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Ricchezza e povertà di George Gilder

1981
Ronald Reagan
Ronald Reagan
Ricchezza e povertà

 

Perché leggere questo libro

Ricchezza e povertà di George Gilder interpretò alla perfezione lo spirito di rivolta dei ceti medi americani contro lo statalismo degli anni Settanta, offrendo una nuova visione del capitalismo. Il libro uscì nei primi mesi del 1981, pochi giorni dopo l’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca, e fu il libro giusto al momento giusto.

Vendette milioni di copie e diventò il manifesto della Reaganomics, incarnando lo spirito dell’epoca. Gilder, allora editorialista del Wall Street Journal, fu infatti l’autore più citato da Reagan durante la sua presidenza. In questo best-seller mise sotto accusa le politiche dello Stato assistenziale che avevano contribuito a disgregare le famiglie e a inibire la libera iniziativa, la creatività e l’assunzione di rischi imprenditoriali. Il benessere sociale, a suo parere, si può ottenere soltanto con il massimo della libertà, in modo da favorire la produttività e la motivazione di chi intraprende davvero.

 

RIASSUNTO

Una difesa morale del capitalismo

Il capitalismo, nota Gilder, non è riuscito a imporsi malgrado l’evidente fallimento del socialismo, e le sue grandiose realizzazioni appaiono tuttora meno apprezzabili delle promesse tradite del socialismo. È vero che molti grandi studiosi hanno difeso l’economia di mercato, ma per qualche motivo le loro voci non hanno colpito nel profondo. Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises e Milton Friedman, scrive Gilder, sono quanto mai eloquenti nella loro critica del collettivismo e nell’esaltazione della libertà, ma le loro argomentazioni sono di tipo tecnico e pragmatico: «Nessuno di questi autori vede il motivo di dare al capitalismo una teologia né di attribuire ai suoi risultati una qualche patente di giustizia» (p. 19). Occorre quindi dare al libero mercato un nuovo e più solido fondamento morale.

Gilder fa notare che all’origine del capitalismo c’è sempre l’atto del dare, il dono. Gli studi antropologici dimostrano che il commercio ha avuto questa origine, quando qualcuno ha offerto qualcosa a un estraneo senza sapere cosa avrebbe ricevuto in cambio, come nella pratica del potlach in uso presso gli indiani Kwakiutl: una festa collettiva che prevedeva ricche distribuzioni gratuite di beni alla comunità da parte di un individuo. Gilder coglie quindi un’analogia tra il dono e l’investimento: «I doni del capitalismo avanzato in un’economia monetaria sono chiamati investimenti. Non si fanno regali senza l’idea, magari vaga e inconscia, di ottenere una ricompensa, in questo o nell’altro mondo. Anche la massima biblica afferma che a chi dà sarà dato. L’essenza del dare non sta nella mancanza di ogni aspettativa di ricompensa, ma nell’assenza di una remunerazione prefissata. Come i doni, gli investimenti capitalisti vengono fatti senza una ricompensa predeterminata» (p. 43).

Queste anticipazioni fatte al prossimo, gli investimenti, sono sempre sperimentali, in quanto la ricompensa di colui che dà è ignota. Egli non sa se la sua offerta darà luogo a un guadagno o a una perdita. Dato che moltissimi investimenti falliscono, il momento della decisione è gravido di dubbi e di promesse, in cui il ruolo decisivo è giocato dalla fede, dalla motivazione, dal coraggio. Il bello è che nel capitalismo anche le iniziative imprenditoriali fallimentari costituiscono un successo, perché nel corso del tempo gli insuccessi si accumulano sotto forma di nuova conoscenza utile per la società. Il socialismo, al contrario, è paragonabile a una polizza d’assicurazione acquistata da tutti i membri di un’economia nazionale per proteggersi dal rischio. Questo schermo protettivo impedisce però la conoscenza dei pericoli e delle opportunità reali, onnipresenti in tutte le società. Invece di beneficiare di una molteplicità di doni e di esperimenti, l’intera economia assorbe il rischio assai più grave di rimanere statica in un mondo dinamico. È più probabile, scrive l’autore di Ricchezza e Povertà, che il sistema globale si dimostri più stabile in un’economia capitalistica, dove i singoli cittadini e imprenditori assumono rischi in misura assai maggiore.

