x

x

Federalismo e Secessione di Gianfranco Miglio, Augusto Barbera

1997
Porto turistico, Marina di Ragusa
Ph. Simona Loprete / Porto turistico, Marina di Ragusa
Federalismo e secessione

 

PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO

Gianfranco Miglio è stato uno dei massimi scienziati della politica del nostro paese. I suoi studi sono fondamentali per comprendere l’essenza e le origini delle idee di Stato e di federalismo. Le sue prime proposte di riforma costituzionale, risalenti ai primi anni Ottanta, si ispirarono alle idee decisioniste del giurista tedesco Carl Schmitt, il quale aveva definito Miglio “il maggior tecnico delle istituzioni e l’uomo più colto d'Europa”. Successivamente il pensiero di Miglio, pur conservando la sua visione fortemente realistica della politica, subì una profonda evoluzione grazie a una riflessione più approfondita sulla natura dello Stato moderno.

Il libro Federalismo e secessione del 1997 è il più adatto per comprendere le linee guida del pensiero migliano perché, pur non essendo un’opera scientifica ma un dialogo con il costituzionalista di sinistra Augusto Barbera, espone nella forma più chiara l’approdo finale neofederalista e libertario. Nel suo controcanto, Barbera espone invece le idee centraliste e stataliste predominanti nel diritto pubblico.

 

RIASSUNTO

Il dogma dell’unità

Secondo Augusto Barbera esiste una differenza fondamentale tra la “federazione”, che è un fatto istituzionale, e il “federalismo”, che è invece una dottrina fondata sulla richiesta aprioristica di governo e decisioni politiche decentrate. Possono quindi aversi Stati non federali ispirati a principi del federalismo, come la Spagna, e Stati federali non ispirati a ideologie federali, come l’ex Urss. Tuttavia, replica Gianfranco Miglio, affermare che il federalismo è un’ideologia perché implica un’aprioristica preferenza per il potere decentrato anziché per il potere accentrato, significa veramente ribaltare il problema. L’ideologia vincente da secoli, infatti, è soprattutto quella che preferisce il potere unitario accentrato anziché il potere diffuso sul territorio: è il dogma dell’unità dell’azione di governo, della sovranità, dell’unità e indivisibilità della Repubblica.

Come insegna Carl Schmitt, questi sono tutti concetti teologici secolarizzati. Ciò che è di matrice ideologica e teologica nella dottrina dello Stato, come i confini e la sua eternità, continua Miglio, balza subito agli occhi. Gli insegnamenti che ci hanno impartito nelle lezioni di diritto pubblico – lo Stato è sempre esistito ed esisterà sempre; non ha uno sviluppo temporale come tutte le creazioni della civiltà umana, ma caratteristiche pressoché divine – sono massimamente ideologici.

 

La crisi del diritto pubblico europeo

Lo Stato infatti è una creatura politica legata a una particolare fase storica, oggi in via di esaurimento. Sorto dalle ceneri delle istituzioni medievali a seguito di un processo di forte concentrazione del potere, lo Stato moderno ha raggiunto il suo culmine e la sua più completa realizzazione con i totalitarismi novecenteschi: «Fin dagli anni Cinquanta io vado sostenendo che il regime più coerente con la struttura dello Stato moderno è il modello comunista, che giunge alla sua crisi nel 1989 quando falliscono gli obiettivi di questo ordinamento politico» (p. 29).

In questa fine del secolo, continua il professore comasco, è stato dimostrato che nessun sistema economico può funzionare se l’individuo è sicuro che avrà un reddito ovunque e comunque: «A dire il vero la “Scuola Austriaca” dell’economia aveva dimostrato già negli anni Venti che il socialismo era destinato al collasso economico; ma Mises, Hayek e i loro colleghi erano considerati pericolosi estremisti. Inoltre il fine dell’eguaglianza dei redditi urta contro la struttura diversificata che si produce in tutti i sistemi politici, compresi quelli comunisti, in cui i governanti dispongono di redditi multipli rispetto a quelli della popolazione» (p. 29).

