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Trattato di economia politica, Jean-Baptiste Say

1803
in attesa
Ph. Cinzia Falcinelli / in attesa
Trattato di economia politica

 

Perché leggere questo libro

L’economista francese Jean-Baptiste Say occupa un posto di primo piano nella storia del pensiero economico.

Durante la prima metà del XIX secolo il suo Trattato di economia politica fu il più influente libro d’economia nell’Europa Continentale e negli Stati Uniti, dove continuò a essere il testo più usato nelle università fino al 1880.

In questa vasta opera, che rappresenta la Summa del pensiero di Say, per la prima volta tutta la scienza economica è stata ordinata in un sistema ordinato e coerente, ed esposta in un linguaggio chiaro e preciso. Sul piano dei contenuti Say afferma l’importanza del risparmio e del capitale; mette in risalto la figura chiave dell’imprenditore; espone la fondamentale “legge degli sbocchi”, che prende il suo nome; spiega i vantaggi di un sistema monetario basato sull’oro; illustra le ragioni della sua ostilità alla tassazione; critica duramente la prodigalità e le spese facili dei governi; difende in maniera rigorosa i principi del liberalismo economico.

 

Riassunto

Oltre Adam Smith

Alcuni considerano erroneamente Jean-Baptiste Say come un mero interprete del pensiero di Adam Smith, ma in realtà l’opera dell’economista francese presenta numerosi aspetti d’originalità, e non di rado anche di superiorità, rispetto a quella del celebrato studioso inglese. L’equivoco nasce dal fatto che Say si proclama seguace di Smith e sostiene di aver semplicemente messo ordine alla Ricchezza delle nazioni, un’opera che egli giudica ingegnosa ma priva di metodo, oscura, vaga e poco scorrevole per le troppe digressioni. L’obiettivo di Say è dunque quello di scrivere un vero testo scientifico di economia politica, che ai suoi tempi ancora mancava.

Say introduce per la prima volta il discorso sul corretto metodo per le scienze economiche. A suo avviso è quello logico e deduttivo: partendo da alcuni fatti generali incontestabilmente riconoscibili come veri, l’economista ragiona per deduzioni, e se sono giusti gli assiomi iniziali sarà corretto tutto ciò che si deduce da essi. L’importante è che questi assiomi si fondino sul «senso comune e l’esperienza universale». Infatti, scrive Say, l’economia, «questa bella e soprattutto utile scienza … non si basa su ipotesi, ma sull’osservazione e l’esperienza» (p. liii).

Say è invece scettico riguardo l’uso della statistica, perché i fatti che raccoglie sono necessariamente incerti, incompleti, inaccurati, imperfetti, e anche quando sono veri «lo sono solo per un istante». Inoltre la statistica trascura i nessi causali. Una descrizione statistica, infatti, «non indica l’origine e le conseguenze dei fatti che ha raccolto» (p. xix). Più in generale, Say pensa che sia impossibile applicare la matematica all’economia a causa dell’enorme numero di fattori vaghi, ignoti e mutevoli. La matematica, in apparenza così precisa e analitica, finisce inevitabilmente per alterare i principi generali e distorcere le conclusioni. 

Nel complesso l’opera di Say si rivela quindi superiore a quella di Smith nella forma espositiva, e più precisa in diversi aspetti del contenuto. Il suo stile di scrittura è limpido e asciutto, senza le lunghe divagazioni del pensatore scozzese; gli argomenti sono ordinati in un sistema basato su produzione, distribuzione e consumo della ricchezza. Dal punto di vista teorico corregge alcuni errori di Adam Smith e David Ricardo, come la teoria del valore-lavoro, sostenendo che l’unica fonte del valore di un bene è la sua utilità, cioè la sua capacità di soddisfare un desiderio del consumatore. Say quindi, malgrado il suo elogio di Smith, si differenzia sotto diversi aspetti dalla scuola classica inglese. La sua difesa del laissez-faire è più convinta e coerente. La sua opera rappresenta piuttosto una prosecuzione della scuola francese di Richard Cantillon e Jacques Turgot.

