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Riflessioni ad alta voce sul management didattico universitario

Luci, ombre e nuove, possibili luci
management didattico
management didattico

Gli anni che hanno sancito la fine dello scorso millennio e l’inizio di quello nuovo sono stati contraddistinti, in ambito accademico, da una notevole attenzione rivolta al management didattico da parte degli addetti ai lavori, che guardavano ad esso come alla panacea in grado di risolvere i problemi endemici dell’università, quali un’autoreferenzialità incapace di gestire il cambiamento, la farraginosità dell’apparato burocratico, la difficoltà di comunicazione tra i vari livelli.

All’epoca si riteneva che lo sdoganamento del management didattico, legato all’auspicata predisposizione di un apparato gestionale competitivo ed efficiente, avrebbe rappresentato un volano della crescita del sistema universitario.

L’entusiasmo iniziale suscitato dalle iniziative di sperimentazione Campus, tra il 1995 e il 2000, e CampusOne, negli anni immediatamente successivi, che di fatto hanno introdotto la funzione del management didattico universitario, ci hanno condotto da una fase di effervescenza creativa che ha trovato terreno fertile nel principio autonomistico dell'amministrazione universitaria, in fase embrionale in quel periodo ma già foriero di grandi entusiasmi, alla fase attuale in cui si percepisce, soprattutto da parte di coloro che quotidianamente lavorano sul campo per supportare la didattica, la preoccupazione che l’istanza di management sia passata in subordine nell’ambito delle azioni poste in essere dal contesto accademico nazionale.

In effetti quel volano percepito a cavallo tra i due secoli e impersonificato dal manager didattico è stato poi, nella realtà dei fatti, oppresso da un carico amministrativo e burocratico non indifferente, dall’onere di presidiare una moltitudine di azioni e condannato a destreggiarsi tra mansioni e livelli di intervento spesso distanti tra loro, a volte meramente esecutivi, inducendo, per certi aspetti, la dissipazione del suo potenziale innovativo.

Si percepisce in modo netto, anche in seguito all’introduzione dell’azione riformista, l’impatto che innumerevoli vincoli e “indigeste” prescrizioni hanno procurato al sistema, complicando la gestione dell’autonomia universitaria e riducendo drasticamente la dimensione della responsabilità.

Per alcuni ci troviamo dinnanzi al presagio dell’“eutanasia del management didattico”, derivante da una funzione incerta e non sempre riconosciuta, da un ruolo aleatorio e ibrido. È davvero così?

Personalmente non ne sono convinto, mentre diversi sono i sintomi che conducono a riflettere sul fatto che probabilmente è il compito stesso del manager didattico a non essere stato compreso del tutto, forse fin dai primi anni.

La consuetudine negli stili gestionali, le esigenze contingenti, a volte persino le emergenze, la volontà di assicurare l’efficacia, le difficoltà comunicative tra le varie funzioni, l’esigenza di adeguarsi a degli standard di gestione hanno spesso contribuito a creare maggiore dissipazione, con il rischio di rinchiudere un sistema di management didattico, insieme all’identità di chi lo gestisce, nella morsa dell’abitudine, depotenziando la sua intrinseca dinamicità e la sua portata innovativa.

Se è vero che il management didattico rappresenta un complesso dispositivo gestionale teso a favorire una progettazione strategica dei processi formativi e un’erogazione, ad alto livello qualitativo, dei servizi offerti a livello universitario, è altrettanto vero che il management necessita di fondarsi sulla competenza e sul compito e, pertanto, non può prescindere da un atteggiamento proattivo e dall’effettivo esercizio della responsabilità basata su una leadership in grado di sollecitare competenze e iniziative che spingano verso la progettazione partecipata delle azioni da mettere in atto per il conseguimento degli obiettivi.

Il piano dell’efficacia, senza fronzoli, deve indissolubilmente legarsi all’azione del manager didattico e rappresenta il nucleo fondante del suo compito, in un contesto organizzativo in cui le funzioni siano distribuite e non accentrate al vertice. E poi occorre meno prescrittività e maggiore normatività, dal momento che l’assetto manageriale di un’organizzazione formativa è preposto a fornire criteri di regolazione e a garantire congruità degli obiettivi per il raggiungimento dei risultati attesi, e quindi non opera in chiave prescrittiva, bensì prospetta quadri di orientamento, delinea modelli per la gestione, garantisce supporto ai compiti istituzionali in un quadro di ampia partecipazione tra le parti interessate.

I manager didattici, in quanto persone, sono portatrici sia di una pluralità di stili comportamentali, relazionali e professionali, sia di articolate modalità adattative e di risposta all’ambiente, e il management didattico si realizza all’interno di organizzazioni formative che, per loro natura, risultano imprevedibili, in un certo senso sfuggenti e, soprattutto, in perenne trasformazione. È un equilibrio reso ancora più instabile dal fatto che gli stessi risultati attesi da un sistema di management didattico, rispetto alle azioni messe in atto per provocarli, non sono mai certi, ma soltanto probabili e, perciò, si possono stabilire le condizioni per un loro ottenimento, ma non si possono predeterminarle a monte.

Rimango convinto che il management didattico abbia bisogno, più che mai in questa fase, di liberare potenzialità ancora inespresse e di definire la propria identità nell’ambito di dimensioni funzionali pertinenti, che privilegino la sfera progettuale, aprendo al possibile e al virtuale, contribuendo a supportare il cambiamento dell’università e lo sviluppo in direzioni che vadano oltre alle oggettive contingenze del contesto, in chiave di progresso continuo.

Un manager didattico come professionista rigoroso e, allo stesso tempo, in grado di osare, per certi versi visionario, capace di ritagliarsi uno spazio tra reale e virtuale e di adoperarsi per potenziare la propria azione e per sostenere la progettualità formativa dell’università.