Oggi, secondo Miglio, siamo entrati in una fase discendente della storia dello Stato moderno. Gli aspetti negativi della concezione unitaria, sovrana e accentrata del potere appaiono sempre più evidenti in ogni parte del mondo, dove gli Stati unitari e burocratici sono diventati macchine fiscali insaziabili, indebitate e fuori controllo, che consumano in maniera inesorabile le ricchezze prodotte dalla società.

 

La legge di gravità del potere

Per una sorta di legge gravitazionale del potere, nota il professore comasco, lo Stato accentrato tende ad accrescere sempre di più le sue prerogative, occupando tutti gli spazi della società: «A me francamente preoccupa la posizione di debolezza che l’individuo ha nei confronti dello Stato moderno. Senza Comunità di appartenenza, ordini professionali, chiese, che si ergano a difesa dei gruppi e degli individui, lo Stato ha avuto mano libera e rotto ogni argine. La tirannia fiscale, amministrativa, politica, che un gruppo di uomini esercita su di un altro in nome dello Stato è ormai sotto gli occhi di tutti. A questo proposito, tengo a sottolineare di essere assolutamente solitario nel panorama italiano, perché sono arrivato a questa posizione attraverso studi storici e giuridici, mentre la maggior parte degli studiosi di storia e dei giuristi venera lo Stato moderno» (p. 22).

Ciò che rende vano ogni tentativo di limitazione del potere statale è proprio la sua natura accentrata e gerarchica, basata su un rapporto verticale di comando e obbedienza nei confronti dei cittadini. Miglio perde quindi ogni illusione riguardo la possibilità di migliorare la macchina statale lasciando intatta la sua struttura di fondo. Si rivolge quindi allo studio di quei sistemi politici alternativi, basati su logiche pattizie, contrattuali e decentralizzate, storicamente sconfitti dall’avanzata dello Stato moderno. Il professore lombardo chiama queste esperienze, trascurate dalla quasi totalità degli studiosi, “l’altra metà del cielo”.

Il riferimento è alle città libere medievali, alla Lega Anseatica, alle Province Unite Olandesi, ai cantoni svizzeri. L’Europa era ancora abbastanza ricca di queste realtà prima dell’era napoleonica, ma è stato solo con le unificazioni avvenute negli anni sessanta e settanta del diciannovesimo secolo in Italia, negli Stati Uniti, in Giappone e in Germania che lo Stato nazionale moderno ha preso definitivamente il sopravvento nel mondo. I retaggi degli ordini istituzionali premoderni oggi sopravvivono solo nei microstati come il Liechtenstein o il Principato di Monaco, e nella confederazione elvetica.

 

Il neofederalismo

Occorre dunque cambiare il sistema, rifiutare la logica autoritaria dello Stato moderno, e adottare un sistema basato più sull’obbligo contrattuale che sull’obbligo politico. Miglio intende per obbligazione politica l’accettazione, quasi sempre tacita, di un ordine politico e delle sue imposizioni. L’obbligazione contrattuale discende invece dai negozi giuridici che gli individui stipulano liberamente. La distinzione richiama quella tra pubblico e privato. Se lo Stato moderno ha rappresentato la fonte tipica dell’obbligo politico (e il totalitarismo la sua apoteosi), il mercato è invece il tipico luogo di nascita degli obblighi contrattuali. Per sua natura il federalismo tende ad avvicinarsi alle logiche e al modus operandi del mercato privato: «è necessario comprendere la vocazione al contratto, al pluralismo e al federalismo, che nasce dall’impossibilità di gestire altrimenti i bisogni dei governati. Questi infatti sono talmente vari che possono essere soddisfatti solo nel libero mercato» (p. 31).