 

L’importanza del capitale

Say sottolinea il ruolo cruciale del risparmio e del capitale nell’aumento della ricchezza sociale. Più gli uomini dispongono di beni capitali, sotto forma di macchine o strumenti, più il lavoro risulta produttivo. La riduzione dei costi di produzione abbassa infatti anche i prezzi dei prodotti a vantaggio della massa dei consumatori. L’introduzione di nuovi macchinari migliora inoltre la qualità dei prodotti e permette la creazione di nuovi beni che non sarebbero stati realizzabili a livello artigianale. Questo enorme aumento della produzione e dei livelli di vita libera le energie umane dalla lotta per la sopravvivenza, e permette di coltivare le più raffinate arti e facoltà intellettuali.

Il capitale, nelle eloquenti parole di Say, può accrescere all’infinito la potenza dell’uomo: «La crescente ricchezza di un individuo, quando onestamente acquistata e investita nella produzione, lungi dall’essere vista con invidia dovrebbe essere salutata come la fonte della prosperità generale. Dico onestamente guadagnata, perché una fortuna accumulata con la rapina o l’estorsione non aggiunge niente alla ricchezza nazionale; si tratta invece di una porzione di capitale già esistente che viene trasferito dalle mani di un uomo a quelle di un altro uomo, che non ha esercitato alcuna attività … I poteri dell’uomo risultanti dall’accumulo di capitale non hanno limiti, perché non c’è un limite definito a quanto si può accumulare con l’aiuto del tempo, del lavoro e del risparmio» (p. 118).

 

Il ruolo chiave dell’imprenditore

Proprio seguendo la scia di Cantillon e Turgot, Say ha anche il merito di aver reintrodotto nell’economia la figura dell’imprenditore, che nella sua opera Adam Smith aveva reso quasi invisibile. Say lo riporta in vita e lo mette al centro della scena. Gli imprenditori, scrive Say, organizzano e dirigono i fattori di produzione per soddisfare i bisogni umani. Non si limitano però ad amministrare, ma fanno anche previsioni, valutano i progetti e le persone, e si assumono dei rischi. Gli imprenditori, infatti, anticipano i fondi ai fornitori dei mezzi di produzione (capitale, terra, lavoro), ma li recuperano solo se riescono a vendere il prodotto ai consumatori. In questa attività c’è sempre una dose di rischio: l’imprenditore non è mai al sicuro dalle perdite, e anche quando ha successo il suo profitto è sempre moderato dalla concorrenza. Dall’analisi dell’attività imprenditoriale Say trae una conclusione favorevole al laissez-faire: i produttori stessi sono gli unici giudici competenti riguardo la trasformazione, l’esportazione e l’importazione dei vari prodotti, e ogni tentativo del governo di interferire, ogni sistema calcolato per influenzare la produzione, non può che far danni.

La società intera trae vantaggio dai successi imprenditoriali, perché può beneficiare di un nuovo prodotto oppure del miglioramento della qualità o della riduzione del prezzo di un prodotto già esistente. In generale, conclude Say, sono gli imprenditori che fanno ricco un paese: «Un paese ben fornito di intelligenti mercanti, industriali e commercianti dispone di mezzi più potenti per raggiungere la prosperità di un paese che si dedica principalmente alle arti e agli studi» (p. 82). Esorta quindi le persone più talentuose a diventare imprenditori: «Non riesco a concepire un modo migliore di impegnare la ricchezza e il talento» (p. 84). Lui stesso fece seguire alle parole i fatti, fondando prima uno dei cotonifici più all’avanguardia di tutta la Francia, e poi la prima scuola di economia e commercio del mondo.

 

La legge di Say

Il contributo scientifico all’economia per il quale Say è più noto è la “legge dei mercati”, chiamata talvolta “legge degli sbocchi”, che costituisce ancora oggi un caposaldo dell’economia classica. La legge di Say è stata volgarizzata dai suoi critici con una formulazione imprecisa: “ogni offerta crea la propria domanda”. In realtà è del tutto ovvio che non basta produrre una determinata merce perché si generi automaticamente una domanda per quella merce. Say vuole invece dire che qualsiasi domanda di prodotti può scaturire solo da un precedente atto di produzione: «Un uomo che col suo lavoro crea qualcosa di utile non può aspettarsi di essere pagato per la sua attività se gli altri uomini non hanno i mezzi per acquistare i suoi prodotti. Ora, in cosa consistono questi mezzi? In prodotti di analogo valore, frutti dell’industria, del capitale o della terra. Questo ci porta a una conclusione che a prima vista può sembrare paradossale: è la produzione che crea una domanda di prodotti» (p. 133).

