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Risarcimento in forma specifica e tutele del concorrente che chieda ed ottenga l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione disposta in favore di altri

Il risarcimento in forma specifica rappresenta insieme al risarcimento per equivalente, uno dei modi attraverso i quali il danno può essere risarcito. Si tratta quindi di una forma alternativa al risarcimento per equivalente.

Il risarcimento in forma specifica tutela il danneggiato attraverso la eliminazione del danno o meglio con la rimozione della fonte e delle conseguenze dello stesso, tramite il riconoscimento al medesimo, di tornare allo status quo ante. Infatti, nel nostro ordinamento per risarcimento in forma specifica si intende in linea generale quel risarcimento diretto a garantire all’interessato, di conseguire la stesse utilità garantite dalla legge, e non invece – come nel risarcimento per equivalente- un ristoro in termini monetari. Ne discende che il contenuto del rimedio in oggetto è atipico perché varia a seconda del pregiudizio sofferto.

Norma generale è l’art. 2058 c.c., ai sensi del quale il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga sol per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il creditore.

Per questi motivi il risarcimento in forma specifica rientra tra i rimedi satisfattori, perché rappresenta l’attuazione della posizione soggettiva di cui è portatore il danneggiato.

Taluni autori e una parte della giurisprudenza, per il particolare modo di atteggiarsi di questo rimedio, lo hanno identificato con il rimedio reintegratorio che assume caratteristiche diverse rispetto al rimedio risarcitorio(significativa è la tendenza ad usare il rimedio del 2058 per la reintegra nel possesso). Giova infatti evidenziare che mentre il rimedio reintegratorio, che comprende le misure restitutorie, ripristinatorie, inibitore, è diretto alla rimozione dell’ostacolo all’esplicazione della posizione soggettiva dell’interessato, il rimedio risarcitorio è possibile solo in presenza di un danno e di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, di cui colpa, dolo responsabilità oggettiva a seconda delle diverse fattispecie.

Tuttavia la natura risarcitoria del rimedio di cui all’art. 2058, viene sostenuto dalla maggioranza della dottrina e della giurisprudenza che fanno leva essenzialmente su due argomenti. Il primo valorizza la dizione di “risarcimento” contenuto nel testo dell’art. 2058, in base alla convinzione secondo cui la rubrica di un articolo – nel caso di specie reintegrazione in forma specifica – non avrebbe valore normativo e quindi interpretativo. In secondo luogo si attribuisce peso alla collocazione della norma nell’ambito dei fatti illeciti che si occupano come è noto del risarcimento e di conseguenza non potrebbero disciplinare istituti non risarcitori.

La stessa locuzione reintegrazione informa specifica è utilizzata in ambito amministrativo, sia in ambito di giurisdizione esclusiva, all’art. 35 d. lgs. 80/1998, che di giurisdizione generale di legittimità dall’art. 7 legge tar, come novellata dalla legge 205 del 2000. L’amministrazione ai sensi di tali articoli può essere condannata al risarcimento del danno anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, rendendo possibile così una condanna dell’amministrazione ad un facere ad un dare o ad un prestare specifico.

Nel silenzio della legge che si limita a statuire la sola possibilità di un risarcimento in forma specifica, gli interpreti sono orientati nel senso di riconoscere l’applicazione in ambito amministrativo della disciplina di cui agli articoli 2058 e 2933 c.c. per i quali questa tutela può essere disposta solo se richiesta dal danneggiato e nei limiti della eccessiva onerosità.

Occorre precisare che questa modalità ripristinatoria presuppone l’esistenza in capo al soggetto di una posizione soggettiva della quale si richiede la restituzione in forma specifica, sicché la sua ammissibilità deve essere coordinata con la tradizionale duplice categoria di interessi legittimi pretensivi ed interessi legittimi oppositivi.

I primi postulano in capo all’interessato la titolarità di un bene della vita collegato all’interesse legittimo leso per cui la sentenza che annulla il provvedimento, ha un effetto caducatorio ripristinatorio, produttiva della medesima situazione giuridica di quella che si sarebbe avuta se l’atto non fosse mai stato emanato.

Nella ipotesi in cui l’annullamento del provvedimento non soddisfa il ricorrente perché sono stati dall’atto prodotti alcuni effetti che non possono essere eliminati con l’effetto caducatorio, il giudice può ordinare di rimuovere tali effetti, con il risarcimento in forma specifica, salvo il limite della eccessiva onerosità, come nel caso di occupazione d’urgenza illegittima, quando la pubblica amministrazione ha realizzato delle opere sul fondo che rendono lo stesso inservibile.