 

L’offerta precede sempre la domanda

Il biblico “date e vi sarà dato” coincide con la formulazione di una delle più importanti legge dell’economia: la legge di Say, secondo cui è l’offerta a creare la domanda. La Supply-Side Revolution accolta da Gilder intende rimettere al centro questa legge rimasta in sordina dopo decenni di dominio delle teorie economiche keynesiane incentrate sulla domanda. Nella realtà, spiega Gilder, la domanda e l’offerta non stanno sullo stesso piano, né nascono simultaneamente come sembrerebbe guardando i grafici presenti sui manuali d’economia. La domanda è un vago e indistinto desiderio nella mente dei consumatori; l’offerta è, al contrario, qualcosa di concreto: i beni e i servizi realizzati grazie agli sforzi fisici e mentali dei produttori. Sono quest’ultimi a svolgere un ruolo primario e pionieristico nel suscitare, formare e creare la domanda, mentre i consumatori si limitano il più delle volte a rispondere agli esperimenti creativi dell’impresa.

Infatti, non esiste una richiesta di beni nuovi e sconosciuti, non esiste una domanda per i frutti imprevedibili dell’innovazione e del genio. Ad esempio, osserva Gilder, a Great Barrington, nel Massachussets, ci sono un ristorante somalo e una scuola di musica barocca non perché vi fosse un’esigenza spontanea di quelle iniziative, ma perché lì vi erano le persone che hanno deciso di intraprenderle e che sono riuscite a suscitare la relativa domanda.

La legge di Say conduce quindi gli economisti a concentrarsi sui mezzi di produzione e sulle motivazioni dei produttori, distogliendoli dall’ossessione per la distribuzione e per l’andamento della domanda. Le economie, dice Gilder, non crescono spontaneamente o a furia di stimoli da parte del governo. Crescono a seguito dell’intraprendenza di uomini disposti a esporsi a rischi, a trasformare le idee in attività imprenditoriali, a dare prima di sapere che cosa otterranno in cambio.

Preoccuparsi della domanda significa concentrarsi sullo status quo, alimentando così la stagnazione: «Il governo non può influire in maniera significativa sulla domanda aggregata reale mediante politiche fiscali e di spesa pubblica, prendendo a uno per dare a un altro, vuoi nel settore pubblico che fuori di esso. Tutto questo trasferimento di ricchezza è un gioco a somma zero, che di norma ha sui redditi un effetto nullo, se non di segno negativo» (p. 69). Il potere d’acquisto nasce sempre dal lavoro produttivo, e non c’è modo di aggirare questa fondamentale legge della realtà. Quasi tutti i programmi di spesa patrocinati dagli economisti, che spesso si vogliono far passare come stimolo al consumo, in realtà riducono la domanda minando proprio la produzione da cui deriva tutta la domanda reale.

L’accento posto sull’offerta fa comprendere quindi come la povertà non sia tanto una condizione di reddito quanto uno stato mentale, e che i sussidi danneggiano la maggior parte degli individui che ne dipendono. I lavoratori, infatti, devono comprendere, ed essere seriamente convinti, che ciò che viene dato loro dipende da ciò che danno: che devono offrire lavoro per domandare beni. Nel lungo periodo questo atteggiamento è essenziale per l’ascesa economica. Il welfare state tuttavia corrode l’etica del lavoro perché infrange questo legame psicologico tra sforzo e ricompensa.

 

Gli effetti perversi dello Stato sociale

Per Gilder i rischi morali dei programmi assistenziali sono chiarissimi: il sussidio di disoccupazione favorisce la disoccupazione; il programma di aiuto alle donne con figli a carico crea numerose famiglie assistite prive della figura paterna; gli assegni della sicurezza sociale tendono a far sì che non ci prenda più cura dei vecchi e che si dissolvano i vincoli tra le generazioni. Questi programmi sono andati sempre espandendosi, creando un forte senso di dipendenza in milioni di famiglie che erano decisamente in grado di mantenersi da sé. Nel frattempo questi trasferimenti hanno imposto un onere fiscale crescente sulle famiglie che lavorano, e ciò ha provocato frustrazione e risentimento nei confronti delle istituzioni democratiche americane.