Il federalismo è dunque la risposta che Miglio dà alla sua ricerca di un ordinamento che rimedi alle inadeguatezze dello Stato centralizzato e burocratizzato. Si tratta però di una forma nuova di federalismo (“neofederalismo”), che non tende a unire più parti in una federazione come il federalismo classico, ma a disaggregare in più parti un’unità politica, allo scopo di gestire e valorizzare al meglio le diversità, e di rispettare i diritti degli individui e delle comunità.

Un ordinamento compiutamente federalista, secondo Miglio, può nascere solo da un patto volontario stipulato da libere comunità territoriali; non può calare dall’altro attraverso forme di decentramento o di sussidiarietà che presuppongono ancora il rapporto gerarchico verticale tra centro e periferia tipico della statualità: «in una Costituzione federale autentica non ci sono produzioni di atti d’imperio, di sovranità, perché non esiste il luogo delle decisioni ultime valide per tutti ... Ogni decisione è frutto di contratto e di negoziazione» (p. 127-128).

Per questa ragione il sistema di governo che si addice al sistema federale è quello collegiale o direttoriale. Probabilmente solo la Confederazione Elvetica risponde ai requisiti di Miglio, che considera invece quello tedesco un federalismo falso, e quello americano un federalismo degenerato. Nel federalismo autentico la salvaguardia della diversità è il valore supremo della Comunità federale.

Per questa ragione occorre rigettare la regola della maggioranza semplice, perché la maggioranza più uno è spesso una maggioranza falsa: di fatto non è che una pluralità di minoranze che si aggregano con il fine unico di diventare appunto maggioranza. Si deve pensare invece a un ricorso frequente delle maggioranze qualificate e ultra-qualificate, almeno sulle grandi questioni che interessano tutta la Comunità, mentre su alcune materie cruciali deve essere richiesta l’unanimità. In alcuni casi andrebbe addirittura rivalutato, secondo Miglio, l’istituto del sorteggio, il “metodo democratico per eccellenza” per la scelta delle cariche pubbliche in tutte le antiche e ordinate repubbliche.

Un secondo aspetto fondamentale del neofederalismo è il culto della concorrenza. Perché una Costituzione federale abbia successo, spiega Miglio, l’intera società deve sviluppare una vera vocazione per la concorrenza: dalla competitività fra municipi e Cantoni, tra di loro e rispettivamente fra questi organi e gli altri della Federazione: «Questo significa che il federalismo ha un legame strettissimo con i principi della libera economia “di mercato” e non tollera nessuna forma di pianificazione sociale od economica» (p. 135).

 

I pregi del centralismo statale secondo Barbera

È giusto criticare gli eccessi di centralismo, replica Barbera, ma il federalismo non rappresenta sempre e necessariamente un fattore di progresso e di modernizzazione. In Francia ad esempio il centralismo parigino è stato lo strumento attraverso cui le idee di modernizzazione si sono diffuse in tutta la Francia: fu infatti attraverso le strutture centralizzate dello Stato, come i prefetti napoleonici, che la rivoluzione parigina venne portata nelle periferie. A quei tempi erano federalisti i girondini che frenavano la rivoluzione, proprio perché in periferia resistevano le “vandee” quali ultimi baluardi dell’antico regime.

Il centralismo, continua Barbera, è stato un fattore di modernizzazione anche in Italia. La classe dirigente liberale scartò la soluzione federalista e rifiutò perfino lo sviluppo delle autonomie locali e regionali, perché temeva che fossero fragili le basi di partenza e voleva impedire ai residui dell’antico regime, forti in periferia, di riprendere il sopravvento o comunque frenare l’azione della borghesia illuminata protagonista del Risorgimento.

