ha caratterizzato la fase più acuta della pandemia

5. Una possibile soluzione

 

Summary

1. Introduction

2. The jurisprudential involution

3. The "supply chain" of defensive medicine

4. The resumption of the "supply chain" after the exciting phase of the "heroes in white coats" that characterized the most acute phase of the pandemic

5. A possible solution

 

1. Premessa

Nei mesi precedenti, durante la fase di maggior diffusione del virus, si è fatto a livello mediatico un grande sforzo di italica ipocrisia nel dipingere come eroi, addirittura come angeli, gli operatori sanitari, i quali per via delle loro responsabilità professionali hanno avuto il dovere di affrontare il rischio del contagio.

Già all’epoca però era facilmente prevedibile un mutamento di atteggiamento da parte dei mass-media che adesso si sta puntualmente verificando: è ricominciato il trito battage della cosiddetta “mala sanità” che ha infestato per anni l’attività dei mezzi di informazione.

Di fronte a questa alternanza schizofrenica di beatificazioni e demonizzazioni occorre partire da una mera constatazione: i medici non sono martiri per il fatto di aver doverosamente affrontato un rischio legato alla loro difficile professione ma non sono nemmeno dei delinquenti imperiti ai quali addebitare automaticamente la colpa per i decessi dei pazienti.

L’aver per anni criminalizzato la categoria ha determinato il pernicioso fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva” che ha cagionato danni sociali di rilevante portata.

Di questo risultato sono responsabili da un lato la giurisprudenza, dall’altro l’informazione.

Occorre quindi richiamare alla memoria l’involuzione giurisprudenziale che è apparsa ad autorevole dottrina incarnare l’anticostituzionale principio dell’”in dubio contra medicum[1].

 

2. L’involuzione giurisprudenziale

Tale pseudo-principio è stato improvvidamente applicato dalla giurisprudenza negli ultimi decenni.

Fino alla fine degli anni ’70 era invece prevalso un orientamento, ispirato ad una equilibrata visione dei rapporti tra norme civili e norme penali, volto a ravvisare una responsabilità penale medica solo nel caso di dolo o di colpa grave (in quest’ultimo caso con precipuo riferimento all’imperizia). Il fondamento era rappresentato dall’art. 2236 c.c., che con riferimento alla responsabilità del prestatore d’opera dispone testualmente:” Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.”[2]  Anche la Corte costituzionale aveva nel 1973 avallato tale orientamento dichiarando non fondata una questione di legittimità costituzionale per presunta violazione dell’art. 3 Cost. ritenendo che la limitazione della responsabilità alle ipotesi di colpa grave per imperizia come configurata dall’art. 2236 c.c. fosse congrua alla luce del fatto che “… l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito[3].

All’inizio degli anni ’80 si è invece affermato un orientamento di segno opposto volto ad escludere con riferimento alla responsabilità penale l’applicazione del predetto articolo, con la conseguenza di ritenere responsabile il medico anche per colpa lieve[4].

Altri orientamenti contra medicos, in gran parte coevi a quello or ora considerato, si sono sviluppati e successivamente consolidati su vari versanti: a) omesso impedimento della morte del paziente; b) responsabilità del primario; c) responsabilità di tutti i membri dell’équipe[5].

a) Per quanto riguarda il primo, nel corso degli anni la giurisprudenza ha ritenuto configurabile, sia pur con oscillazioni, la responsabilità del medico ai sensi del II comma dell’art. 40 c.p.[6] anche qualora l’intervento terapeutico o diagnostico omesso avesse limitate possibilità di successo[7].

Emblematica in tal senso una sentenza delle Sezioni Unite del 10 luglio 2002[8], che di fronte al contrasto sorto in ordine al livello del coefficiente percentualistico della legge statistica sulla quale basare un’eventuale responsabilità per omesso impedimento dell’evento ha valorizzato coefficienti medio-bassi di probabilità di successo dell’intervento omesso.

b) Nel filone della giurisprudenza contra medicos si ascrive anche l’orientamento volto ad attribuire al primario responsabilità penali per tutti i fatti verificatisi nel reparto da lui diretto, che si riduce in buona sostanza a profilare nei casi nei quali il medico in posizione apicale non abbia mai valutato il paziente una responsabilità oggettiva per la posizione da lui rivestita[9], palliata da poco convincenti affermazioni volte a nascondere questa situazione ricorrendo alla ambigua formula della ”colpa per organizzazione”.

c) Altro orientamento estensivo si registra per quanto riguarda la tendenza ad attribuire in capo a tutti i medici dell’équipe la responsabilità per omesso controllo per l’errore commesso dallo specialista, nel quale il principio di affidamento sulla capacità professionale di quest’ultimo viene quasi sempre disatteso[10].