Se invece il ricorrente è portatore di un interesse legittimo pretensivo, la sua posizione è tutelata solo attraverso la riedizione del potere da parte delle pubblica amministrazione, perché non è ancora titolare del bene della vita, al conseguimento del quale l’interesse legittimo si pone come strumentale. Per cui l’annullamento in sede giurisdizionale non è per il ricorrente pienamente satisfattivo, perché è necessaria al tal fine una pronuncia di condanna dell’Amministrazione, ad emanare il provvedimento richiesto.

In questo ambito il risarcimento in forma specifica ha suscitato maggiori contrasti: infatti mentre il titolare di un interesse oppositivo ha interesse alla consevazione della propria posizione, con l’interesse pretensivo è la pubblica amministrazione che amplia la sfera giuridica del soggetto con l’emanazione del provvedimento richiesto.

Lo strumento di tutela per il portatore di un interesse legittimo sarebbe la reintegrazione in forma specifica. Tale rimedio tuttavia dovrà essere coordinato con le regole del diritto amministrativo, tra cui spicca il principio di riserva di amministrazione.

Si tratta allora di verificare entro quali limiti il giudice amministrativo possa emanare sentenze di condanna reintegratoria nei confronti della pubblica amministrazione.

Occorre preliminarmente osservare che in tema di reintegrazione in forma specifica non si pone il problema della pregiudizialità amministrativa, poiché l’attivazione del risarcimento in forma specifica, presuppone che ci sia stato l’annullamneto dell’atto illegittimo. Opinando diversamente si incorerebbe in una elusione del termine decadenziale.

Sull’ammissibilità del rimedio reintegratorio si sono fronteggiate tre tesi fondamentali volte rispettivamente alcuni a negarla, altri ad ammettere sempre la tutela risarcitoria in forma specifica, in quanto strumento di tutela ammesso dal legislatore per la tutela di interessi legittimi, ad ammetterla altri ancora per la sola attività vincolata della pubblica amministrazione.

La tesi restrittiva sostenuta da una parte della dottrina e da un giurisprudenza minoritaria, ritiene che in mancanza di una espressa previsione normativa il giudice non può imporre alla amministrazione il comportamento da tenere o di emanare un atto con un determinato contenuto. Si tratta di un potere che trova cittadinanza nella sola giurisdizione di merito, per cui il ricorrente che ha ottenuto l’annullamento potrà far valere le sue ragioni solo nel giudizio di ottemperanza. Questo orientamento sostenuto anche da una parte della giurisprudenza sostiene che l’introduzione del risarcimento in forma specifica nel diritto amministrativo, non abilita il giudice a pronunciare l’emanazione di provvedimenti amministrativi, anche se a natura vincolata, quando cioè l’attività della amministrazione è determinata da parametri certi e non opinabili, poiché la reintegrazione in forma specifica trova applicazione solo per gli interessi legittimi oppositivi (es. riconsegna e rimessa in pristino di un bene illeggittimamente sottratto al privato). La tesi in questione si basa su due ordini di considerazioni: in primo luogo sottolinea che il risarcimento in forma specifica come il risarcimento per equivalente, sono rimedi che impongono alla p.a. una prestazione diversa da quella originaria, per cui la p.a. deve emanare il provvedimento che costituisce il contenuto primario della prestazione. Inoltre osserva che i casi in cui il giudice può ordinare un facere alla p.a. sono indicati espressamente dalla legge come l’ipotesi dell’art. 24 della 241 del 1990 sull’ordine di esibizione dei documenti.

Questa teoria afferma che le forme di tutela per il privato portatore di interessi pretensivi, e nella specie il concorrente escluso illegittimamente da una gara è il giudicato demolitorio conformativo che rimuove l’attività amministrativa illegittima e impone la sua rinnovazione.

Se l’interessato rimane privo di tutela anche dopo la ripetizione del procedimento, potrà esperire il ricorso per esecuzione del giudicato che attribuisce al g.a. poteri di merito e pertanto potrà sostituirsi alla p.a., con una pronuncia di risarcimento in forma specifica, in questa giurisdizione ammessa. Questa tesi quindi finisce per ricondurre lo strumento reintegratorio nell’ambito dell’attuazione del giudicato quando è volto a garantire il rilascio del provvedimento di aggiudicazione. Residuale è invece il risarcimento per equivalente, sussidiario rispetto al risarcimento in forma specifica, configurabile quando il conseguimento del bene della vita non è più possibile, con la riedizione della attività amministrativa perchè ad esempio l’appalto è stato in tutto o in parte eseguito.

