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Se i captatori informatici diventano la cartina di tornasole delle nostre libertà fondamentali

Di Monica Senor

 

Articolo

Sono state depositate le motivazioni della sentenza n.26889/16.

È una sentenza miope.

È una sentenza in cui i Giudici di legittimità non analizzano la questione giuridica sottesa al caso in esame nella sua reale portata – in particolare, la potenziale lesione di diritti fondamentali correlata all’inedita invasività dello strumento di indagine utilizzato - ma si limita a giustificare la soluzione adottata, che sembra essere il frutto di una scelta apodittica fatta a monte, sulla scorta di argomentazioni giuridiche desunte da vecchi tracciati normativi e giurisprudenziali.

Il secondo paragrafo della motivazione in diritto, in cui viene fornita una sommaria descrizione tecnica dei captatori informatici e delle loro funzionalità ed una sintesi dei lavori parlamentari in fieri che vorrebbero regolamentarne l’uso, invece di costituire ladoverosa premessa ad una successiva elaborazione concettualedella problematica, rimane fine a se stesso.

Tutto muore con l’incipit del terzo paragrafo in cui il trojan viene tout court qualificato come un normale strumento di intercettazione ambientale. Punto. Fine dei giochi.

Di lì in poi, nulla di nuovo o di innovativo; solo un’acritica riproposizione della giurisprudenza in tema di intercettazioni tra presenti e la conferma, indiscutibile quanto formale, del dato normativo di cui all’art.13, L.203/1991 il quale, in deroga a quanto previsto dall’art.266, comma 2, c.p.p., non richiede, quale pre-requisito di ammissibilità per le intercettazioni nei luoghi di privata dimora, il “fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”.

La conclusione è obbligata: per i procedimenti inerenti delitti di criminalità organizzata è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico anche nei luoghi di privata dimora ex art.614 c.p., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa.

La Corte non ha affrontato la questione sotto il profilo dello strumento di indagine utilizzato, bensì del mezzo di ricerca della prova in cui è stato inquadrato.

Ha esaminato le norme che regolano la protezione del domicilio e quelle che consentono all’Autorità giudiziaria di violarlo, ma non ha minimamente preso in considerazione il fatto, che al di là del domicilio, quello strumento consente di intercettare 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, le persone in qualsiasi posto esse si trovino, fosse anche un luogo pubblico o aperto al pubblico o una privatadimora altrui.

Seguendo il cliché sopra delineato, per sostenere la tesi secondo cui non è necessario individuare con precisione, a pena di inutilizzabilità, i luoghi nei quali le intercettazioni tra presenti debbono essere espletate, i Giudici di legittimità richiamano un filone giurisprudenziale che considera legittimi i decreti che dispongono le intercettazioni dei colloqui dei detenuti con i lorofamiliari senza l’indicazione specifica del luogo da intercettare, ma solo un generico riferimento alle sale colloqui delle casecircondariali di detenzione, con conseguente validità dei decretianche in caso di trasferimento del detenuto in altro carcere dal parte del DAP.

Davvero tali precedenti sono pertinenti ed idonei ad avallare l’uso indiscriminato delle intercettazioni ambientali mediante captatore informatico in ogni dove?

Il principio enunciato dalle Sezioni Unite, purtroppo, ha già mietuto altre vittime.

In un arresto appena depositato (sentenza n.27404/16), la sesta sezione penale della nostra Corte Suprema ha ritenuto legittime le intercettazioni ambientali eseguite nei confronti di soggetti terzi mediante l’attivazione da remoto del microfono del cellulare di un indagato rimasto nelle mani della moglie dopo il suo arresto. Nel caso di specie, i Giudici di legittimità hanno escluso che il G.I.P. avesse rilasciato un’autorizzazione in bianco (excusatio non petita, accusatio manifesta!) sostenendo che, sebbene il decreto facesse riferimento all’esigenza di verificare il ruolo dell’indagato e monitorare le conversazioni tra presenti dallo stesso intrattenute, le intercettazioni dovevano considerarsi riferite al reato e non allaspecifica persona sottoposta ad indagini.

Le sezioni unite non hanno mosso alcun rilievo (non lo aveva fatto neanche la sentenza Musumeci) neppure sul fatto che le intercettazioni ambientali mediante captatore vengonoabitualmente ordinate senza la previa indicazione del dispositivoelettronico in cui verrà installato il captatore.