Il boom dell’assistenzialismo ha avuto due disastrosi effetti non previsti dalle teste d’uovo che hanno pianificato la “guerra alla povertà”: la demolizione dell’autorità paterna e la disgregazione delle famiglie. Come osserva Gilder, nulla è più distruttivo per i valori del maschio della crescente convinzione che, in fin dei conti, moglie e figli potrebbero cavarsela meglio senza di lui. L’uomo ha la sensazione che il suo ruolo di procacciatore dei mezzi di sostentamento, che ha sempre svolto fin da quando era cacciatore nel Paleolitico, gli sia stato in larga misura sottratto dallo stato sociale. Egli si sente superfluo, la moglie lo sa, i figli lo avvertono. Nella cultura assistenziale, infatti, il denaro non è più qualcosa che gli uomini guadagnano con il sudore della fronte, ma un diritto conferito alle donne da parte dello Stato. Proteste e lamentele sostituiscono diligenza e disciplina come fonti di entrate. I ragazzi crescono cercando un appoggio nelle donne, senza avere in casa un modello di autorità paterna.

La disgregazione delle famiglie, endemica nei ghetti poveri che vivono di assistenzialismo, annienta così il principale incentivo dell’uomo al lavoro e accorcia il suo orizzonte temporale. È dimostrato infatti che gli uomini sposati lavorano più duramente rispetto agli scapoli. L’uomo sposato, infatti, è spronato dalle esigenze della famiglia a incanalare la sua aggressività maschile, altrimenti negativa, nell’esplicazione del ruolo di colui che provvede alla moglie e ai figli. La famiglia dà all’uomo un orientamento al futuro che gli permette di superare l’istintiva ricerca della gratificazione di breve periodo. Quando il matrimonio fallisce l’uomo spesso ritorna ai ritmi giovanili del celibato. Mediamente il suo reddito diminuisce di un terzo e si riscontra una propensione assai maggiore per l’alcool, la droga e il crimine. Quando invece il matrimonio resiste e gli uomini amano e mantengono i figli, lo stile di vita della classe povera si trasforma in un presagio di ascesa alla classe media.

In definitiva, conclude Gilder, il tentativo sociale di negare, sopprimere e scongiurare con la pianificazione i pericoli e le incertezze della nostra vita per esorcizzare l’ineluttabile ignoto è contrario non solo allo spirito del capitalismo, ma anche alla natura umana: «Il governo dedito alla soppressione dell’incertezza si trova perpetuamente costretto a incanalare o reprimere l’innata tendenza dell’uomo a rischiare. L’effetto spesso è quello di distogliere quella tendenza dalle vie positive e creative per indirizzarla verso altre negative o perniciose» (p. 334).

 

Solo l’economia privata è produttiva

In realtà, afferma Gilder, gli imprenditori creativi e pionieristici sono coloro che in America stanno combattendo l’unica seria guerra alla povertà. Sono le piccole imprese ad alto contenuto tecnologico, non il governo o le grandi società come la Chrysler, che generano la maggior parte dell’innovazione e dell’occupazione americana. Perfino il programma spaziale non ha fatto emergere alcuna tecnologia nuova, dato che le realizzazioni ottenute si sono basate soprattutto sullo stato della ricerca di dieci anni prima: «I laboratori statali sono stati per molti anni la parte più sterile dell’establishment scientifico americano, spesso più un intralcio che uno stimolo per la nuova tecnologia» (p. 117).

Malgrado ciò, questi produttori di ricchezza vengono trattati con disprezzo da tutti quei liberal di sinistra che, disdegnando la “volgare” ricerca del profitto nel libero mercato, si sono orientati in larga misura verso le occupazioni statali o parastatali. Il paradosso è che costoro, con il loro status assicurato e arricchito dalle esenzioni di imposta, con l’inamovibilità e le protezioni dell’impiego statale solidamente acquisite, riescono tuttora a perpetuare la finzione di essere più attaccati al pubblico interesse di quanto lo siano gli autotrasportatori o altre categorie che sgobbano dalla mattina alla sera nel settore privato dell’economia.