L’affermarsi di tali orientamenti ha avuto come conseguenza una sorta di proceduralizzazione dell’attività medica: di fronte al rischio di una condanna per omicidio colposo i medici si sono sovente attenuti alla rigida osservanza di protocolli rendendo così meno tempestivo l’intervento terapeutico (ma allontanando il predetto rischio).

Questa situazione nel corso del tempo è divenuta sempre più grave inducendo il Legislatore ad intervenire.

Un primo intervento è stato operato con la L. 8 novembre 2012, n. 189 (c.d. “legge Balduzzi”) che, in buona sostanza, ha escluso la punibilità del medico nel caso di colpa lieve, qualora il sanitario avesse osservato le relative linee-guida[11].

Si trattava però di una disposizione dal sapore ossimorico in quanto nel caso di osservanza di tali linee, che costituiscono delle vere e proprie leges artis, non dovrebbe mai essere configurabile la colpa.

La riforma non ha portato ai risultati sperati, soprattutto per l’aporia or ora evidenziata e per l’ambiguità del concetto di “colpa grave”.

Di conseguenza dopo pochi anni il Legislatore ha avvertito la necessità di intervenire nuovamente con la L. 8 marzo 2017, n. 189 (cosiddetta “legge Gelli”)[12], che ha introdotto nel codice penale l’art. 590 sexies, che al secondo comma prevede l’esclusione della punibilità dell’esercente la professione sanitaria nel caso di imperizia qualora abbia rispettato le linee guida, pubblicate ai sensi di legge[13].  La norma quindi ripropone l’errore di fondo di ritenere in colpa chi abbia rispettato le linee guida, peraltro “procedimentalizzate” dalla stessa legge.

Rispetto alla legge del 2012 che prevedeva la non punibilità di tutte le ipotesi di colpa lieve, la norma attuale prevede la non punibilità solo nei casi di imperizia (sia essa grave o lieve) in presenza delle predette (ossimoriche) condizioni.

Le reazioni della giurisprudenza di fronte a questa ulteriore riforma sono state contraddittorie portando ad un conflitto interpretativo, risolto dalle Sezioni Unite con la sentenza 21 dicembre 2017, n. 8770[14].

Si tratta di una sentenza emblematica dello stato attuale dei rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario in quanto l’interpretazione nomofilattica si è risolta in buona sostanza in una limitazione della voluntas Legislatoris, ritenendo punibile anche nel caso di rispetto delle linee guida la colpa grave da imperizia, ponendosi così contro il tenore testuale dell’art. 590 sexies c.p.

Quindi da questa interpretazione limitatrice si è delineata una situazione peggiore rispetto a quella derivante dalla legge Balduzzi (in base alla quale non venivano puniti tutti i casi di colpa lieve, non solo quello di imperizia).

Inoltre, non sono state tenute in conto le richieste sia del Procuratore generale che della difesa dell’imputato di sollevare questione di illegittimità costituzionale per potenziale contrasto dell’art. 590 sexies con gli artt. 3, 25, 27 e 32 Cost.: in una ipotesi di tal fatta le Sezioni Unite avrebbero dovuto sollevare tale questione invece di “modificare” improvvidamente la volontà del legislatore.

A ciò si aggiunga che non solo la scelta di fondo ma anche le, sia pur eleganti, cadenze argomentative della pronuncia appaiono opinabili.

Innanzitutto per andare contra medicos si invoca, paradossalmente, l’art. 2236 c.c., quello che, come s’è visto supra, una volta veniva invocato dalla giurisprudenza per limitare la responsabilità penale del medico ai soli casi di colpa grave. Ritenendo che tale articolo abbia valenza di “regola d’esperienza” si esclude in base ad esso la non punibilità della imperizia grave.

Ancora più opinabile il richiamo all’art. 12 delle preleggi, che, come è noto, impone nell’interpretazione della legge di attribuire il senso “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” in quanto viene limitato il relativo divieto al solo andare “contro” il significato delle espressioni usate ma non anche all’andare “oltre” tale significato, consentendo quindi una disinvolta disapplicazione del divieto stesso invocando paradossalmente la necessità di giungere ad un “risultato costituzionalmente adeguato” (sic!).