I sostenitori dell’opposta teoria evidenziano la necessità di superare tale impostazione basata sulla sequenza annullamento-inerzia p.a.-ottemperanza, a seguito dell’evolversi del processo amministrativo, che richiede soluzioni più rapide con l’ordine alla p.a. di adottare un provvedimento.

Anche quest’ultima tesi si presta a facili obiezioni nella parte in cui ammette la possibilità di sindacare le scelte discrezionali della p.a., perché in evidente contrasto con i principi costituzionali di riserva di amministrazione e separazione dei poteri.

La tesi mediana sostenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, allora ammette la condanna dell’amministrazione ad un facere specifico quale quello della adozione di un provvedimento, solo al cospetto di attività vincolata. Alcuni autori si sono spinti fino ad ammettere in presenza di attività vincolata, la possibilità per il giudice di pronunciare una sentenza costitutiva, sostitutiva del provvedimento. A questa posizione si è obiettato che nel nostro sistema amministrativo non è possibile ammettere pronunce di tal genere, perché salvo i casi di giurisdizione di merito l’unica pronuncia costitutiva del giudice amministrativo è quella di annullamento. Infatti sono ammissibili pronunce dichiarative e di condanna, anche ad un facere, non è quindi possibile che il giudice si sostituisca alla p.a. aggiudicando il contratto al concorrente escluso dalla gara.

Altra dottrina sulla considerazione che in presenza di attività vincolata il giudice può adottare pronunce di condanna volte ad accertare la fondatezza della pretesa, ha rilevato che nel nostro ordinamento è stata introdotta l’azione di adempimento, simile all’azione presente nel sistema amministrativo tedesco. A fronte di questa affermazione è stato da altri affermato che non è possibile procedere a tale assimilazione perché le due azioni hanno presupposti e natura diversi, perché il risarcimento si collega ad un danno (come già emarginato), e non alla mera illegittimità del provvedimento.

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte si evince che aderendo all’impostazione prevalente il concorrente escluso dalla gara, titolare di un interesse legittimo pretensivo, avrà ristoro solo se la pronuncia di annullamento verte su attività vincolata della p. a. poiché solo in queste ipotesi il giudice amministrativo potrà condannare la medesima ad un facere.

Nelle altre ipotesi e cioè in presenza di attività discrezionale, il giudice invece non potrà pronunciare alcuna condanna e il concorrente escluso dalla gara, potrà ricevere effettiva tutela solo dopo la riedizione del potere da parte della pubblica amministrazione.

Si è anche osservato che in presenza di attività vincolata il privato potrebbe ottenere una pronuncia di accertamento sostanziale della spettanza del bene della vita con una ordine della p.a. ad un facere che si fonda su un’azione di adempimento in una logica di accertamento-condanna. È quanto si desume dall’art. 21 octies della 241 del 1990 in tema di vizi non invalidanti e dall’art. 2 della stessa legge dopo la riscrittura ad opera del d.l. 35/2005 che estende l’oggetto del giudizio amministrativo sulla fondatezza della pretesa sostanziale.

In questo modo si amplia la sfera delle tutele per il privato, con l’esenzione di tutti i limiti di cui al risarcimento in forma specifica, tra cui in primis l’esistenza di un danno e una verifica di eccessiva onerosità ai sensi dell’art. 2058 comma 2; tali adempimenti non sono invece dovuti in presenza di una esecuzione in forma specifica della prestazione originariamente dovuta in cui rileva il solo limite della impossibilità sopravvenuta.

L’eliminazione del limite della eccessiva onerosità comporta che la parziale esecuzione del contratto non pregiudica il subentro nel contratto del concorrente escluso illegittimamente dalla gara, una folta che abbia visto accertata la fondatezza della pretesa in sede giurisdizionale. Sostiene questo orientamento che a questo punto spetta al ricorrente la scelta tra l’esecuzione del contratto e il risarcimento del danno. Tuttavia se il subentro nel contratto non è praticabile perché obiettivamente impossibile a causa dell’avanzato stato di esecuzione dei lavori, l’unica forma di tutela per il ricorrente è il risarcimento per equivalente.

Nell’ipotesi in cui il ricorrente chieda il subentro nel contratto, si è posto il problema degli effetti dell’annullamento ottenuto in sede amministrativa, sulle sorti del contratto concluso tra la l’illegittima aggiudicataria e l’impresa aggiudicatrice.