I membri della nuova classe burocratica si vantano infatti di lavorare “non per denaro” ma per l’interesse pubblico. In realtà, osserva Gilder, un’attività che non dà profitto non dovrebbe essere chiamata lavoro: «Un’espressione più comune per definire ciò che fanno le persone quando spendono denaro guadagnato da altri è consumo, mentre la parola con cui usualmente si indica ciò cui si dedicano coloro che “non lo fanno per la paga” è attività del tempo libero. Trasformare il consumo e l’attività del tempo libero connessi con posti di lavoro sovvenzionati o “creati” artificialmente in attività del servizio pubblico, da lodare in termini di idealismo e di abnegazione – svilendo al tempo stesso quelle del settore privato – è un bell’esempio d’impegno e d’inventiva! Eppure i tomi imbevuti di questa ideologia inondano le librerie!» (p. 209).

In realtà il vero lavoro è di norma duro, difficile e spiacevole, ed è questa la ragione per cui, nel libero mercato, la gente è disposta a pagare perché venga fatto. L’aspetto fondamentale dell’occupazione reale è il rischio di essere licenziati dai clienti o dal datore di lavoro se la prestazione non è soddisfacente. L’occupazione garantita nel settore pubblico presuppone che il lavoro sia in larga misura opzionale, e pertanto non può essere considerato vero lavoro. Se tutti i lavoratori del settore privato godessero di garanzie simili a quelle del pubblico impiego e fornissero prestazioni dello stesso livello, nota giustamente Gilder, gli standard di vita degli Stati Uniti crollerebbero.

Creare lavoro produttivo, che produca più di quanto consumi, è sempre difficile; quando la creazione di “posti di lavoro” appare facile, come nel settore pubblico, con ogni probabilità il risultato sarà solo consumo di risorse, non creazione di ricchezze. Da dove proviene infatti il denaro per mantenere in vita questi posti di lavoro statali? Ovviamente dai lavoratori produttivi degli altri settori dell’economia: «Sia che il governo federale ricorra al prestito, alle imposte o all’inflazione per finanziare i suoi programmi di creazione di lavoro – risponde Gilder – il risultato è chiaro: le vittime saranno con ogni probabilità quelle imprese piccole e medie che potrebbero dar lavoro ai poveri in maniera più economica ed efficiente» (p. 219).

L’economia guidata dallo Stato è sempre sterile e rivolta al passato, perché solo il passato è sicuro e calcolabile. La creatività, essendo imprevedibile, è invece incontrollabile. Malgrado le buone intenzioni il pianificatore pubblico non può far altro che cristallizzare la situazione presente. Solo una società retta dal rischio e dalla libertà invece che dalla pianificazione razionale è in grado di far scaturire un flusso senza fine di invenzione, di intrapresa e di arte. Solo nel capitalismo, conclude Gilder in maniera ispirata, c’è il dinamismo, l’apertura al futuro, la vita.

 

CITAZIONI RILEVANTI

L’investimento come dono

«In regime capitalistico, le iniziative della ragione sono varate in un mondo governato dalla moralità e dalla Provvidenza. I doni riscuoteranno successo solo nella misura in cui sono altruistici e scaturiscono dalla comprensione dei bisogni degli altri. Essi discendono dalla fede in un’umanità essenzialmente equa e ricettiva. In un mondo del genere è possibile dare senza un compenso fissato per contratto. Si può intraprendere senza l’assicurazione della ricompensa. Si possono perseguire le sorprese del profitto, invece dei benefici più limitati della paga contrattuale. Si possono prendere iniziative in un contesto altamente rischioso e incerto» (p. 45).

 

L’assistenzialismo perpetua la povertà

«Il welfare, l’istituzione che ha l’influenza di gran lunga maggiore nei ghetti, esercita una pressione costante, seducente ed erosiva sui matrimoni e sulle abitudini lavorative dei poveri e, con il passare degli anni, instaura nelle comunità povere una “cultura assistenziale” endemica … Lo stato assistenziale attenua e travisa costantemente le necessità della vita che spingevano le precedenti generazioni di non abbienti a sfuggire alla povertà attraverso i percorsi obbligati del lavoro, della famiglia e della fede» (p. 166).