Invece la riforma del 2017 è stata dalle Sezioni Unite fortemente ridimensionata,  violando in questo modo il principio della riserva di legge e quello della separazione dei poteri dello Stato (mediante sostituzione del giudice al Legislatore) nonché il poc’anzi evocato principio di tassatività in quanto, in virtù dell’interpretazione de qua agitur, si finisce per applicare le norme in tema di omicidio colposo e di lesioni colpose in casi di imperizia che il tenore testuale della norma escluderebbe.

Tutta questa situazione, ad onor del vero, è stata determinata anche dalle improprie formulazioni delle norme del 2012 e del 2017 e dall’equivoco di fondo, connotante entrambe le produzioni normative, di ritenere configurabile la colpa nel caso di rispetto delle linee guida. Tuttavia ciò non elide l’opinabilità del risultato prodotto con la sentenza in questione dalle Sezioni Unite, le quali, come qualsiasi giudice, devono mantenersi nell’alveo della Costituzione.

In definitiva, sorge il sospetto che gli orientamenti giurisprudenziali contra medicos rappresentino un caso di populismo penale, sub specie del populismo giurisdizionale[15], in quanto sembra che si siano volute (e si vogliano) assecondare le paure dell’opinione pubblica influenzata dal battage mediatico della “mala sanità”.

 

3. La “filiera” della medicina difensiva

L’involuzione giurisprudenziale evidenziata nel paragrafo che precede costituisce una delle concause della medicina difensiva, che però si unisce ad altre nella catena causale che determina questo preoccupante fenomeno.

In effetti, a ben osservare, si può cogliere una sorta di “filiera” della medicina difensiva che si articola nel seguente modo: a) scandalismo mediatico in tema di “malasanità”;

b) accaparramento di “clienti” da parte di iscritti all’albo degli avvocati; c) orientamenti contra medicos da parte di altri medici nominati consulenti del P.M.; d) rinvii a giudizio talora non ponderati da parte dei G.U.P.; e) giurisprudenza contra medicos considerata nel paragrafo precedente.

Rinviando per quanto riguarda il punto e) a quanto poc’anzi detto, appare utile per comprendere il fenomeno analizzare gli altri passaggi.

  1. Scandalismo mediatico in tema di “malasanità”.

Il primo stadio di questa “filiera” si concreta in una modalità aggressiva e scandalistica di informare (rectius, di disinformare) l’opinione pubblica in ordine ai decessi di pazienti. Per avere ribalta mediatica si ricorre troppo spesso ad una informazione che etichetta come casi di “mala sanità” anche situazioni nelle quali la medicina non è in grado di impedire la morte del paziente.

Partendo dal fallace presupposto che l’ars medica sia in ogni caso in grado di guarire, si alimentano speranze che non sempre sono fondate. È quindi gioco facile nel caso di morte di un paziente ricoverato attribuire l’evento alla colpa dei sanitari.  

A ciò si aggiunge l’ignoranza in materia di molti giornalisti, che porta a valutare le vicende in maniera distorta e contraria ai canoni della scienza. È capitato, ad esempio, di sentir parlare in servizi televisivi di “banale infarto”, espressione del tutto impropria che pone in secondo piano la pericolosità intrinseca di una patologia che anche quando si manifesta in forme meno gravi non può essere banalizzata.

È quindi del tutto evidente che lo scandalismo che anima il battage della “mala sanità” determina la prima fase della “filiera” qui analizzata.

  1. Accaparramento di “clienti” da parte di iscritti all’albo degli avvocati

Una seconda fase è legata al fenomeno, inquietante per chi considera la nobiltà della Avvocatura, della “caccia al parente del morto” che alcuni iscritti all’albo (non meritano la definizione di avvocati) esercitano.

Tramite conoscenze ospedaliere, questi soggetti contattano o fanno contattare i congiunti del defunto profilando un accordo rientrante in quello che veniva definito il “patto lite-quota” (una volta grave infrazione disciplinare per gli avvocati): il “patrocinatore” predispone una denuncia con la quale fa iniziare il procedimento contro il medico; qualora si giunga all’ottenimento di un risarcimento avrà diritto ad una parte; in ogni caso il patrocinato non dovrà “sborsare” denaro.  Si tratta di una prassi, ora purtroppo consentita, che richiama alla mente l’aggressivo modus procedendi di alcuni avvocati statunitensi e che quindi non illustra la categoria.