L’orientamento tradizionale della giurisprudenza è stato nel senso della annullabilità del contratto per sopravvenuto difetto di legittimazione a negoziare, quale conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione, da far valere con specifica domanda dell’amministrazione. Tale soluzione è stata sottoposta a revisione critica perchè eludeva il principio di effettività della tutela nella parte in cui lasciava alla p.a. l’onere di chiedere l’annullamento del contratto. La giurisprudenza ha così posto una serie di alternative al problema al fine di accrescere la effettività della tutela riservata al ricorrente contro l’aggiudicazione della gara.

Una prima tesi ha affermato la nullità del contratto ex art. 1418 c.c. per violazione della norma imperativa della evidenza pubblica; altri invece hanno sostenuto la nullità per mancanza dell’accordo che verrebbe meno a seguito dell’annullamento della aggiudicazione.

Per una ulteriore tesi si è parlato di inefficacia, perchè la aggiudicazione sarebbe un presupposto della stipulazione. In particolare si è fatto riferimento alla caducazione automatica, che comporta la immediata cessazione degli effetti del contratto per il solo effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione, sulla base della connessione funzionale tra la fase pubblicistica e quella privatistica, in analogia con l’istituto privatistico del collegamento negoziale.

I sostenitori di una diversa tesi hanno ricostruito la fattispecie in termini di inefficacia sopravvenuta relativa, che importa la caducazione del contratto non in via automatica, ma per effetto di una iniziativa giurisdizionale dell’interessato. Questo orientamento pone il limite della tutela del terzo in buona fede e della eccessiva onerosità per la pubblica amministrazione della sostituzione del contraente.

Si tratta quindi di un problema che ha visto coinvolte la dottrina e la giurisprudenza. Il dato normativo da cui prendere le mosse è l’art. 244 del codice dei contratti (d. lgs. 163/2006), che riproponendo quanto già affermato nel precedente art. 6 l. 205/00, ha devoluto alla giurisdizione esclusiva tutte le controversie risarcitorie relative alla procedure di affidamento di lavori servizi e forniture, svolte da soggetti che siano tenuti nella scelta del contraente all’applicazione della normativa comunitaria, ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa regionale o statale. Alla giurisdizione del giudice amministrativo che ve dalla fase della determina a contrarre fino alla stipula del contratto, si accompagna la giurisdizione del giudice ordinario sulla fase dell’esecuzione del contratto.

La giurisprudenza, che distingue i vizi del contratto in vizi funzionali (che investono il contratto in specie la risoluzione) che rientrano nella esecuzione del contratto e vizi genetici inerenti alla stipula del contratto (in particolare alle diverse cause di invalidità come la nullità e l’annullabilità), anche dopo la devoluzione della materia degli appalti pubblici alla giurisdizione esclusiva, ne ha riservato la cognizione al giudice ordinario, sulla giustificazione che dopo l’aggiudicazione la p.a. non disporrebbe più del potere autoritativo.

Questa affermazione sul potere della p.a. è stata sottoposta a revisione critica da parte della dottrina, che ha affermato che in tema di procedure di gara la discrezionalità amministrativa è stata erosa dall’intervento della normativa comunitaria che disciplina in dettaglio la modalità di affidamento delle stesse. Questa tendenza porta a considerare i rapporti tra amministrazione e privati sotto un profilo paritario, in linea con l’art. 1 comma 1 bis della L. 241 /1990. In questa prospettiva l’oggetto del giudizio amministrativo, soprattutto per la giurisdizione esclusiva, si sposta dall’atto al rapporto giuridico controverso nel suo insieme. Ciò si desume dalle recenti riforme in tema di azione amministrativa che hanno attribuito il compito al giudice di accertare la fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere in giudizio, secondo la logica propria del giudizio sulla spettanza. Questo spostarsi del giudizio dall’atto al rapporto è corroborato anche dal principio di effettività della tutela che campeggia in ambito comunitario, di assicurare cioè una tutela piena alle situazioni giuridiche soggettive. La stessa effettività di tutela ha portato alle riforme in ambito processuale amministrativo che hanno investito il processo cautelare e di cognizione

Nonostante questa evoluzione la giurisprudenza della cassazione ha ultimamente ribadito la giurisdizione del g.o. sulle controversie involgenti la sorte del contratto, riproponendo ancora lo schema del doppio binario, perchè trattasi di domande che involgono la fase dell’esecuzione del contratto.