Nello stesso momento in cui qualcuno realizza qualcosa di utile e lo porta sul mercato, crea una domanda corrispondente di altri beni e servizi. Il mero desiderio di consumare, non supportato da un qualche bene o servizio da dare in cambio, non crea una domanda. Per questa ragione i paesi arretrati o le aree sottosviluppate che producono poco o nulla non costituiscono un mercato, cioè uno sbocco per beni o servizi. Solo il processo di produzione (non il consumo, non la stampa di moneta) crea un potere di acquisto uguale al valore di mercato di quello che si è prodotto. A livello generale offerta e domanda sono due facce della stessa medaglia, e quindi non può mai esserci un eccesso dell’una rispetto all’altra.

La legge di Say è una risposta alla teoria della sovrapproduzione, o del sottoconsumo, che viene proposta ad ogni crisi economica: vi è un eccesso di offerta di beni che non vengono acquistati, dunque deve intervenire lo Stato per stimolare il consumo, come proponevano già Sismondi nel 1819 e Malthus nel 1820 in polemica con Say.

In realtà nel libero mercato la generale sovrapproduzione è un fenomeno temporaneo, perché l’abbassamento dei prezzi dei beni invenduti porta automaticamente alla correzione dello squilibrio. Inoltre, spiegava Say, il surplus di una o più merci spesso significa che c’è stata una scarsità di produzione di altre merci con cui scambiarle. Il vero problema è sempre la carenza della produzione, non del consumo: «Per questa ragione un buon raccolto è favorevole non solo al contadino, ma anche ai venditori di tutte le altre merci. Più copiose sono le messi, maggiori sono gli acquisti dell’agricoltore. Cattivi raccolti, al contrario, riducono gli acquisti di tutti gli altri beni» (p. 135).

La legge di Say conduce quindi a questa piacevole conclusione: ogni individuo è interessato al benessere del prossimo, e ogni popolo al benessere degli altri popoli. Più i nostri vicini sono produttivi, più si aprono sbocchi per i nostri beni e servizi: «Un uomo di talento, che in uno stadio retrogrado della società si limiterebbe appena a vegetare, troverà migliaia di modi per mettere a frutto le sua capacità in una comunità prospera in grado di impiegare e remunerare i suoi talenti … Abbiamo sempre interesse all’altrui prosperità, quando siamo sicuri di poterne approfittare con il commercio» (p. 137-138).

Dato che l’azione del governo non è produttiva, la sua spesa non può mai aumentare la domanda di prodotti: «Una volta creato, un valore non aumenta se passa da una mano all’altra, neanche quando viene prelevato e speso dal governo anziché dal privato. L’uomo che vive sulla produzione altrui non origina nessuna domanda aggiuntiva di prodotti; semplicemente si sostituisce al produttore, con grave danno alla produzione» (p. 137). In altre parole, la spesa del governo o del funzionario pubblico si sostituisce a quella del produttore privato che è stato tassato; questo processo non solo non aumenta la domanda aggregata, ma la riduce a causa dell’effetto disincentivante sulla produzione. «Il mero incoraggiamento al consumo non è di nessun beneficio al commercio, dato che la difficoltà consiste nell’accrescere i mezzi per acquistare, non nello stimolare il desiderio di consumare. Abbiamo già visto che solo la produzione può fornire questi mezzi. Per questa ragione un buon governo cerca di stimolare la produzione, mentre un cattivo governo cerca di incoraggiare il consumo» (p. 139). Da una crisi economica, conclude Say, si esce solo con «la frugalità, l’intelligenza, l’attività e la libertà» (p. 140).

 

Per una solida moneta aurea

Say comincia la sua trattazione della moneta spiegando la sua origine spontanea: per superare le gravi limitazioni del baratto, ad un certo punto una determinata merce viene sempre accettata da tutti grazie alle sue caratteristiche di alta commerciabilità (alto valore intrinseco, relativa rarità, divisibilità, omogeneità, trasportabilità, durabilità), e diventa quindi moneta. I metalli come l’oro e l’argento presentano tutte queste caratteristiche, quindi non dobbiamo sorprenderci che quasi tutte le nazioni commerciali del mondo abbiano selezionato come strumento monetario i metalli preziosi. «È pertanto la consuetudine, non l’ordine dell’autorità, che designa lo specifico prodotto che verrà usato come denaro» (p. 220).