La sintesi della linea interpretativa tracciata dalla nostra Corte Suprema è dunque la seguente: nessun obbligo, nel decreto autorizzativo, di individuare il dispositivo mobile in cui inoculare il trojan, nessun obbligo di individuare i luoghi in cui intercettare, nessun obbligo di individuare uno specifico indagato da intercettare.

Cosa manca per chiamarla autorizzazione in bianco?

E se si tratta, come di fatto è, di un’autorizzazione in bianco, come può dirsi rispettata la riserva di giurisdizione posta dalla Costituzione a tutela delle nostre libertà fondamentali?

Qui il passaggio si fa delicato.

Se il riferimento costituzionale di copertura è l’art.15 Cost., che tutela l’inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione, quella giurisprudenza non potrà reggere.

Ma se il riferimento invece è l’inviolabilità del domicilio abbiamo un gravissimo vuoto di tutela in quanto l’art.14 Cost. non prevede la doppia riserva di legge e di giurisdizione, ma solo la prima, per cui l’autorizzazione in bianco potrà, purtroppo, essere ritenutasufficiente!

Non solo. L’interpretazione giurisprudenziale del concetto di domicilio ai sensi dell’art.614 c.p. degli ultimi decenni è assai riduttiva: come noto, infatti, la famosa sentenza Prisco (Cass. Pen., Sez. Un., n.26795/2006), confermata da una successiva pronuncia della Corte Costituzionale (n.149/2008) ha stabilito che: “Affinché scatti la protezione dell’art.14 Cost. non basta che un certo comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora, ma occorre altresì che esso avvenga in condizioni tali a renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi”.

Le garanzie di cui all’art.14 Cost. si applicano dunque, secondo lenostre corti superiori, non al domicilio nella sua accezione oggettiva, mutuata dal diritto civile, di cui all’art.614 c.p. (luoghi di privata dimora e sue pertinenze), ma al luogo con cui il soggetto instaura un rapporto stabile (quindi, ad es., non una toilette pubblica) e sempre che il luogo stesso non sia visibile ai terzi (quindi, ad es., non un balcone o un giardino prospiciente sulla pubblica via).

Manco a dirlo, anche questa interpretazione aveva ed ha il fine ultimo di “salvare” degli strumenti di indagine, le c.d. intercettazioni non comunicative, ovverosia le videoriprese senza audio che, infatti, ad oggi, non richiedono l’autorizzazione di un Giudice perché non vengono considerate “forme di comunicazione” ai sensi dell’art.15 Cost.

È evidente che non vi è volontà da parte dei vertici della magistratura di circoscrivere le moderne ed intrusive modalità di indagine di matrice tecnologica all’interno di un perimetro bel delineato di tutela delle libertà fondamentali.

In un mondo in cui, ogni giorno, sentiamo parlare di controllo tecnologico, monitoraggio indiscriminato e sorveglianza di massa, la nostra Corte non menziona mai, nella sentenza in commento, neppure una volta, l’art.8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che protegge i dati personali.

Come ho già scritto in un mio precedente articolo su questa rivista, non è una questione di privacy.

È una questione di tutela del nostro corpo digitale, in un mondo digitale.

Occorre declinare i nostri tradizionali diritti fondamentali - libertàpersonale, domicilio, comunicazione, circolazione ed espressione - alla realtà digitale, altrimenti saremo sopraffatti.

Serve un intervento legislativo, anche a livello costituzionale? Probabile.

Ma serve, soprattutto, che la magistratura sviluppi maggiore sensibilità giuridica in tema di libertà fondamentali nell’era digitale e cominci ad interpretare le norme costituzionali esistenti, nazionali e sovranazionali, in modo più nobile e rispettoso delle garanzie a tutela dei cittadini, invece di evitare l’argomento nascondendosi dietro meschine applicazioni letterali della legislazione ordinaria.

Perché frasi come: “Si può dunque escludere che l’art.14 Cost. …omissis … sia invocabile a prescindere dalle leggi ordinarie in materia di intercettazioni” (cfr. sentenza, pag.12), in cui viene capovolto il basilare principio della rigida gerarchia delle fonti di diritto, non si possono più leggere!