Bisogna quindi fare molta attenzione oggi quando si parla del federalismo come formula che assicura il progresso: dietro al New Federalism degli Stati Uniti, per esempio, c’è il tentativo politico di smantellare lo Stato sociale così come è stato chiaramente espresso nella dottrina economica di Ronald Reagan (reaganomics), secondo la quale “la Federazione non si occupa degli scopi di benessere e delega questa funzione alle Comunità locali, quando queste ritengono di doverne sopportare i costi”. In definitiva, conclude Barbera, bisogna relativizzare sia il centralismo statale sia il federalismo, senza dimenticare che lo Stato nazionale ha avuto un peso assai rilevante nella crescita del concetto moderno di cittadinanza e di libertà.

 

Il parassitismo politico

Miglio ricorda che lo Stato sociale difeso da Barbera è un prodotto immediato della “rivoluzione industriale” che ha generato un enorme incremento delle ricchezze visibili e un aumento conseguente delle porzioni di umanità scatenate a dividersele. Dove c’è ricchezza, infatti, si crea sempre una porzione di umanità che cerca di appropriarsene, e così è stato anche durante la rivoluzione industriale. All’inizio vi fu la richiesta di maggior partecipazione alla ricchezza da parte di quelle classi lavoratrici che in qualche modo erano coinvolte nel processo produttivo. Successivamente però la richiesta di partecipare al nuovo Bengodi è arrivata anche da soggetti estranei a tale processo, cioè da quei ceti parassitari che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento hanno prolificato. Questo infatti è il periodo di massima espansione burocratica in Europa: gli occupati nel settore pubblico aumentano circa del 500 per cento.

Ma da dove viene, si chiede Miglio, quest’idea che la ricchezza debba essere distribuita anche a coloro che non partecipano alla produzione della stessa? La spiegazione è che dove c’è ricchezza gli uomini cercano d’impadronirsene ad ogni costo e creano giustificazioni ad hoc per la propria rapacità: «È questo l’arcano dello “Stato sociale” e di tutte le sue forme degenerative: una parte dell’umanità preferisce organizzarsi (o utilizzare le strutture sociali esistenti) per vivere alle spalle degli altri» (p. 34).

Secondo una logica razionale della libera economia, un individuo ha diritto ad avere un tenore di vita esattamente proporzionato alla ricchezza che egli contribuisce a creare con la propria attività. Il mondo è invece orientato in senso opposto, cioè si pretende ciò su cui non si ha alcun diritto naturale: il che non è altro che una forma, magari elegante, di rapina. In altri termini, non esiste una maggiore giustificazione oggettiva dello “Stato sociale” di quanta non ne possa trovare l’“espropriazione proletaria”. Anche chi crede a certe ideologie religiose o etiche solidaristiche, non può considerare la “carità coatta”, che si realizza tramite la tassazione, alla stessa stregua della carità cristiana o della filantropia, che per loro stessa natura devono nascere dalla libera volontà dei singoli.

 

Il federalismo come soluzione della crisi dello Stato sociale

Solo i governi che dispongono di ingenti risorse finanziarie, continua Miglio, possono diffondere la falsa idea che esista un “corno dell’abbondanza” di cui non si vede mai la fine, e su questa illusione fondano le politiche di scambio di favori e privilegi contro voti elettorali: «Lo “Stato sociale” è quindi un prodotto dello “Stato nazionale” centralizzato di grandi dimensioni, ed è un sistema, alla lunga, fallimentare» (p. 39).

Il sistema federale, in cui la solidarietà fra Cantoni nasce dall’iniziativa libera di questi ultimi e non da un atto d’imperio dell’autorità federale, implica invece una maggiore attenzione dei cittadini-contribuenti alla gestione delle risorse finanziarie. Per sua natura, dunque, quello federale è un regime che “bada al soldo” e frena la spesa pubblica. In un sistema federale il costo della pubblica amministrazione ricade interamente sugli abitanti del Cantone e, per fare un esempio, se la Calabria ritiene che il numero di forestali, patentemente gonfiato, sia assolutamente irrinunciabile, dovrà tassare i propri abitanti per mantenerli.