A seguito di tali accordi inizia il procedimento ed il P.M. normalmente dispone una consulenza tecnica di carattere medico-legale.

  1. Orientamenti contra medicos da parte di altri medici nominati consulenti del P.M.

È in questa fase che entrano in gioco i colleghi dei medici. Molti di questi agiscono con correttezza e quindi formulano consulenze non animate dallo spirito di conquistarsi la fiducia del P.M. al fine di avere ulteriori incarichi. Non tutti però operano in questo modo: vi sono consulenti che ritenendo che colui che esercita l’accusa abbia la libido di dimostrare la propria inflessibilità nei confronti dei medici forniscono pareri forzatamente contra medicos, dando un contributo decisivo alla medicina difensiva.

A ciò si aggiunge che gli esperti in medicina legale non possono avere conoscenze approfondite di altre specializzazioni mediche e quindi se non supportati da specialisti possono errare nelle loro valutazioni.

Chi scrive ricorda un caso nel quale, quando esercitava la professione di avvocato, ebbe a difendere un cardiologo intervenuto quando il paziente era nella fase irreversibile della dissociazione elettromeccanica. Il medico fu rinviato a giudizio in quanto il consulente del P.M. non si era accorto di questo fatto risultante dalla cartella clinica (oppure non sapeva che cosa fosse tale dissociazione…).

Sintomatiche di tale atteggiamento contro i propri colleghi sono, ad esempio, le apodittiche attribuzioni di responsabilità nei confronti dei primari, avallando così il diffondersi di mere responsabilità da posizione.

In ogni caso il P.M. di fronte ad una consulenza nella quale vengono ipotizzate responsabilità dei medici non può non chiedere il rinvio a giudizio.

  1. Rinvii a giudizio talora non ponderati da parte del G.U.P.

Si giunge così all’udienza preliminare.

Sovente il difensore dell’imputato produce una consulenza di parte che contrasta quanto sostenuto dal consulente del P.M. ma raramente il giudice dell’udienza preliminare si perita di valutarla e di approfondire la questione: è più facile disporre il rinvio a giudizio e passare la questione al collega del tribunale monocratico. Naturalmente un atteggiamento del genere crea grandi disagi all’imputato, che per molto tempo, normalmente anni, sarà sottoposto ad un processo penale a scapito della sua tranquillità nello svolgere la professione medica, oltretutto con rischi elevati di condanna alla luce della sopra analizzata giurisprudenza contra medicos.

 

4. La ripresa della “filiera” dopo l’esaltante fase degli “eroi in camice bianco” che ha caratterizzato la fase più acuta della pandemia

Questa “filiera” ha subito una brusca interruzione durante la fase di maggior diffusione del virus.

Probabilmente i mezzi di informazione non avevano tempo da dedicare alla “mala sanità”, presi come sono stati dai preoccupanti bollettini sull’andamento della pandemia. Probabilmente, visto l’impegno in prima linea dei medici contro il morbo, sarebbe parso all’opinione pubblica ingeneroso continuare nel solito battage. Quindi meglio trattare i medici come “eroi”, come “angeli”, cambiando così, con disinvolta immoralità, registro. Questa ipocrita impostazione lasciava però facilmente presagire che una volta passata la fase acuta del fenomeno pandemico sarebbe ricominciato il battage. E così è stato. Da qualche settimana viene dato grande risalto alla costituzione di vari comitati di parenti delle vittime della pandemia ed all’attività di vari studi legali, volte ad ottenere giustizia (e risarcimenti), tanto che il Consiglio nazionale forense in data 2 maggio ha annunciato una attenta vigilanza di tutte le istituzioni forensi per sanzionare speculazioni del dolore da parte di pochi avvocati (rectius, iscritti all’albo).

Inoltre i mezzi di informazione non mancano di dare grande risalto alle iniziative, tutt’altro che riservate, di alcune procure volte ad individuare colpe mediche.

Quindi sta ricominciando la “caccia al medico” e fra poco si sentirà di nuovo parlare quotidianamente di processi a carico di sanitari.

Occorre però chiedersi se responsabilità a titolo di colpa possano essere attribuite per le morti conseguenza del virus.

Per fornire una risposta più approfondita non si può non ripercorrere, sia pur cursoriamente, le fasi della crisi.

Innanzitutto è ormai appurato il ritardo da parte della Cina nel comunicare i dati della pandemia scatenatasi nel suo territorio.