L’economista francese avversa nella maniera più decisa la valuta cartacea che non sia immediatamente convertibile in moneta fisica. Analizzando uno dei primi casi disastrosi di iperinflazione, gli assegnati della Rivoluzione francese, Say osserva che la cartamoneta irredimibile viene sempre stampata in eccesso e distrugge il valore della valuta, che alla fine scende a zero. Say critica inoltre il bimetallismo, cioè la fissazione per legge del rapporto tra l’oro e l’argento, che invece dovrebbe fluttuare liberamente. Egli è un sostenitore della moneta pesante: le banconote cartacee dovrebbero essere dei semplici certificati di deposito coperti al 100 per cento da una corrispondente quantità di oro o argento presente nei caveau delle banche. Per separare ancor più nettamente la moneta dal governo l’economista francese suggerisce di abolire i nomi nazionali delle valute, che ingenerano confusione, e di sostituirli con le corrispondenti unità di peso in oro o argento: ad esempio, grammi anziché franchi.

Come evitare l’eccessiva espansione monetaria da parte delle banche? Le possibilità, per Say, sono due. Si può obbligare in primo luogo obbligare la banca a coprire con le proprie riserve il 100 per cento delle banconote emesse: egli giudica favorevolmente le banche di Amburgo e Amsterdam che operavano secondo questa modalità. La seconda possibilità è quella di permettere la completa concorrenza fra le banche nell’emissione monetaria. Questo sistema è meno sicuro ma di fatto dovrebbe tendere allo stesso risultato, ed è comunque di gran lunga preferibile all’istituzione di un’unica banca centrale dotata di privilegi monopolistici: «Permettere a molte banche di emettere banconote convertibili in oro è più benefico che attribuirne il monopolio esclusivo a una di esse, dato che la concorrenza le obbliga a conquistare il favore del pubblico rivaleggiando in comodità e solidità» (p. 271). Anche senza una riserva aurea del 100 per cento, che Say considera il sistema ideale, la concorrenza fra le banche dovrebbe quindi tenere a freno l’eccessiva espansione bancaria del credito.

 

La tassazione è un mal

La discussione di Say sulla tassazione e sulla spesa pubblica è particolarmente radicale. Egli non vede lo Stato come una benevola organizzazione quasi volontaria che fornisce servizi ai propri clienti in cambio delle tasse versate. La tassazione per Say è invece una imposizione coercitiva imposta al pubblico a vantaggio del governo. Il fatto che le imposte siano votate dal parlamento non le rende volontarie: «Che importanza ha il fatto che le tasse siano stabilite formalmente con il consenso del popolo o dei suoi rappresentanti, se il potere dello Stato di fatto non lascia al popolo nessuna possibilità di rifiuto?» (p. 446).

Un’implacabile ostilità verso la tassazione pervade quindi tutta la sua opera. L’economista francese tende infatti a vedere nella tassazione l’origine di tutti i mali della società, comprese le recessioni economiche. Le tasse infatti danneggiano sempre la produzione, perché sottraggono agli individui delle risorse che avrebbero utilizzato in maniera differente: «La tassazione priva il produttore di un bene che avrebbe potuto destinare a una propria gratificazione personale, se consumato … o impiegato profittevolmente, se investito. Le risorse servono a produrre altre risorse, per cui la sottrazione di beni a chi li ha prodotti deve necessariamente diminuire, anziché aumentare, la capacità produttiva» (p. 447).

Del tutto assurda, quindi, è la tesi secondo cui un’alta tassazione stimola la produzione, perché costringe gli individui a lavorare di più per mantenere inalterato il proprio livello di vita. In questo modo, osserva sprezzante Say, è come se lo stato dicesse all’individuo: “Lavora di più, così ricevo più fondi per tiranneggiarti ulteriormente!”. La verità è che l’aumento del prelievo fiscale moltiplica le privazioni, ma non certo le soddisfazioni, di chi lavora.

L’eccessiva imposizione fiscale, per Say, è “una forma di suicidio nazionale” che comporta sempre degli effetti devastanti per la società: «La tassazione spinta all’estremo ha lo spiacevole effetto di impoverire l’individuo senza arricchire lo Stato» (p. 449). Anticipando l’idea della curva di Laffer, Say spiega che un governo che adotta una moderata politica fiscale vedrà aumentare le proprie entrate anno dopo anno: «Sotto la protezione e l’influenza di un governo giusto e regolare si verifica un progressivo accrescimento annuale dei profitti e delle rendite tassabili; senza bisogno di aumentare le aliquote questa imposizione diventa gradualmente più redditizia grazie alla semplice moltiplicazione dei prodotti tassabili» (p. 461).