Per questa ragione Miglio ritiene che per spezzare il circolo vizioso del voto di scambio e del conflitto di interessi sia indispensabile togliere il diritto di voto a tutti coloro che vivono mantenuti con il denaro pubblico, come politici, i dipendenti statali o i cassintegrati: «è inammissibile che qualcuno decida per se stesso con i soldi degli altri. Io considero inaccettabile, secondo un criterio di giustizia ed eguaglianza (in uno Stato di diritto), che proprio coloro che dovranno ricevere ciò che è stato prelevato, decidano quanto prelevare dalle tasche dei propri concittadini» (p. 70).

Inoltre i cittadini non possono pretendere che l’amministrare diventi una fonte di reddito. I funzionari pubblici dovrebbero essere assunti solo per un tempo strettamente limitato per specifiche esigenze, e anche le cariche politiche dovrebbero essere onorifiche. Miglio ricorda che in Svizzera i parlamentari vengono indennizzati solo per le spese che sostengono, e così accade per altre attività pubbliche della Confederazione. Se l’Italia non potesse più utilizzare allegramente il voto di scambio per le sue regioni del Sud, conclude Miglio, sarebbe spacciata come Paese: senza la possibilità di utilizzare la spesa pubblica come strumento di auto-perpetuazione della classe politica non potrebbe più esistere lo Stato come lo conosciamo noi.

 

L’Unione Europea come cartello tra Stati

Vi è un fatto di cui nessun economista parla, e che dimostra come in realtà l’Unione Europea non sia altro che il “cartello” dei governi centralizzati e degli Stati nazionali. Il carattere di ulteriore fardello sui contribuenti che ormai assunto l’Unione è ben chiaro agli abitanti dell’Europa “fredda”, mentre nell’Europa meridionale ci si attendono enormi vantaggi dall’Unione, sopra tutto in termini di elargizioni pubbliche. Se devo essere franco fino in fondo, scrive Miglio, sono assai scettico sull’”europeismo” di italiani, spagnoli e greci: «A mio avviso queste popolazioni sperano di fare lo stesso giochetto che in Italia è riuscito alle Regioni meno sviluppate: utilizzare i pubblici poteri per vivere al di sopra delle proprie possibilità economiche» (p. 143).

Dietro l’Europa di Maastricht e di Bruxelles, continua Miglio, vi è l’intento di costruire un grande Stato nazionale europeo, fondato per di più sugli Stati nazionali. Questa è la strada peggiore possibile, mentre al contrario la forma del contratto, del trattato, dell’adesione volontaria ad accordi sempre più ampi, è destinata a dominare il futuro del continente. Per questa ragione il professore comasco pensa che un’eventuale Padania indipendente dovrebbe essere neutrale come la Svizzera, cioè allargare l’area dei soggetti non allineati, per negoziare la propria posizione. L’idea potrebbe essere quella di costruire un modello di Padania neutrale unita alla Confederazione Elvetica, nel tentativo di creare un’area di negoziazione e di freno alla costruzione centralista bruxellese.

 

 Barbera: la secessione è sempre contro la Costituzione

Secondo Barbera un diritto costituzionale a secedere è manifestamente assurdo per la natura stessa della Costituzione. Non è possibile secedere in modo costituzionale perché la Costituzione, non solo quella italiana ma qualunque Costituzione, essendo un patto a garanzia dell’unità politica di uno Stato, esclude la secessione per propria stessa natura. Si può cambiare tutto ciò che si vuole, sempre restando nella legalità costituzionale (costituzioni non emendabili non possono esistere), ma non si può dar vita a due diverse Comunità politiche, mutilare il territorio, senza violare la Costituzione. Nessun diritto di secessione può essere costituzionalizzato, perché così facendo la Costituzione negherebbe se stessa.