 

Gli imprenditori come eroi

«Il successo di un’economia dipende dalla proliferazione di persone ricche, dalla creazione di una classe estesa di individui disposti a correre rischi e che rifuggono dalla facile scelta della vita comoda per creare nuove imprese, per lucrare grossi profitti e tornare a investirli. Si dirà che quei profitti sono “non guadagnati” e “immeritati”. Ma, in realtà, gli imprenditori coronati dal successo apportano alla società assai più di quanto ricevano in cambio, e molti di essi non si arricchiscono affatto. Essi sono gli eroi della vita economica, e coloro che gli invidiano la meritata ricompensa dimostrano di non riuscire a capire la funzione dell’imprenditore e la promessa del benessere che contiene» (p. 325).

 

Punti DA RICORDARE

  • Le grandiose realizzazioni del capitalismo appaiono tuttora meno apprezzabili delle promesse tradite del socialismo
  • Occorre quindi dare al libero mercato un nuovo e più solido fondamento morale
  • Come nel dono, nel capitalismo prima si dà (si investe) e poi si spera di ricevere qualcosa in cambio
  • Nel capitalismo anche le iniziative imprenditoriali fallimentari costituiscono un successo, perché diventano nuove conoscenze utili per la società
  • Nel socialismo si vuole proteggere tutti da ogni rischio economico, ma in questo modo non è più possibile scoprire i pericoli e le opportunità reali
  • In economia l’offerta precede sempre la domanda
  • Per favorire la crescita non serve stimolare la domanda, ma occorre concentrarsi sulle motivazioni dei produttori
  • Lavoro, famiglia e fede sono le fonti primarie della prosperità
  • L’assistenzialismo disgrega le famiglie e distrugge l’etica del lavoro
  • Lo Stato assistenziale genera quindi povertà morale e materiale
  • L’impiego pubblico è spesso sterile e parassitario
  • Gli imprenditori creativi sono i veri eroi della società
  • Solo nel capitalismo c’è il dinamismo, l’apertura al futuro, la vita

 

L’autore

George Gilder

George Gilder (1939-) nasce a New York il 29 novembre 1939. Suo padre Richard, aviatore, muore nei cieli europei durante la seconda guerra mondiale, quando George ha solo tre anni. Il compagno di college del padre, David Rockefeller, nipote del celebre fondatore della Standard Oil, mantiene la promessa di provvedere all’istruzione del figlio. George Gilder si laurea quindi ad Harvard nel 1962. All’inizio degli anni Settanta si avvicina alle posizioni conservatrici, e nel 1973 scrive il libro Sexual Suicide (ripubblicato nel 1986 con il titolo Man and Marriage), che scatena le proteste delle femministe per la sua difesa del matrimonio e della famiglia tradizionale. Nel 1981 conquista una grande notorietà con il libro Ricchezza e povertà, definito dal “New York Times” la “più intelligente guida al capitalismo mai scritta”.

I suoi interessi si spostano verso le nuove tecnologie, e anche in questo campo fa centro. I libri Microcosm del 1989, La vita dopo la televisione del 1992 e Telecosm del 1999 lo consacrano come il nuovo guru della rivoluzione digitale. Gilder infatti preconizza con qualche decennio d’anticipo la convergenza tra telecomunicazioni, microelettronica e fibra ottica. A lui viene attribuita la “terza legge della tecnologia”, secondo cui la larghezza della banda totale dei sistemi di telecomunicazione triplica ogni dodici mesi.

Nel 2005 si unisce al Discovery Institute nella sfida al darwinismo e nel sostegno alle teorie del progetto intelligente. Gli ultimi suoi libri sono The Israel Test, del 2012, un’appassionata esaltazione della società israeliana, la più dinamica e per questo la più invidiata al mondo; Knowledge and Power del 2013, in cui pone le basi di un nuovo paradigma economico basato sulla teoria dell’informazione, e Life After Google: The Fall of Big Data and the Rise of the Blockchain Economy (2018), nel quale prevede il passaggio tecnologico dall’era di Google a quella della Blockchain.

 

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Titolo originale: Wealth and Poverty

 

INDICE DEL LIBRO

7          Prefazione

13        1. Un mandato per il capitalismo

143      2. La crisi della politica assistenziale

311      3. L’economia della fede

355      Bibliografia

367      Indice dei nomi

NOTA BIBLIOGRAFICA

George Gilder, Ricchezza e povertà. Il valore sociale e morale della ricchezza, Longanesi, Milano, 1982, traduzione di Gaetano Salinas, p. 379.