Il risarcimento in forma specifica rappresenta insieme al risarcimento per equivalente, uno dei modi attraverso i quali il danno può essere risarcito. Si tratta quindi di una forma alternativa al risarcimento per equivalente.

Il risarcimento in forma specifica tutela il danneggiato attraverso la eliminazione del danno o meglio con la rimozione della fonte e delle conseguenze dello stesso, tramite il riconoscimento al medesimo, di tornare allo status quo ante. Infatti, nel nostro ordinamento per risarcimento in forma specifica si intende in linea generale quel risarcimento diretto a garantire all’interessato, di conseguire la stesse utilità garantite dalla legge, e non invece – come nel risarcimento per equivalente- un ristoro in termini monetari. Ne discende che il contenuto del rimedio in oggetto è atipico perché varia a seconda del pregiudizio sofferto.

Norma generale è l’art. 2058 c.c., ai sensi del quale il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga sol per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il creditore.

Per questi motivi il risarcimento in forma specifica rientra tra i rimedi satisfattori, perché rappresenta l’attuazione della posizione soggettiva di cui è portatore il danneggiato.

Taluni autori e una parte della giurisprudenza, per il particolare modo di atteggiarsi di questo rimedio, lo hanno identificato con il rimedio reintegratorio che assume caratteristiche diverse rispetto al rimedio risarcitorio(significativa è la tendenza ad usare il rimedio del 2058 per la reintegra nel possesso). Giova infatti evidenziare che mentre il rimedio reintegratorio, che comprende le misure restitutorie, ripristinatorie, inibitore, è diretto alla rimozione dell’ostacolo all’esplicazione della posizione soggettiva dell’interessato, il rimedio risarcitorio è possibile solo in presenza di un danno e di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, di cui colpa, dolo responsabilità oggettiva a seconda delle diverse fattispecie.

Tuttavia la natura risarcitoria del rimedio di cui all’art. 2058, viene sostenuto dalla maggioranza della dottrina e della giurisprudenza che fanno leva essenzialmente su due argomenti. Il primo valorizza la dizione di “risarcimento” contenuto nel testo dell’art. 2058, in base alla convinzione secondo cui la rubrica di un articolo – nel caso di specie reintegrazione in forma specifica – non avrebbe valore normativo e quindi interpretativo. In secondo luogo si attribuisce peso alla collocazione della norma nell’ambito dei fatti illeciti che si occupano come è noto del risarcimento e di conseguenza non potrebbero disciplinare istituti non risarcitori.

La stessa locuzione reintegrazione informa specifica è utilizzata in ambito amministrativo, sia in ambito di giurisdizione esclusiva, all’art. 35 d. lgs. 80/1998, che di giurisdizione generale di legittimità dall’art. 7 legge tar, come novellata dalla legge 205 del 2000. L’amministrazione ai sensi di tali articoli può essere condannata al risarcimento del danno anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, rendendo possibile così una condanna dell’amministrazione ad un facere ad un dare o ad un prestare specifico.

Nel silenzio della legge che si limita a statuire la sola possibilità di un risarcimento in forma specifica, gli interpreti sono orientati nel senso di riconoscere l’applicazione in ambito amministrativo della disciplina di cui agli articoli 2058 e 2933 c.c. per i quali questa tutela può essere disposta solo se richiesta dal danneggiato e nei limiti della eccessiva onerosità.

Occorre precisare che questa modalità ripristinatoria presuppone l’esistenza in capo al soggetto di una posizione soggettiva della quale si richiede la restituzione in forma specifica, sicché la sua ammissibilità deve essere coordinata con la tradizionale duplice categoria di interessi legittimi pretensivi ed interessi legittimi oppositivi.

I primi postulano in capo all’interessato la titolarità di un bene della vita collegato all’interesse legittimo leso per cui la sentenza che annulla il provvedimento, ha un effetto caducatorio ripristinatorio, produttiva della medesima situazione giuridica di quella che si sarebbe avuta se l’atto non fosse mai stato emanato.

Nella ipotesi in cui l’annullamento del provvedimento non soddisfa il ricorrente perché sono stati dall’atto prodotti alcuni effetti che non possono essere eliminati con l’effetto caducatorio, il giudice può ordinare di rimuovere tali effetti, con il risarcimento in forma specifica, salvo il limite della eccessiva onerosità, come nel caso di occupazione d’urgenza illegittima, quando la pubblica amministrazione ha realizzato delle opere sul fondo che rendono lo stesso inservibile.

