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Social network - Cassazione Civile: se diffami il datore di lavoro sui social puoi essere licenziato

Social network - Cassazione Civile: se diffami il datore di lavoro sui social puoi essere licenziato
Social network - Cassazione Civile: se diffami il datore di lavoro sui social puoi essere licenziato

La Corte di Cassazione ha stabilito che una dichiarazione particolarmente offensiva, anche mediante social network, nei confronti dell’immagine aziendale e del suo rappresentante legale può costituire causa legittima di licenziamento per giusta causa, in quanto ravvisabile un’ipotesi diffamatoria della dichiarazione.

 

Il caso

Una lavoratrice postava sulla propria bacheca Facebook un commento offensivo e denigratorio nei confronti dell’azienda per cui lavorava, in cui non figurava espressamente l’identità del rappresentante legale.

Con la sentenza del 12 maggio 2016, la Corte di appello di Bologna respingeva il ricorso in appello presentato dalla ricorrente contro una decisione avversa del Tribunale di Forlì, il quale rigettava il ricorso proposto dalla stessa, volto all’accertamento del licenziamento illegittimo per giusta causa, intimatole il 29 maggio 2012.

La Corte di appello rilevava che la condotta posta in essere dalla ricorrente poteva integrare anche la fattispecie di diffamazione, provocando in tal modo una frattura inevitabile del rapporto fiduciario che aveva portato al licenziamento per giusta causa.

I testimoni, inoltre, escludevano che la ricorrente stesse subendo condizioni di particolare stress relative alle condizioni di lavoro, rendendo vano il tentativo di individuare una giustificazione nella condotta diffamatoria della ricorrente, rilevandosi completamente inutile il rinvio alle prescrizioni emesse dalla Commissione tecnica dell’AUSL di Cesena, che aveva certificato le capacità della lavoratrice, ma con «limitazioni saltuarie relative all’esposizione a situazioni stressanti sul piano psicofisico».

La ricorrente ricorreva contro tale decisione, affermando:

a) la violazione dell’articolo 2119 codice civile, per omessa valutazione dell’elemento soggettivo;

b) difetto di proporzionalità tra infrazione e sanzione, in quanto la condotta frutto di un episodio sporadico;

c) omesso esame della documentazione medica attestante il difettoso stato di salute psichica.

 

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte, innanzitutto, afferma che la valutazione relativa all’intenzionalità della condotta sia stata eseguita in modo corretto, non rilevando alcun difetto di valutazione.

In secondo luogo, la Corte sottolinea che la valutazione della proporzionalità fra infrazione e sanzione viene rimessa al giudice di merito, che deve farsi guidare dalla regola della non scarsa importanza ex articolo 1455 codice civile, pertanto l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solo in presenza di un inadempimento grave degli obblighi contrattuali ex articolo 3 Legge 604/1966, ovvero tale da non consentire la prosecuzione del rapporto, nemmeno in via provvisoria ex articolo 2119 codice civile.

La Cassazione, poi, ribadisce che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di un social network integra la fattispecie di diffamazione, per la potenzialità di raggiungere un numero non determinato di utenti: non si considera, quindi, rilevante la specificazione del nominativo del rappresentante dell’azienda, essendo facilmente identificabile il destinatario.

Quanto all’ultimo motivo del ricorso, non si ritiene decisiva la documentazione prodotta dalla Commissione AUSL di Cesena, il che non costituisce vizio specifico denunciabile per cassazione (l’omesso esame di un fatto che è stato oggetto di discussione tra le parti deve essere decisivo, idoneo a determinare un esito diverso della controversia).

Pertanto, la Corte ha rigettato il ricorso.

(Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 8 febbraio 2018, n. 10280)