Dal canto suo, l’Organizzazione mondiale della sanità non ha certo brillato per tempestività e visione strategica fornendo inizialmente ai vari Stati indicazioni tardive e sbagliate.

Per quanto riguarda l’Italia, questa situazione di disinformazione internazionale ha tratto in inganno il Governo inducendolo a sottovalutare la situazione. Ne è prova uno spot televisivo del Ministero della Salute, datato 27 febbraio 2020, affidato ad un noto divulgatore scientifico, che equiparava l’infezione da corona-virus ad una semplice influenza, addirittura con minore capacità di diffusione (sic!).

Del resto la ribalta mediatica ha evidenziato in maniera impietosa i limiti della scienza (e degli scienziati): virologi, immunologi, pneumologi et coetera hanno fatto a gara nello smentire le affermazioni dei loro colleghi, rimanendo spesso a loro volta smentiti dallo sviluppo della pandemia.

La mancanza di conoscenza di questo virus ha quindi determinato non solo le brutte figure di guru della scienza ma, è quel conta, l’incertezza assoluta in ordine alle terapie da adottare.

Ciò spiega il dramma vissuto nei reparti di terapia intensiva in quei giorni di marzo e di aprile: mancanza di posti-letto, mancanza di personale con conseguente numero esorbitante di ore di lavoro consecutive, mancanza di dispositivi di protezione individuale, mancanza assoluta di farmaci ad hoc (tuttora persistente) con impiego in via sperimentale di farmaci concepiti per altre patologie, numero spaventoso di decessi (sovente di persone affette da gravi patologie pregresse).

Da questo incontestabile quadro l’unica risposta giuridicamente corretta appare essere quella che esclude la responsabilità del personale sanitario, tranne casi, peraltro eccezionali, di negligenza, imprudenza ed imperizia gravi.

Infatti in questo contesto è mancata l’iniziale prevedibilità del diffondersi di questo virus connessa all’ignoranza (tuttora in gran parte persistente) sulle sue caratteristiche. È quindi evidente che in qualunque modo venga inquadrata la prevedibilità dell’evento nella dogmatica della colpa resta fermo il fatto che non è configurabile una colpa riferita ad un evento imprevedibile.

Per via di tale situazione mancano anche adesso linee-guida per poter curare il morbo, essendo solo in fase di sperimentazione farmaci ad hoc mentre si punta tutto sull’elaborazione di efficaci vaccini (anch’essi in fase di sperimentazione). Mancano quindi leggi scientifiche di copertura in base alle quali imputare l’evento indesiderato ai sensi del II comma dell’art. 40 c.p. e manca, in buona sostanza, il potere scientifico di impedire l’evento[16], con conseguente venir meno dell’obbligo giuridico di impedirlo.

A ciò si aggiunga che la carenza dei respiratori e dei posti-letto nei reparti di terapia intensiva hanno in molti casi escluso il potere personale di impedire l’evento in capo ai singoli medici[17] ed anche questo aspetto determina il venir meno del relativo obbligo di impedimento.

Di fronte ad una situazione di tal fatta verrebbe quindi spontaneo concludere nel senso di ritenere assurda l’attribuzione di responsabilità non solo ai medici ma anche ai pubblici amministratori, tuttavia la giurisprudenza contra medicos sopra vista induce ragionevolmente a temere che una “mala giustizia” possa continuare a svilupparsi in nome del contrasto alla “mala sanità”.

 

5. Una possibile soluzione

Alla luce di questo ragionevole rischio si rende necessario un intervento legislativo ad hoc.

Di questo problema sembrava essersi fatto carico il Legislatore in quanto in sede di conversione in legge del D.L.  n. 18 del 2020 (c.d. “decreto cura Italia”) erano state presentate alcune proposte, le quali però non sono state approvate in ossequio ad un becero giustizialismo.

Nonostante ciò, resta improcrastinabile la ricerca di una soluzione normativa, non solo con riferimento alla pandemia ma più in generale ad ogni forma di responsabilità del personale sanitario e di coloro che debbano affrontare in virtù della loro qualifica decisioni che comportino valutazioni di particolare difficoltà.

A tal fine non occorre fare eccessivi sforzi di fantasia: la soluzione si può agevolmente trarre dall’ordinamento giuridico italiano volgendo mente al sopra citato art. 2236 c.c., una volta usato lodevolmente dalla giurisprudenza per limitare la responsabilità penale dei medici ai soli casi di dolo e di colpa grave ma di recente, come s’è visto, usato in maniera paradossale dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione contro i medici.