Se invece il ricorrente è portatore di un interesse legittimo pretensivo, la sua posizione è tutelata solo attraverso la riedizione del potere da parte delle pubblica amministrazione, perché non è ancora titolare del bene della vita, al conseguimento del quale l’interesse legittimo si pone come strumentale. Per cui l’annullamento in sede giurisdizionale non è per il ricorrente pienamente satisfattivo, perché è necessaria al tal fine una pronuncia di condanna dell’Amministrazione, ad emanare il provvedimento richiesto.

In questo ambito il risarcimento in forma specifica ha suscitato maggiori contrasti: infatti mentre il titolare di un interesse oppositivo ha interesse alla consevazione della propria posizione, con l’interesse pretensivo è la pubblica amministrazione che amplia la sfera giuridica del soggetto con l’emanazione del provvedimento richiesto.

Lo strumento di tutela per il portatore di un interesse legittimo sarebbe la reintegrazione in forma specifica. Tale rimedio tuttavia dovrà essere coordinato con le regole del diritto amministrativo, tra cui spicca il principio di riserva di amministrazione.

Si tratta allora di verificare entro quali limiti il giudice amministrativo possa emanare sentenze di condanna reintegratoria nei confronti della pubblica amministrazione.

Occorre preliminarmente osservare che in tema di reintegrazione in forma specifica non si pone il problema della pregiudizialità amministrativa, poiché l’attivazione del risarcimento in forma specifica, presuppone che ci sia stato l’annullamneto dell’atto illegittimo. Opinando diversamente si incorerebbe in una elusione del termine decadenziale.

Sull’ammissibilità del rimedio reintegratorio si sono fronteggiate tre tesi fondamentali volte rispettivamente alcuni a negarla, altri ad ammettere sempre la tutela risarcitoria in forma specifica, in quanto strumento di tutela ammesso dal legislatore per la tutela di interessi legittimi, ad ammetterla altri ancora per la sola attività vincolata della pubblica amministrazione.

La tesi restrittiva sostenuta da una parte della dottrina e da un giurisprudenza minoritaria, ritiene che in mancanza di una espressa previsione normativa il giudice non può imporre alla amministrazione il comportamento da tenere o di emanare un atto con un determinato contenuto. Si tratta di un potere che trova cittadinanza nella sola giurisdizione di merito, per cui il ricorrente che ha ottenuto l’annullamento potrà far valere le sue ragioni solo nel giudizio di ottemperanza. Questo orientamento sostenuto anche da una parte della giurisprudenza sostiene che l’introduzione del risarcimento in forma specifica nel diritto amministrativo, non abilita il giudice a pronunciare l’emanazione di provvedimenti amministrativi, anche se a natura vincolata, quando cioè l’attività della amministrazione è determinata da parametri certi e non opinabili, poiché la reintegrazione in forma specifica trova applicazione solo per gli interessi legittimi oppositivi (es. riconsegna e rimessa in pristino di un bene illeggittimamente sottratto al privato). La tesi in questione si basa su due ordini di considerazioni: in primo luogo sottolinea che il risarcimento in forma specifica come il risarcimento per equivalente, sono rimedi che impongono alla p.a. una prestazione diversa da quella originaria, per cui la p.a. deve emanare il provvedimento che costituisce il contenuto primario della prestazione. Inoltre osserva che i casi in cui il giudice può ordinare un facere alla p.a. sono indicati espressamente dalla legge come l’ipotesi dell’art. 24 della 241 del 1990 sull’ordine di esibizione dei documenti.

Questa teoria afferma che le forme di tutela per il privato portatore di interessi pretensivi, e nella specie il concorrente escluso illegittimamente da una gara è il giudicato demolitorio conformativo che rimuove l’attività amministrativa illegittima e impone la sua rinnovazione.

Se l’interessato rimane privo di tutela anche dopo la ripetizione del procedimento, potrà esperire il ricorso per esecuzione del giudicato che attribuisce al g.a. poteri di merito e pertanto potrà sostituirsi alla p.a., con una pronuncia di risarcimento in forma specifica, in questa giurisdizione ammessa. Questa tesi quindi finisce per ricondurre lo strumento reintegratorio nell’ambito dell’attuazione del giudicato quando è volto a garantire il rilascio del provvedimento di aggiudicazione. Residuale è invece il risarcimento per equivalente, sussidiario rispetto al risarcimento in forma specifica, configurabile quando il conseguimento del bene della vita non è più possibile, con la riedizione della attività amministrativa perchè ad esempio l’appalto è stato in tutto o in parte eseguito.

