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Taranto, il Tribunale Penale conferma che il rivenditore consapevole di prodotti contraffatti risponde anche del reato di ricettazione

La sentenza del 22 luglio 2022
contraffazione
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Con un’importante sentenza depositata il 22 luglio 2022, il Tribunale Penale di Taranto ha condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione per ricettazione (art. 648 c.p.) un rivenditore di prodotti costituenti contraffazione di marchi (e di brevetti).

Il caso riguardava l’importazione in Italia e la rivendita di consumabili e accessori non originali di aspirapolvere della Vorwerk recanti marchi di titolarità di quest’ultima e scritte in lingua tedesca parimenti evocative di tale origine, e costituenti contraffazione anche di alcuni brevetti di titolarità della stessa Vorwerk. I reati di cui il Tribunale ha riconosciuto la sussistenza sono stati anzitutto la contraffazione, sanzionata dall’art. 473 c.p., la frode in commercio di cui all’art. 515 c.p. e la vendita di prodotti industriali con segni mendaci. Una parte significativa della motivazione è dedicata a questi reati, ancorché per gli stessi al momento della sentenza fosse già maturata la prescrizione e quindi non potesse essere emessa una condanna.

Tuttavia questa motivazione è importante perché delinea i rapporti tra queste fattispecie di reato e i presupposti sulla base dei quali esse possono essere tutte punite contemporaneamente (e insieme alla ricettazione).

Anzitutto per quanto attiene alla contraffazione di marchio, la sentenza torna sulla vexata quaestio del c.d. falso grossolano da ritenere non punibile, chiarendo che esso può sussistere solo nei casi assolutamente eccezionali di “imitazione così ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza da non poter ingannare nessuno”, mentre “non incide sul perfezionamento del reato (né in relazione ad esso può parlarsi di reato impossibile) il solo fatto che la grossolanità della contraffazione sia riconoscibile dall’acquirente in ragione delle modalità della vendita, in quanto la tutela della buona fede, apprestata dalla norma, non si rivolge al solo compratore occasionale, ma alla genericità dei soggetti destinatari dei prodotti provenienti dalle imprese titolari dei marchi ed anche alle imprese medesime, che hanno interesse a mantenere certa la funzione del marchio”.

Quanto alla frode in commercio, la sentenza sottolinea che in relazione ad essa “il bene giuridico tutelato va individuato nel leale esercizio e nell’onesto svolgimento del commercio e non nella protezione degli interessi patrimoniali dei singoli acquirenti” e che pertanto “è configurabile il concorso materiale tra il reato di frode nell’esercizio del commercio e quello di vendita di prodotti industriali con segni mendaci ex art. 517 c.p., in quanto gli stessi hanno una diversa obiettività giuridica costituita, per il primo, dalla consegna di «aliud pro alio» con conseguente violazione del leale esercizio dell’attività commerciale e, per il secondo, dalla sola vendita o messa in circolazione del prodotto, indipendentemente dalla consegna, con conseguente violazione dell’ordine economico che deve essere garantito contro gli inganni tesi al consumatore”.

Il concorso è stato invece escluso tra il reato di cui all’art. 473 c.p. e quello di cui all’art. 517-ter c.p., che punisce “Salva l’applicazione degli articoli 473 e 474 chiunque, potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale, fabbrica o adopera industrialmente oggetti o altri beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso”. Infatti, appunto in base alla chiara formulazione di questa norma, il Tribunale ha rilevato che “la fattispecie di cui all’art. 517 ter c.p. ha natura sussidiaria rispetto ai delitti previsti ex art. 473 c.p. (contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli, disegni) e 474 c.p. (introduzione nello stato e commercio di prodotti con segni falsi)”. La disposizione di cui all’art. 517-ter c.p. assume infatti rilievo in presenza di una condotta dolosa che viola un diritto di marchio, brevetto, modello o nuova varietà vegetale senza che tuttavia sussistano i presupposti di cui agli artt. 473 e 474 c.p. e quindi in particolare nei casi di contraffazione non confusoria del marchio, ossia quando la confondibilità è del tutto esclusa, ma vi è tuttavia un agganciamento parassitario o un pregiudizio alla rinomanza o alla distintività del marchio.

Infine – e questa è certamente la parte più significativa della decisione – il Tribunale di Taranto si è occupato del possibile concorso tra contraffazione e ricettazione (reato quest’ultimo per il quale è prevista una pena-base più elevata).

Al riguardo la sentenza ha rilevato che “il rivenditore di prodotti precedentemente contraffatti risponde oltre che del reato di detenzione e vendita di tali beni, anche del reato di ricettazione in quanto tale reato costituisce un presupposto a quello di contraffazione, costituendo il modo mediante il quale il soggetto entra in possesso (tramite l’acquisto o la ricezione) della merce”,

sottolineando che anche in questo caso il concorso materiale tra i due reati è ammissibile “per l’eterogeneità del bene giuridico rispettivamente protetto dalle due norme (l’art. 648 c.p. si pone a presidio del patrimonio, Pari. 474 c.p. tutela – come detto – la fede pubblica) e per la diversità delle fattispecie dal punto di vista oggettivo”, dal momento che “le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore”.

La sentenza non si è invece occupata – così peraltro implicitamente escludendola – dell’applicazione della c.d. “clausola di riparazione”, prevista solo in materia di disegni e modelli, che rende lecita la fornitura di pezzi di ricambio che, ancorché siano coperti da un disegno e modello (nazionale, internazionale o comunitario), costituiscono componenti di un prodotto complesso, quando tale fornitura sia necessaria per ripristinare l’aspetto originario di tale prodotto complesso. In questo caso, in realtà, l’applicazione di tale clausola andava esclusa per una duplice ragione: in primo luogo perché essa opera solo come eccezione alla protezione dei disegni e modelli dunque non consente che venga apposto al ricambio non originale un segno eguale o simile al marchio del titolare, né che questo ricambio possa violare impunemente un brevetto per invenzione; e in secondo luogo perché in realtà i prodotti oggetto del procedimento penale deciso dalla sentenza qui pubblicata erano “consumabili” e come tali non possono essere assimilati ai componenti integranti un dispositivo complesso e non sono soggetti al relativo regime nemmeno in relazione ai disegni e modelli.

Sotto ogni profilo, ci troviamo dunque di fronte ad una sentenza che ha fatto puntuale applicazione dei principî diritto enunciati dalla Suprema Corte di Cassazione italiana (e dalla Corte di Giustizia europea), che indica come il livello di protezione anche penale dei diritti di proprietà intellettuale nel nostro Paese possa essere assolutamente soddisfacente.