 

I disastri della prodigalità pubblica

I fondi ottenuti con le imposte sono quindi estorti con la coercizione ai contribuenti, e spesi a uso e consumo del governo, per cui «la porzione di ricchezza che passa dalle mani del contribuente a quelle dell’esattore viene distrutta o annichilita». Senza le tasse, il contribuente avrebbe speso il proprio denaro per il proprio consumo; con le tasse «lo Stato riceve la soddisfazione risultante dal consumo di quel denaro» (p. 413). Lo Stato quindi offre benefici solo a se stesso e ai propri favoriti, e tutta la spesa statale è consumo a vantaggio dei politici e dei funzionari. 

Say replica in maniera indignata a coloro che sostengono che le tasse non rappresentano un fardello per l’economia, perché “ritornano” alla comunità grazie alle spese del governo: «Questo è un errore madornale che ha generato un’infinità di guai, perché viene usato come pretesto per gli sprechi e le dilapidazioni più spudorate. Il contribuente cede un valore al governo senza ricevere in cambio nulla di equivalente. Il governo lo spende infatti per l’acquisto di servizi personali o di oggetti di consumo … Spendere è cosa ben diversa dal restituire» (p. 413). Say fa il paragone con un rapinatore che irrompe a mano armata in un emporio per impossessarsi dell’incasso, e alle proteste del commerciante gli dicesse di non preoccuparsi perché in futuro avrebbe speso quei soldi anche per acquistare le sue merci. Say commenta le parole impudenti del bandito facendo notare che «la spesa pubblica incoraggia l’economia in maniera assolutamente analoga» (p. 413).

Luigi XIV, ad esempio, era assolutamente convinto che la sua prodigalità fosse tanto benefica a se stesso quanto alla società, e per questo era alla continua ricerca dei modi più stravaganti di spendere il denaro che affluiva nelle casse del Tesoro. Le azioni commesse seguendo dei falsi principi, tuttavia, hanno conseguenze più fatali della cattiva condotta intenzionale, perché in esse si persevera a lungo senza rimorso e senza riserve. Se queste idee sbagliate sull’utilità della spesa pubblica rimanessero solo sui libri senza essere messe in pratica, continua Say, potremmo sorridere della loro assurdità. Il problema è che questi precetti «vengono messi in pratica dagli agenti dell’autorità pubblica, che possono imporre i loro errori e le loro assurdità sulla punta della baionetta o con la bocca del cannone» (p. 414-415).

Le conclusioni dell’analisi di Say sono radicali: lo Stato è un “terribile disturbo pubblico” e un “aggressore della pace e della felicità della vita domestica”, per cui «il miglior schema finanziario pubblico è quello che prevede la minor spesa possibile, e la tassa migliore è sempre la più leggera» (p. 449). L’autorità pubblica è necessaria al mantenimento dell’ordine sociale, ma nel momento in cui si forma l’ordinamento politico i proprietari devono assicurarsi, per mezzo di qualche tipo di garanzia, che il servizio pubblico non diventi una maschera delle passioni e delle ambizioni dei detentori del potere: «Ogni tassazione che vada oltre questi limiti è in realtà una spogliazione, perche un’imposta, anche quando approvata dal consenso nazionale, rappresenta una violazione della proprietà» (p. 130).

 

Citazioni rilevanti

Il capitale inattivo rende povera una nazione

«Fra tutte le cause della miseria e della debolezza dei paesi soggetti al dominio ottomano, non si può dubitare che il principale sia costituito dalla vasta quantità di capitale che rimane inattivo. La generale sfiducia e incertezza del futuro induce le persone di ogni categoria, dal contadino al pascià, a sottrarre parte della loro proprietà allo sguardo avido del potere: e un valore non può essere invisibile senza rimanere anche inattivo. Questa disgrazia è comune a tutti i paesi in cui il governo è arbitrario, anche se in grado diverso proporzionalmente alla severità del dispotismo (p. 118).

 

Ai più abili imprenditori vanno le migliori ricompense

«L’imprenditore è mette in collegamento le varie classi di produttori tra loro e il produttore con il consumatore. Dirige gli affari della produzione e attorno a lui ruotano molte relazioni; approfitta della conoscenza e dell’ignoranza delle altre persone, e di ogni imprevisto vantaggio produttivo.  Pertanto è questa classe di produttori che accumula le più vaste fortune, quando i loro sforzi produttivi sono coronati da un insolito successo (p. 332).