Il diritto internazionale riconosce due condizioni per l’esercizio di tale diritto: primo, che ci sia un popolo sottomesso vittima di violazioni intollerabili dei diritti fondamentali. Lo è quello padano? I padani Prodi e Scalfaro opprimono forse questo popolo? La seconda condizione è che tale discriminazione sia continuata e talmente pesante da minacciare concretamente la sua esistenza senza che si intravedano probabilità che la discriminazione abbia fine. Condizioni, conclude Barbera, che al mondo d’oggi sono ritenute presenti nella Namibia, nel Sahara occidentale e nell’isola di Timor, ma non certo in Italia.

 

Miglio: la secessione è un diritto pre-politico

Miglio ritiene invece che la secessione sia lo strumento per arrivare a quel “federalismo diffuso” che dovrebbe costituire l’assetto dei paesi civili all’inizio del XXI secolo. La secessione è il diritto al distacco che viene fatto valere come suprema garanzia della propria indipendenza (“Voi mi volete sottomettere, allora io me ne vado”), ed è il presupposto stesso del federalismo, dato che una Costituzione in cui il diritto di secessione sia implicitamente o esplicitamente escluso non sarà mai una costituzione federale, ma una Costituzione unitaria: «la porta da cui uscire deve rimanere sempre aperta; magari non la si varcherà mai, ma il sapere che c’è crea una possibilità di contrattazione che è fondamentale» (p. 177).

In sostanza, il diritto di secessione è il diritto di stare con chi si vuole e con chi ci vuole. È un diritto pre-politico nel senso che sta a monte della Costituzione e di ogni ordinamento. È un diritto simile a quello di resistenza, proprio perché naturale, inalienabile e indisponibile da parte del potere politico. Il diritto di secedere è un diritto pre-politico che precede, al pari del diritto di resistenza, ogni Comunità politica organizzata. L’utilità pratica di un tale diritto è evidente: esso serve a garantire il carattere volontario e consensuale dell’aggregazione politica. Inoltre l’accoglimento del diritto di secessione sta ad indicare l’irreversibilità del processo federale: “pluralismo” e “tutela delle diversità” diventerebbero principi intangibili dell’ordinamento giuridico e non concessioni dei governanti, soggette quindi agli umori del potere politico.

È opportuno secondo Miglio che vengano costituzionalizzate le regole per instaurare un processo di secessione, per due ordini di motivi di pari importanza. In primo luogo, nella storia umana il mancato inserimento nella Costituzione di un tale diritto ha provocato troppe vittime: si pensi agli oltre 600.000 morti su una popolazione di circa 32 milioni in America durante la guerra civile.

Il costo in vite umane immolate sull’altare dell’unità non può più essere ignorato da nessuno, anche ai nostri giorni: Cecenia, Bosnia, Paesi Baschi, non sono che esempi di un folle accanimento a voler difendere un’unità fittizia, uno Stato pensato come qualcosa di intoccabile, di “sacro”: «Io trovo in fondo mostruosa l’ossessione con cui si combattono ancora oggi, alla fine del secolo XX, i tentativi di alcuni popoli di rendersi indipendenti» (p. 182). In secondo luogo, l’inserimento in Costituzione di un diritto a secedere segnerebbe il passaggio dalle catene del patto politico perpetuo, destinato a durare indefinitamente per tutte le generazioni future, ad un ordinamento per uomini liberi.

Per Miglio vi  è un nesso fondamentale tra secessione e auto-governo: «Infatti a chi mi chiedesse “quando è giustificata la secessione?” io risponderei: sempre. Perché, in realtà, dire che non si può secedere, significa affermare che gli uomini non hanno alcun diritto all’autogoverno». Il fondamento di ogni giusto governo, infatti, è il consenso dei governati: è questa la grande lezione della Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776. Con il consenso, conclude Miglio, si può fare tutto, cambiare i governi, cambiare bandiere, unirsi a un altro paese, formarne uno nuovo.

