Stadi Uniti
Guardateli. Osservateli bene mentre immergono le dita grassocce nell’incarto oleoso delle patatine fritte. Ammirate i loro volti deformati mentre succhiano le ultime gocce di una Pepsi king size seduti sul comodo seggiolino del palazzetto. Studiate quelle camicie a maniche corte macchiate di ketchup e deformate da un taglio comodo per assecondare le loro forme abbondanti.
Se voltate lo sguardo dal campo verso gli spalti degli incontri di NBA, NFL, MLB, NHL e MLS questo vedrete. È il mondo parallelo del pubblico americano, plasmato sul modello dello showbiz: lo sport concepito come intrattenimento, in cui l’acmé della battaglia non vive nel colpo inferto al nemico, ma respira nelle pause dello scontro. In questi attimi, grottesche mascotte zoomorfe sparano verso il pubblico hot dog e magliette celebrative, invadenti kiss-cam inquadrano innamorati forzati a scambiarsi baci più falsi delle partite di regular season.
Ecco cos’è il mito yankee dello sport, prima ancora dei gesti atletici e le dimostrazioni di una superiorità fisica straripante, talvolta persino patetica nel suo essere autoreferenziale. Perché la costruzione dell’entertainment a stelle e strisce passa necessariamente dall’apprezzamento del pubblico, dal fattore ludico che riesce a offrire, in cui la spettacolarizzazione del gesto è più importante della sua reale efficacia.
Non a caso, gli sport primari del Nuovo Mondo sono tutti autoctoni, nati e cresciuti a cavallo tra la East Coast e la West Coast, fedelmente votati al divertimento come essenza primaria. Persino quelli, come la pallacanestro, che ormai hanno una diffusione pressoché globale, negli Stati Uniti vantano regole di gioco peculiari, istituite per rendere ancora più scoppiettante l’esperienza di fruizione.
Un sistema estremamente profittevole anche se spersonalizzato, elevato sempre più spesso ad esempio da adottare, a sentire tutti coloro i quali si lasciano guidare dalla stella polare dei ricavi commerciali. Non a caso, il principale sponsor di una nuova Lega italiana ispirata a quel modello e arroccata nella sua plasticità, è proprio un presidente che di professione fa il cineasta e a certe tipologie di spettacoli è senz’altro avvezzo.
Perché oggi l’usanza tutta italiana e propriamente latina del tifo sboccato e passionale è visto come un demone da allontanare dagli stadi. Meglio popolare i nuovi simulacri dell’intrattenimento di spettatori danarosi e spendaccioni, che ingrassino le tasche dei club investendo in consumazioni e merchandising. Decisamente più adeguati rispetto al manipolo di fedelissimi scalmanati che riempiono i nostri spalti, magneticamente attratti solo dal campo e pronti al massimo a scaldarsi l’animo con un sorso di Borghetti.
Che poi lo sport è sempre riflesso culturale, ed è assolutamente probabile che nemmeno creando le condizioni e il contesto adatto l’italiano medio ceda il passo al tipico consumismo yankee. Perché se in USA l’evento sportivo è solo il contorno di un diversivo, una serata di svago con la famiglia e gli amici, in Italia la partita è ancora un momento sacro e intimo, dove tutte le energie sono rivolte solo all’azione, allo sforzo, al risultato.
Gli stomaci sono contratti, gli intestini attorcigliati nello spasmo della tensione; il corpo rigetta un pasto strutturato, si rifugia al massimo nell’intimità di un sandwich incartato nella stagnola. Meglio ancora, prima o dopo l’incontro, lasciarsi sedurre dal profumo inebriante di un ambulante che vende felicità sotto forma di panini con salamella e cipolla o porchetta e peperoni. Ma mai nel sacro tempio del gioco, magari perdendo un’azione chiave in una partita di calcio.
Ma se lo sport è cultura, ben venga la tradizione tutta italiana del campanile, dello scontro fratricida, fatto di violenza verbale e istinti primordiali. Lì nell’arena, per il tempo di un fischio, nemici con il vicino di casa, rivali ancestrali di un modo di vivere uguale, ma opposto.
Era in fin dei conti lo stesso Churchill a sostenere:
«Gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre».
E allora ben vengano le nostre guerre familiari, le nostre spinte irrazionali e interne verso gli sport che ci appartengono. Smettiamola di chiamare a gran voce stadi modello centri commerciali dello sport che strappano sorrisi ai bilanci ma sviliscono la nostra tradizione.
Chiudiamo una volta per tutte i capitoli aperti alla pagina Superlega, alla Serie A sigillata tra squadre rappresentative di larghi consensi popolari, determinati dal bacino delle piazze, ma non dal merito sportivo. Non adeguiamoci ai salary cap, ai draft e altre amenità studiate a tavolino per favorire la ciclicità dei successi, in modo da rendere partecipi tutti della gioia di una vittoria.
Il bello sta proprio lì: lasciare che i tifosi ricerchino il successo dove credono, in un titolo, in una salvezza strappata all’ultima giornata, o magari anche solo semplicemente nella vittoria di una partita contro il nemico di sempre. Quell’amico vicino e reale al quale il giorno dopo verrà offerto il caffè più amaro della stagione. Viva il campanile, abbasso lo showbiz.