 

Redatto l'8 luglio 2016

Di Monica Senor

 

Articolo

Sono state depositate le motivazioni della sentenza n.26889/16.

È una sentenza miope.

È una sentenza in cui i Giudici di legittimità non analizzano la questione giuridica sottesa al caso in esame nella sua reale portata – in particolare, la potenziale lesione di diritti fondamentali correlata all’inedita invasività dello strumento di indagine utilizzato - ma si limita a giustificare la soluzione adottata, che sembra essere il frutto di una scelta apodittica fatta a monte, sulla scorta di argomentazioni giuridiche desunte da vecchi tracciati normativi e giurisprudenziali.

Il secondo paragrafo della motivazione in diritto, in cui viene fornita una sommaria descrizione tecnica dei captatori informatici e delle loro funzionalità ed una sintesi dei lavori parlamentari in fieri che vorrebbero regolamentarne l’uso, invece di costituire ladoverosa premessa ad una successiva elaborazione concettualedella problematica, rimane fine a se stesso.

Tutto muore con l’incipit del terzo paragrafo in cui il trojan viene tout court qualificato come un normale strumento di intercettazione ambientale. Punto. Fine dei giochi.

Di lì in poi, nulla di nuovo o di innovativo; solo un’acritica riproposizione della giurisprudenza in tema di intercettazioni tra presenti e la conferma, indiscutibile quanto formale, del dato normativo di cui all’art.13, L.203/1991 il quale, in deroga a quanto previsto dall’art.266, comma 2, c.p.p., non richiede, quale pre-requisito di ammissibilità per le intercettazioni nei luoghi di privata dimora, il “fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”.

La conclusione è obbligata: per i procedimenti inerenti delitti di criminalità organizzata è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico anche nei luoghi di privata dimora ex art.614 c.p., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa.

La Corte non ha affrontato la questione sotto il profilo dello strumento di indagine utilizzato, bensì del mezzo di ricerca della prova in cui è stato inquadrato.

Ha esaminato le norme che regolano la protezione del domicilio e quelle che consentono all’Autorità giudiziaria di violarlo, ma non ha minimamente preso in considerazione il fatto, che al di là del domicilio, quello strumento consente di intercettare 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, le persone in qualsiasi posto esse si trovino, fosse anche un luogo pubblico o aperto al pubblico o una privatadimora altrui.

Seguendo il cliché sopra delineato, per sostenere la tesi secondo cui non è necessario individuare con precisione, a pena di inutilizzabilità, i luoghi nei quali le intercettazioni tra presenti debbono essere espletate, i Giudici di legittimità richiamano un filone giurisprudenziale che considera legittimi i decreti che dispongono le intercettazioni dei colloqui dei detenuti con i lorofamiliari senza l’indicazione specifica del luogo da intercettare, ma solo un generico riferimento alle sale colloqui delle casecircondariali di detenzione, con conseguente validità dei decretianche in caso di trasferimento del detenuto in altro carcere dal parte del DAP.

Davvero tali precedenti sono pertinenti ed idonei ad avallare l’uso indiscriminato delle intercettazioni ambientali mediante captatore informatico in ogni dove?

Il principio enunciato dalle Sezioni Unite, purtroppo, ha già mietuto altre vittime.

In un arresto appena depositato (sentenza n.27404/16), la sesta sezione penale della nostra Corte Suprema ha ritenuto legittime le intercettazioni ambientali eseguite nei confronti di soggetti terzi mediante l’attivazione da remoto del microfono del cellulare di un indagato rimasto nelle mani della moglie dopo il suo arresto. Nel caso di specie, i Giudici di legittimità hanno escluso che il G.I.P. avesse rilasciato un’autorizzazione in bianco (excusatio non petita, accusatio manifesta!) sostenendo che, sebbene il decreto facesse riferimento all’esigenza di verificare il ruolo dell’indagato e monitorare le conversazioni tra presenti dallo stesso intrattenute, le intercettazioni dovevano considerarsi riferite al reato e non allaspecifica persona sottoposta ad indagini.

Le sezioni unite non hanno mosso alcun rilievo (non lo aveva fatto neanche la sentenza Musumeci) neppure sul fatto che le intercettazioni ambientali mediante captatore vengonoabitualmente ordinate senza la previa indicazione del dispositivoelettronico in cui verrà installato il captatore.