 

L’approdo libertario

Il neofederalismo di Miglio, fortemente antistatalista, finisce quindi per assumere, soprattutto nelle sue ultime elaborazioni, una coloritura libertaria. Anche l’ambiente, secondo Miglio, andrebbe gestito in maniera il più possibile decentralizzata e privatistica: «Se fossi io a decidere, non trasferirei la proprietà di nessun parco naturale, piccolo o grande che sia, a un potere politico, ma “privatizzerei” interamente il Gran Paradiso … Quando un bene ha un suo proprietario ben individuabile, infatti, costui si assume personalmente le conseguenze dei danni che provoca, ne paga i costi. Quando le proprietà sono “pubbliche” sono alla mercé di ogni inquinatore” (p. 51).

Barbera accusa Miglio di essersi avvicinato a una posizione “anarco-individualista”, e il professore comasco non nega di avere in comune con questa corrente il realismo politico, cioè una concezione assolutamente disincantata del potere. A suo avviso le concezioni organicistiche elaborate nel corso dei secoli dalla scienza politica occidentale sono molto più insoddisfacenti, dal punto di vista scientifico, delle descrizioni dello Stato di Henry David Thoreau e Albert Jay Nock. Per questa ragione Miglio accoglie la possibilità di secessione di minime unità territoriali, e non esista a prendere in considerazione l’ipotesi estrema della secessione individuale, pur ammettendo che su questo tema mancano studi e teorizzazioni.

 

CITAZIONI RILEVANTI

Il federalismo è concorrenza

«La concorrenza è lo strumento dell’arricchimento personale e dell’intera società. E il federalismo, sotto questo profilo, non fa che portare nelle istituzioni politiche i principi della concorrenza che vigono (o almeno dovrebbero valere) per la libera economia. In sintesi: più istituzioni si fanno concorrenza sullo stesso territorio, come più imprenditori offrono, a prezzo e qualità diversi, lo stesso prodotto e lo stesso mercato» (G. Miglio, p. 135).

 

Produttori e consumatori di tasse

«In ogni momento storico gli individui di una Comunità politica si dividono naturalmente in produttori e consumatori di tasse. Quando i consumatori di tasse prendono il sopravvento tramite le assemblee politiche e considerano i produttori i propri schiavi fiscali … la struttura parassitaria mette in crisi tutta la Comunità politica. A quel punto o si riforma totalmente il sistema, o ci si rassegna alla rivoluzione che, per definizione, non è pilotabile» (G. Miglio, p. 73-74).

 

Il sorteggio come regola di decisione autenticamente democratica

«Io sono un fautore dell’uso più ampio possibile del principio del sorteggio, perché si tratta di un criterio democratico. È effettivamente l’unico criterio fondato sul principio di eguaglianza, perché tutti hanno la stessa probabilità di essere sorteggiati e tutte le opinioni hanno effettivamente lo stesso peso. Non esiste nulla di meno aristocratico od oligarchico del caso … Inoltre, il sorteggio è più autenticamente democratico dell’elezione, perché quest’ultima crea una differenza permanente fra coloro i quali sono eletti e coloro i quali eleggono … Con l’avvento dell’era dei parlamenti, della nuova oligarchia, dalla seconda metà del Settecento di sorteggio non si parla più. Gli ultimi che hanno riproposto il sorteggio sono stati gli anti-federalisti americani» (G. Miglio, p. 124-125)

 

Punti da Ricordare

Secondo Miglio, il dogma dell’unità statuale e del potere accentrato è l’ideologia vincente da secoli

Lo Stato moderno ha raggiunto la sua più completa realizzazione con i totalitarismi novecenteschi

Oggi il modello ottocentesco di Stato nazionale è in crisi irreversibile

Non è possibile migliorare la macchina statale lasciando intatta la sua struttura di fondo

Occorre passare da un sistema basato sull’obbligo politico a uno basato sull’obbligo contrattuale

La soluzione è Il neofederalismo, che vuole gestire la diversità disaggregando le grandi unità territoriali

Il federalismo esalta la concorrenza e ha una stretta relazione con l’economia di mercato