I sostenitori dell’opposta teoria evidenziano la necessità di superare tale impostazione basata sulla sequenza annullamento-inerzia p.a.-ottemperanza, a seguito dell’evolversi del processo amministrativo, che richiede soluzioni più rapide con l’ordine alla p.a. di adottare un provvedimento.

Anche quest’ultima tesi si presta a facili obiezioni nella parte in cui ammette la possibilità di sindacare le scelte discrezionali della p.a., perché in evidente contrasto con i principi costituzionali di riserva di amministrazione e separazione dei poteri.

La tesi mediana sostenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, allora ammette la condanna dell’amministrazione ad un facere specifico quale quello della adozione di un provvedimento, solo al cospetto di attività vincolata. Alcuni autori si sono spinti fino ad ammettere in presenza di attività vincolata, la possibilità per il giudice di pronunciare una sentenza costitutiva, sostitutiva del provvedimento. A questa posizione si è obiettato che nel nostro sistema amministrativo non è possibile ammettere pronunce di tal genere, perché salvo i casi di giurisdizione di merito l’unica pronuncia costitutiva del giudice amministrativo è quella di annullamento. Infatti sono ammissibili pronunce dichiarative e di condanna, anche ad un facere, non è quindi possibile che il giudice si sostituisca alla p.a. aggiudicando il contratto al concorrente escluso dalla gara.

Altra dottrina sulla considerazione che in presenza di attività vincolata il giudice può adottare pronunce di condanna volte ad accertare la fondatezza della pretesa, ha rilevato che nel nostro ordinamento è stata introdotta l’azione di adempimento, simile all’azione presente nel sistema amministrativo tedesco. A fronte di questa affermazione è stato da altri affermato che non è possibile procedere a tale assimilazione perché le due azioni hanno presupposti e natura diversi, perché il risarcimento si collega ad un danno (come già emarginato), e non alla mera illegittimità del provvedimento.

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte si evince che aderendo all’impostazione prevalente il concorrente escluso dalla gara, titolare di un interesse legittimo pretensivo, avrà ristoro solo se la pronuncia di annullamento verte su attività vincolata della p. a. poiché solo in queste ipotesi il giudice amministrativo potrà condannare la medesima ad un facere.

Nelle altre ipotesi e cioè in presenza di attività discrezionale, il giudice invece non potrà pronunciare alcuna condanna e il concorrente escluso dalla gara, potrà ricevere effettiva tutela solo dopo la riedizione del potere da parte della pubblica amministrazione.

Si è anche osservato che in presenza di attività vincolata il privato potrebbe ottenere una pronuncia di accertamento sostanziale della spettanza del bene della vita con una ordine della p.a. ad un facere che si fonda su un’azione di adempimento in una logica di accertamento-condanna. È quanto si desume dall’art. 21 octies della 241 del 1990 in tema di vizi non invalidanti e dall’art. 2 della stessa legge dopo la riscrittura ad opera del d.l. 35/2005 che estende l’oggetto del giudizio amministrativo sulla fondatezza della pretesa sostanziale.

In questo modo si amplia la sfera delle tutele per il privato, con l’esenzione di tutti i limiti di cui al risarcimento in forma specifica, tra cui in primis l’esistenza di un danno e una verifica di eccessiva onerosità ai sensi dell’art. 2058 comma 2; tali adempimenti non sono invece dovuti in presenza di una esecuzione in forma specifica della prestazione originariamente dovuta in cui rileva il solo limite della impossibilità sopravvenuta.

L’eliminazione del limite della eccessiva onerosità comporta che la parziale esecuzione del contratto non pregiudica il subentro nel contratto del concorrente escluso illegittimamente dalla gara, una folta che abbia visto accertata la fondatezza della pretesa in sede giurisdizionale. Sostiene questo orientamento che a questo punto spetta al ricorrente la scelta tra l’esecuzione del contratto e il risarcimento del danno. Tuttavia se il subentro nel contratto non è praticabile perché obiettivamente impossibile a causa dell’avanzato stato di esecuzione dei lavori, l’unica forma di tutela per il ricorrente è il risarcimento per equivalente.

Nell’ipotesi in cui il ricorrente chieda il subentro nel contratto, si è posto il problema degli effetti dell’annullamento ottenuto in sede amministrativa, sulle sorti del contratto concluso tra la l’illegittima aggiudicataria e l’impresa aggiudicatrice.