La sintesi della linea interpretativa tracciata dalla nostra Corte Suprema è dunque la seguente: nessun obbligo, nel decreto autorizzativo, di individuare il dispositivo mobile in cui inoculare il trojan, nessun obbligo di individuare i luoghi in cui intercettare, nessun obbligo di individuare uno specifico indagato da intercettare.

Cosa manca per chiamarla autorizzazione in bianco?

E se si tratta, come di fatto è, di un’autorizzazione in bianco, come può dirsi rispettata la riserva di giurisdizione posta dalla Costituzione a tutela delle nostre libertà fondamentali?

Qui il passaggio si fa delicato.

Se il riferimento costituzionale di copertura è l’art.15 Cost., che tutela l’inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione, quella giurisprudenza non potrà reggere.

Ma se il riferimento invece è l’inviolabilità del domicilio abbiamo un gravissimo vuoto di tutela in quanto l’art.14 Cost. non prevede la doppia riserva di legge e di giurisdizione, ma solo la prima, per cui l’autorizzazione in bianco potrà, purtroppo, essere ritenutasufficiente!

Non solo. L’interpretazione giurisprudenziale del concetto di domicilio ai sensi dell’art.614 c.p. degli ultimi decenni è assai riduttiva: come noto, infatti, la famosa sentenza Prisco (Cass. Pen., Sez. Un., n.26795/2006), confermata da una successiva pronuncia della Corte Costituzionale (n.149/2008) ha stabilito che: “Affinché scatti la protezione dell’art.14 Cost. non basta che un certo comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora, ma occorre altresì che esso avvenga in condizioni tali a renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi”.

Le garanzie di cui all’art.14 Cost. si applicano dunque, secondo lenostre corti superiori, non al domicilio nella sua accezione oggettiva, mutuata dal diritto civile, di cui all’art.614 c.p. (luoghi di privata dimora e sue pertinenze), ma al luogo con cui il soggetto instaura un rapporto stabile (quindi, ad es., non una toilette pubblica) e sempre che il luogo stesso non sia visibile ai terzi (quindi, ad es., non un balcone o un giardino prospiciente sulla pubblica via).

Manco a dirlo, anche questa interpretazione aveva ed ha il fine ultimo di “salvare” degli strumenti di indagine, le c.d. intercettazioni non comunicative, ovverosia le videoriprese senza audio che, infatti, ad oggi, non richiedono l’autorizzazione di un Giudice perché non vengono considerate “forme di comunicazione” ai sensi dell’art.15 Cost.

È evidente che non vi è volontà da parte dei vertici della magistratura di circoscrivere le moderne ed intrusive modalità di indagine di matrice tecnologica all’interno di un perimetro bel delineato di tutela delle libertà fondamentali.

In un mondo in cui, ogni giorno, sentiamo parlare di controllo tecnologico, monitoraggio indiscriminato e sorveglianza di massa, la nostra Corte non menziona mai, nella sentenza in commento, neppure una volta, l’art.8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che protegge i dati personali.

Come ho già scritto in un mio precedente articolo su questa rivista, non è una questione di privacy.

È una questione di tutela del nostro corpo digitale, in un mondo digitale.

Occorre declinare i nostri tradizionali diritti fondamentali - libertàpersonale, domicilio, comunicazione, circolazione ed espressione - alla realtà digitale, altrimenti saremo sopraffatti.

Serve un intervento legislativo, anche a livello costituzionale? Probabile.

Ma serve, soprattutto, che la magistratura sviluppi maggiore sensibilità giuridica in tema di libertà fondamentali nell’era digitale e cominci ad interpretare le norme costituzionali esistenti, nazionali e sovranazionali, in modo più nobile e rispettoso delle garanzie a tutela dei cittadini, invece di evitare l’argomento nascondendosi dietro meschine applicazioni letterali della legislazione ordinaria.

Perché frasi come: “Si può dunque escludere che l’art.14 Cost. …omissis … sia invocabile a prescindere dalle leggi ordinarie in materia di intercettazioni” (cfr. sentenza, pag.12), in cui viene capovolto il basilare principio della rigida gerarchia delle fonti di diritto, non si possono più leggere!

 

Redatto l'8 luglio 2016