 

Gli sperperi del governo rovinano milioni di persone

«C’è più criminalità nella stravaganza e prodigalità pubblica che in quella privata, perché l’individuo spreca solo ciò che gli appartiene, mentre il governante non ha nulla di proprio da sperperare, essendo solo un mero amministratore fiduciario del tesoro pubblico … Se un individuo si convincesse che più spende più guadagna o che i suoi scialacqui sono una virtù … si ritroverebbe probabilmente rovinato, e il suo esempio avrebbe effetto su una cerchia molto piccola di suoi vicini. Un errore di questo tipo commesso dal governo provoca invece la rovina di milioni di persone, e si può concludere con il tracollo della nazione» (p. 414-418).

 

La bassa tassazione è sinonimo di civiltà

«Quando il progresso della scienza politica limiterà la tassazione alla soddisfazione dei soli reali bisogni pubblici, i miglioramenti delle attività produttive innalzeranno verso le più alte vette la felicità umana. C’è il pericolo però che gli abusi e la complessità del sistema politico portino alla crescita e al consolidamento di una tassazione oppressiva e sproporzionata, che farà ripiombare nella barbarie quelle nazioni che oggi hanno raggiunto una strabiliante potenza produttiva» (p. 473).

 

Punti da ricordare

  • L’economia usa il metodo deduttivo, non quello statistico o matematico.
  • L’utilità, non il lavoro, determina il valore di scambio di un bene.
  • Sono gli imprenditori che fanno ricco un paese
  • È l’offerta che genera la domanda
  • Non possono esserci crisi da sovrapproduzione o da sottoconsumo
  • Il risparmio e l’accumulo di capitale accrescono enormemente la produttività del lavoro
  • La consuetudine ha selezionato l’oro e l’argento come moneta
  • La libera concorrenza bancaria nell’emissione monetaria è superiore al sistema della banca centrale
  • Le imposte danneggiano sempre la produzione, e la tassa migliore è quella più leggera
  • La spesa statale sostituisce il consumo dei governanti al consumo privato.

 

L’autore

Jean-Baptiste Say (1767-1832)

Jean-Baptiste Say (1767-1832) nasce a Lione il 5 gennaio 1767 da una famiglia ugonotta.

Nel 1785 viene mandato insieme a un fratello a completare la sua istruzione in Inghilterra, dove trova anche lavoro presso un mercante londinese. Due anni dopo ritorna in Francia, e si impiega presso la compagnia assicurativa di Ètienne Clavière, futuro ministro rivoluzionario. La sua prima pubblicazione, un pamphlet sulla libertà di stampa, è del 1789.

Successivamente lavora come giornalista al “Corriere di Provenza” diretto da Mirabeu. Nel 1793 diventa segretario di Clavière, divenuto ministro delle finanze, e sposa Mille Deloche. Dal 1794 al 1800 dirige il periodico “La Decade”, nel quale espone le dottrine di Adam Smith. La sua reputazione di pubblicista cresce e nel 1799, sotto il governo consolare napoleonico, viene nominato tra i cento membri del Tribunato.

Nel 1803 pubblica la sua opera principale, il “Trattato di economia politica”. Napoleone gli offre 40mila franchi all’anno se riscrive alcune parti dell’opera in senso più favorevole ai suoi progetti economici interventisti. Say però non è disposto a sacrificare le sue convinzioni liberali, e nel 1804 viene rimosso dalla carica di tribuno.

Per guadagnarsi da vivere decide quindi di impegnarsi nell’attività imprenditoriale, e apre una manifattura cotoniera che dà lavoro a quasi cinquecento persone. Durante il tempo libero apporta delle revisioni al suo trattato di economia, ma la censura gli impedisce di pubblicare nuove edizioni. Solo nel 1814, con la caduta di Napoleone, può pubblicare la seconda edizione del trattato, e la dedica allo zar Alessandro I di Russia, che si era dichiarato suo estimatore.

Nel 1818 fonda la prima scuola commerciale del mondo, la ESCP Europa. Nel 1828-1830 pubblica il “Corso completo d’economia pratica”, e nel 1831 diventa professore di economia politica al Collegio di Francia. La sua salute declina rapidamente dopo la scomparsa della moglie, avvenuta nel 1830. Say muore a Parigi il 15 novembre 1832.

 

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