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Re Artù: basta la storia

L'ultimo sonno di Artù di Edward Burne-Jones.
L'ultimo sonno di Artù di Edward Burne-Jones.

Con re Artù al supermercato della storia prendi tre al prezzo di uno

Ti porti a casa tre epoche: quella delle vicende del Re Artù storico, tra quinto e sesto secolo, quella in cui sono diventate leggenda in una lunga gestazione tra nono (e anche prima) e tredicesimo secolo e quella in cui fatti e leggende hanno preso una piega favolistica, rovinando il tutto, come è d’uso della nostra epoca, presente e morta.

Concentrandosi sui fatti sui quali abbiamo fonti certe e attendibili, Mirko Rizzotto – per Graphe.it Edizioni – con il suo Re Artù procede come un restauratore pulendo la superficie pittorica dalle incrostazioni. E la figura che ne risulta non è che sia poi sfumata come potremmo immaginare. Tutt’altro.

In fondo la risposta sta già nella collana “I condottieri” per la quale è pubblicato il volume 

Sì un condottiero – certo non nel senso medievale del termine, munito di condotta e al servizio di un signore o di una città-stato – che emerge nella fase finale della disgregazione del tessuto imperiale, coagula quel che resta delle truppe di frontiera – in particolare i cavalieri Sarmati – con quelle dei Britanni e conduce prima una campagna senza soste nell’isola contro Angli e Sassoni (sud), Pitti (nord) e Scoti (ovest) e poi addirittura in Gallia contro i Sassoni. Insomma un uomo d’armi di carisma, autorevolezza ed energia eccezionali. Un condottiero che è anche re, per la precisione Riothamus, Re Supremo, di Britannia.

Uno degli effetti della definizione di secoli bui affibbiata al medioevo è che quella fase delicatissima, complessa per forze coinvolte e articolata per differenze da territorio a territorio, di limbo, di passaggio tra quella che non è del tutto la disgregazione dell’Impero e non è ancora l’epoca dei regni barbarici, quella fase “colpevole” di essere agli albori dell’alto medioevo, è quasi integralmente fuori dal cono di interesse del pubblico

Eppure la crisi dell’Impero – senza entrare nel ginepraio delle cause – è affascinante proprio perché ci parla di insicurezza, fallimenti, sconvolgimenti, leadership emergenti. Ci parla di migrazioni di massa, territori occupati, nuovi insediamenti, scorrerie. Al contempo, quel periodo che vede la fine ufficiale dell’Impero, la lotta per la successione dei diversi regni delle popolazioni barbariche e l’affermarsi dell’astro di Giustiniano ad Oriente è anche il testimone del germe di rinnovamento costituito dalla regola di San Benedetto.

Quello che voglio dire è che le vicende di re Artù sono un perfetto distillato per cercare di comprendere quello che succede nello stesso periodo in tutto il continente – senza eccedere nei paragoni. E soprattutto il retaggio della latinitas, se è vero che – come ci racconta Rizzotto: “Le origine stesse di re Artù erano chiaramente romane: le epigrafi attestano, intorno al 180 d.C. un Lucio Artorio Casto, che fu prefetto in Britannia sotto Marc’Aurelio, a capo della VI Legione Victrix e, considerata la relativa rarità delle iscrizioni della gens Artoria, è più che certo il fatto che il nostro Artù fosse un discendente diretto del prefetto Lucio Artorio Casto, del II secolo d.C.”.

Certo difficile colmare i vuoti. Probabilmente impossibile, a meno di clamorose scoperte archeologiche e storiografiche. Però non è che dobbiamo ricorrere per forza al mito, per quanto ciò possa allettare. Rizzotto ci fa notare che tutto sommato conosciamo storicamente o possiamo ragionevolmente supporre abbastanza per inquadrare re Artù senza confinarlo nella leggenda. In altre parole, pur alternando leggenda e storia, non è affatto detto che la prima debba prevalere sulla seconda.

Meglio ancora: anche la leggenda, se vista dalla prospettiva di coloro che l’hanno alimentata, ci spiega bene un modo di raccontare la storia che in nessun caso contemplava la necessità di attenersi ai fatti. Oggi diremmo di separare i fatti dalle opinioni. Dunque dobbiamo essere grati agli autori che Rizzotto passa in rassegna nell’appendice del volume – Gilda, Nennio, Beda il Venerabile, Goffredo di Monmouth, Malory, Wave – perché parlandoci di re Artù ci hanno descritto il loro mondo, le loro paure e tensioni e le loro speranze. E forse, dopo aver letto l’Artù di Rizzotto, ci viene pure voglia di leggere le fonti.

In fin dei conti, re Artù ci attira a sé perché gli riconosciamo ad intuito – senza ammetterlo – quello che ci manca: il coraggio testardo di difendere quello che della nostra storia merita di essere difeso – o almeno questo mi piace pensare.