Si potrebbe agevolmente, trasferirne mutatis mutandis il contenuto nell’art. 590 sexies c.p. eliminando l’ossimorica condizione del rispetto delle linee-guida che finisce per vanificarne la portata.

Inoltre bisognerebbe fornire una definizione di “colpa grave” che senza la pretesa di risolvere tutti i problemi conferisca però maggiore determinatezza alla norma, in modo da limitare il rischio di arbìtri interpretativi.

In tale ottica occorrerebbe indicare alcuni criteri di valutazione, peraltro individuati anche in alcune sentenze: il livello di complessità del caso, l’esperienza del sanitario ed il suo grado di specializzazione, l’eventuale livello di stanchezza, il carattere di urgenza dell’intervento terapeutico che contrae i tempi decisionali aumentando il rischio di errori, il grado di mancato rispetto delle linee guida.

In conclusione, si profilano in virtù dei fondi europei interventi a favore della sanità, tuttavia l’intervento più urgente da porre in essere è quello or ora proposto al fine di limitare la responsabilità dei medici in modo da conferire loro una tranquillità che la “mala giustizia” sopra evidenziata attualmente non consente.

 

[1] In tal senso: Crespi, Medico-chirurgo, in Dig. disc. Pen., VII, Torino, 1993, 589 ss.

[2] Sul punto v.: Crespi, op. cit., pp. 595 ss.

[3] Corte cost., 28 novembre 1973, n.166, in www.cortecostituzionale.do.

[4] In tal senso: Cass., sez. IV, 22 ottobre 1981, in Foro it.,1982, II, p. 268.

[5] Sul punto sia consentito il rinvio a Ferrante, M.L., Gli obblighi di impedire l’evento nelle strutture sanitarie complesse, Napoli, 2005, pp. 1 ss.

[6] Il II comma dell’art. 40 c.p. dispone testualmente: “Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.

[7] Sul punto sia consentito rinviare a: Ferrante, M.L., op. cit., pp. 5 ss.

[8] Cass., S.U., 10 luglio 2002, n. 27, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, pp. 1133 ss.

[9] Sul punto sia consentito il rinvio a. Ferrante, M.L., op. cit., pp. 23 ss.

[10] Sul punto sia consentito il rinvio a. Ferrante, M.L., op. cit., pp. 20 ss.

[11] L’art. 3, comma 1, della L. 8 novembre 2012, n. 189, disponeva testualmente: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve…

[12] Su tale legge si consideri. Iadecola, Qualche riflessione sulla nuova disciplina della colpa medica per imperizia nella legge 8 marzo 2017, n. 24 (legge c.d. Gelli-Bianco), in www.penalecontemporaneo.it, 13 giugno 2017, pp. 1 ss.

[13] L’art. 590 sexies, comma 2, dispone testualmente: “Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto”.

[14] Cass., S.U., 21 dicembre 2017, in Guida al diritto, n. 4, 2018. Su tale sentenza si consideri, ex multis: Cupelli, L’art. 590 sexies c.p. nelle motivazioni delle sezioni unite : un’interpretazione “costituzionalmente conforme” dell’imperizia medica (ancora punibile), in www.penalecontemporaneo.it, 1 marzo 2018, pp. 1 ss..

[15] Ad avviso di chi scrive il “populismo penale” è ogni fenomeno di influenza distorsiva sul sistema penale determinata dalla ricerca del consenso dell’opinione pubblica, manipolata dai mass media. Nell’ambito di tale categoria si distinguono il populismo legislativo (che è quello che si basa sulla ricerca del consenso dell’elettorato da parte della classe politica e che, se mantenuto nei limiti della Costituzione, è fisiologico ) ed il populismo giudiziario ( che non appare invece fisiologico), nel cui ambito, a seconda del tipo di magistrato, si possono individuare un populismo inquirente ed un populismo giurisdizionale. Sul punto sia consentito il rinvio a. Ferrante, M.L., L’osservanza perduta. Violazioni della Costituzione in materia penale, Roma, 2018, pp. 203 ss.

[16] Su tale potere sia consentito il rinvio a: Ferrante, M.L., op. cit., pp. 109 ss.

[17] Su tale potere sia consentito il rinvio a: Ferrante, M.L., op. cit., pp. 112 ss.