L’orientamento tradizionale della giurisprudenza è stato nel senso della annullabilità del contratto per sopravvenuto difetto di legittimazione a negoziare, quale conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione, da far valere con specifica domanda dell’amministrazione. Tale soluzione è stata sottoposta a revisione critica perchè eludeva il principio di effettività della tutela nella parte in cui lasciava alla p.a. l’onere di chiedere l’annullamento del contratto. La giurisprudenza ha così posto una serie di alternative al problema al fine di accrescere la effettività della tutela riservata al ricorrente contro l’aggiudicazione della gara.

Una prima tesi ha affermato la nullità del contratto ex art. 1418 c.c. per violazione della norma imperativa della evidenza pubblica; altri invece hanno sostenuto la nullità per mancanza dell’accordo che verrebbe meno a seguito dell’annullamento della aggiudicazione.

Per una ulteriore tesi si è parlato di inefficacia, perchè la aggiudicazione sarebbe un presupposto della stipulazione. In particolare si è fatto riferimento alla caducazione automatica, che comporta la immediata cessazione degli effetti del contratto per il solo effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione, sulla base della connessione funzionale tra la fase pubblicistica e quella privatistica, in analogia con l’istituto privatistico del collegamento negoziale.

I sostenitori di una diversa tesi hanno ricostruito la fattispecie in termini di inefficacia sopravvenuta relativa, che importa la caducazione del contratto non in via automatica, ma per effetto di una iniziativa giurisdizionale dell’interessato. Questo orientamento pone il limite della tutela del terzo in buona fede e della eccessiva onerosità per la pubblica amministrazione della sostituzione del contraente.

Si tratta quindi di un problema che ha visto coinvolte la dottrina e la giurisprudenza. Il dato normativo da cui prendere le mosse è l’art. 244 del codice dei contratti (d. lgs. 163/2006), che riproponendo quanto già affermato nel precedente art. 6 l. 205/00, ha devoluto alla giurisdizione esclusiva tutte le controversie risarcitorie relative alla procedure di affidamento di lavori servizi e forniture, svolte da soggetti che siano tenuti nella scelta del contraente all’applicazione della normativa comunitaria, ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa regionale o statale. Alla giurisdizione del giudice amministrativo che ve dalla fase della determina a contrarre fino alla stipula del contratto, si accompagna la giurisdizione del giudice ordinario sulla fase dell’esecuzione del contratto.

La giurisprudenza, che distingue i vizi del contratto in vizi funzionali (che investono il contratto in specie la risoluzione) che rientrano nella esecuzione del contratto e vizi genetici inerenti alla stipula del contratto (in particolare alle diverse cause di invalidità come la nullità e l’annullabilità), anche dopo la devoluzione della materia degli appalti pubblici alla giurisdizione esclusiva, ne ha riservato la cognizione al giudice ordinario, sulla giustificazione che dopo l’aggiudicazione la p.a. non disporrebbe più del potere autoritativo.

Questa affermazione sul potere della p.a. è stata sottoposta a revisione critica da parte della dottrina, che ha affermato che in tema di procedure di gara la discrezionalità amministrativa è stata erosa dall’intervento della normativa comunitaria che disciplina in dettaglio la modalità di affidamento delle stesse. Questa tendenza porta a considerare i rapporti tra amministrazione e privati sotto un profilo paritario, in linea con l’art. 1 comma 1 bis della L. 241 /1990. In questa prospettiva l’oggetto del giudizio amministrativo, soprattutto per la giurisdizione esclusiva, si sposta dall’atto al rapporto giuridico controverso nel suo insieme. Ciò si desume dalle recenti riforme in tema di azione amministrativa che hanno attribuito il compito al giudice di accertare la fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere in giudizio, secondo la logica propria del giudizio sulla spettanza. Questo spostarsi del giudizio dall’atto al rapporto è corroborato anche dal principio di effettività della tutela che campeggia in ambito comunitario, di assicurare cioè una tutela piena alle situazioni giuridiche soggettive. La stessa effettività di tutela ha portato alle riforme in ambito processuale amministrativo che hanno investito il processo cautelare e di cognizione

Nonostante questa evoluzione la giurisprudenza della cassazione ha ultimamente ribadito la giurisdizione del g.o. sulle controversie involgenti la sorte del contratto, riproponendo ancora lo schema del doppio binario, perchè trattasi di domande che involgono la fase dell’esecuzione del contratto.