Secondo Barbera, il centralismo in alcune occasioni storiche è stato un fattore di progresso e modernizzazione

Gli esempi positivi sono la Rivoluzione francese e il Risorgimento italiano

Dietro al neofederalismo degli Stati Uniti c’è il tentativo politico di smantellare lo Stato sociale

Il parassitismo politico, osserva Miglio, è una costante dei sistemi politici centralizzati e burocratici

Il federalismo, tenendo sotto controllo la spesa pubblica, rappresenta la soluzione della crisi dello Stato sociale

Bisognerebbe togliere il diritto di voto a tutti coloro che vivono mantenuti con il denaro pubblico, perché in contrasto di interessi

I funzionari pubblici dovrebbero essere assunti solo per un tempo strettamente limitato, e le cariche politiche dovrebbero essere onorifiche

Con l’Unione Europea si vuole riprodurre un Super-Stato centralizzato su scala continentale

Un’eventuale Padania indipendente dovrebbe essere neutrale come la Svizzera

Secondo Barbera, non può esistere per definizione un diritto costituzionale a secedere

Per Miglio il diritto di secessione è un diritto pre-politico come il diritto di resistenza

Vi è un nesso fondamentale tra secessione e auto-governo

Nella sua forma libertaria, il neofederalismo garantisce il diritto di secessione anche alle più piccole entità politiche

 

GLI AUTORI

gianfranco Miglio

Gianfranco Miglio (1918-2001) nasce a Como l’11 gennaio 1918. Si laurea in giurisprudenza a Milano nel 1940. Diventa professore ordinario all’Università Cattolica nel 1956, e ricopre la carica di preside della facoltà di scienze politiche della stessa università dal 1959 al 1989. Nei primi anni Ottanta dirige il gruppo di Milano, che elabora una proposta di riforma costituzionale capace di rendere più efficiente il corrotto sistema partitocratico italiano. Nei primi anni Novanta si avvicina alla politica, e diventa l’intellettuale di riferimento della Lega Nord. Nelle liste di questo partito entra in Senato nel 1992. La sua importante proposta di riforma federale viene approvata nel 1993 nel Congresso di Assago. Il professore conquista un’enorme popolarità nella base elettorale, ma proprio questo fatto scatena le gelosie del leader del partito Umberto Bossi, che nel 1994 preclude a Miglio la nomina di Ministro per le Riforme Istituzionali nel primo governo Berlusconi. La rottura è inevitabile. Miglio continua la sua battaglia politica e intellettuale come senatore indipendente fino alla sua morte, che avviene a Como il 10 agosto del 2001.

Augusto Barbera

Augusto Barbera nasce ad Aidone, in provincia di Enna, il 25 giugno 1938. È un giurista, accademico e politico italiano, professore emerito di diritto costituzionale nell’Università di Bologna. Dal 1976 al 1994 è stato eletto alla Camera dei deputati nelle liste del PCI e del PDS. Dal 1987 al 1992 è stato Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali, nonché, dal 1992, Vicepresidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Nell’aprile 1993 è stato nominato Ministro per i Rapporti con il Parlamento nel Governo Ciampi. Dal 21 dicembre 2015 è giudice della Corte costituzionale.

 

Vuoi leggere centinaia di riassunti come questo riguardanti i più importanti libri di saggistica? Abbonati a Tramedoro. I grandi libri delle scienze sociali in pillole!

 

INDICE DEL LIBRO

VII        Premessa

3          1. Federalismo, Stato moderno e ideologia

33        2. Stato sociale e federalismo

91        3. Neo-federalismo e neo-regionalismo: modelli a confronto

137      4. L’Unione Europea

153      5. La Lega e la Padania

173      6. Il diritto di secessione

189      7. Conclusioni

NOTA BIBLIOGRAFICA

Gianfranco Miglio, Augusto Barbera, Federalismo e secessione. Un dialogo, Mondadori, Milano, 1997.