Taccuino marchigiano
Taccuino marchigiano
D’estate, il cielo sulle colline marchigiane ha trasparenze leggere, il colore non si addensa, nella gran vampa resta aereo e lontano. La terra non è mai riarsa, corsi d’acqua nascosti sotto folti orti di verde disegnano gl’inguini, le ascelle dei colli. Le rondini impazzano, in sciami tumultuosi e indaffarati, che ricacciano i pensieri intimiditi. Nel suo “Elogio”, scriveva Leopardi che gli uccelli godono del “paese bello”. E questo, per quanto paia frusto l’aggettivo, è uno dei più belli che serbi l’insozzata Italia: pudico e fiero. Vedi borghi intatti, le due torri a guardia delle creste su cui si snodano le bionde case. Durano i giochi di colore in cui per secoli artigiani senza nome accostarono i mattoni rossi e quelli giallini, che ancora oggi si fanno, come puoi vedere se passi davanti alle ordinate cataste di una fornace: arte povera e minore, che sedusse anche quella ricca e maggiore, come vedrai nella fantastica facciata che Vanvitelli disegnò per San Vito a Recanati. C’è, li vicino, un negozio di scarpe che si chiama “Monaldo”. Per via del padre di Giacomo, conferma una giovane donna, parlando del proprietario, oggi di novant’anni: “ Ma vedesse com’è dritto e fermo”. Di tra le scatole di sandali e scarpe, mi spiega che una volta il paese era pieno di Giacomi e Monaldi, Paoline e Adelaidi. “Ora meno, ma ci si tiene ancora, e come”.
A Palazzo Leopardi, i visitatori hanno arie educate, compunte. Sono quelli di sempre, guidati da soliti ricordi liceali. Un custode li accompagna, dalle finestre della biblioteca la piazza in discesa è come il giorno del “Sabato del villaggio”, la casa del cocchiere padre di Silvia ha ancora le rimesse per le carrozze con le porte dipinte di verde. Anna Leopardi sorveglia biblioteca e memorie, corti e giardini con gravità e letizia. Accoglie in visitatore inatteso con festevolezza familiare: “L’ho tenuto in braccio quand’era piccolo così”: rammenta lontane amicizie, e si avvia alla casa. Solo certe nobildonne sanno aderire con questa naturalezza alla famiglia in cui le nozze le hanno fatte entrare. Dice “Giacomo” senza ostentazione, con un vivo e caldo affetto. Grazie a lei Giacomo è ancora in famiglia, solo fra i grandi a godere di questo privilegio. Nessuno può dire più così, Alessandro o Ugo, Giosue o Giovanni, e neppure Gabriele, a noi così più vicino.
Ecco la camera di Giacomo, la scaletta, la porticina, il corridoio per cui scendeva in biblioteca. Mi sovviene di Giovanni Ansaldo quando vantava il privilegio di nascere “in una casa con una grande biblioteca”. Privilegio che per lui offuscava quelli del ceto e della ricchezza. In queste stanza, da queste finestre, Giacomo si riempì di quelle immagini che venne poi trasformando in arte assoluta. Il suo mondo poetico aveva per centro la sua casa. E’ il segreto di un’arte che, fino alle ultime frontiere dei sentimenti umani, porta un suggello immutabilmente aristocratico. Fate la prova: demagoghi, profeti e pagliacci a Leopardi non ricorrono mai, mai, non lo rivisitano, non lo rileggono, non lo citano neppure, lo lasciano stare.
Jesi distende la rete dei suoi vicoli in salita, su cui s’affacciano finestre rinascimentali in pietra d’Istria, con esortazioni di non invidiare, ricerca il bene, conosci te stesso. Il Palazzo della Signoria che Francesco di Giorgio Martini eresse allo spirare del Quattrocento alza sulle nostre confuse farneticazioni un baluardo di ordine e di pensiero. Della casa di Pergolesi non rimane una pietra, l’ombra dell’arcangelo tormentato rapito a ventisei anni dimora nel teatrino barocco.
Dalla vasta piazza a lui dedicata, si erge l’ombra di Federico II. Costanza d’Altavilla si affrettava per darlo alla luce in Germania, e invece lo scodellò in una delle tende del corteggio imperiale eretta in quella spianata, il 26 dicembre del 1194. L’aria che respiro è la stessa che primo respirò lo “stupor mundi”, come lo battezzò il suo secolo, il più fantastico essere umano che sia nato in Italia dopo l’assassinio di Giulio Cesare. Per un attimo, credo di capire quel che provava Machiavelli quando discorreva con le sue ombre. Federico, l’ultima speranza che ebbe l’Italia. Forse vi pare troppo lontana ma i destini dei popoli si giocano in tempi lunghissimi. Se penso a lui, alla sua sorte, m’invade un’onda di rimpianti e di rancore che ancora m’impedisce di guardare alla Chiesa, al Papato, con distacco e serenità
Mandiamo una cartolina a Orfeo Tamburi, che nacque qui, e filiamo a Maiolati, dove nacque povero e tornò a morire, carico di gloria e di ipocondriaca delusione, Gaspare Spontini. Dopo i trionfi e le principesche dimore di Parigi e di Berlino, di nuovo a Maiolati, nella piccola casa in mezzo al paese, decorata in stile Impero. Accudisce qui, ai ricordi, alla mobilia, ai pianoforti Erard (di Erard, Gaspare aveva spostato la figlia) il falegname Vincenzo Santelli. Quando giungono pellegrini spontiniani, Santelli pianta la bottega e accorre. Spontini tenne a battesimo la sua nonna, “e così, quando s’è mezzo parenti, è un dovere…”. Sa tutto, ricorda tutto, parla di opere e partiture, mostra l’uniforme di Accademico di Francia, i quadri. In devozione e gentilezza, Vincenzo Santelli non è secondo neppure alla contessa Leopardi.
Due saliscendi tra le colline, e siamo a Cupramontana, il paese di Luigi Bartolini; ecco un altro bel tipo di artista marchigiano (anzi, marchegiano, come diceva lui) altero, ipocondriaco e po’ tocco, proprio come Gaspare. Un giorno, s’impegnò con me in un’ardua dimostrazione: “Vede, lei è giovane e certi misteri dell’arte non può ancora penetrarli. Beethoven fu certamente grande, ma non fu grande come Spontini. Perché, poveretto, non era nato nelle Marche. Certo, non fu colpa sua, ma i fatti son questi, e stando così le cose, Spontini è il più grande di tutti”.