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L’isola di Arturo di Elsa Morante

Einaudi, edizione del 1975
Isola di Procida, agosto, 2019
Ph. Fulvia Tilli / Isola di Procida, agosto, 2019

Se c’è un libro magico, misterioso, eppure semplice allo stesso tempo, pieno di non detti o di immaginati, beh quel libro è proprio “L’isola di Arturo”, il secondo romanzo di Elsa Morante pubblicato nel 1957 e vincitore del Premio Strega dello stesso anno.

Il libro si apre in maniera inusuale, con una poesia “Dedica a Remo N.”, che, nei suoi ultimi versi, suona come un vero e proprio richiamo e programma:

“E tu non saprai la legge

ch'io, come tanti, imparo,

- e a me ha spezzato il cuore:

fuori del limbo non v'è eliso”.

È proprio in quell’ultimo verso “Fuori del limbo non v’è eliso” che si cela buona parte del senso profondo del libro, qualcosa che, vi spiegherò come, lo rende un libro diverso da quanto possa apparire ad una prima lettura.

La Morante racconta una storia semplice, si è detto, utilizzando un io narrante che nasconde l’Autrice stessa, espediente tipico dello scrittore che voglia imprimere empatia al suo racconto, ma ricco di insidie.

Chi racconta è Arturo Gerace, un ragazzo orfano di madre e con un padre spesso assente e desiderato, che vive sull’isola di Procida (almeno questo è quanto si comprende dalla narrazione, anche se poi Morante utilizzerà anche immagini dell’isola di Ischia) e viene fotografato durante i primi sedici anni della sua vita, in tutte le sue epifanie, in tutte le sue iniziazioni emotive.

Un’isola, dunque, che è anche, tra le tante cose, il primo tempo della vita, quello più felice, quello che te ne rendi conto solo quando è troppo tardi perché quando lo vivi, come fa Arturo, vuoi diventare grande, e ti pare tutto stretto e sacrificato.

In questo modo, usando simboli, sogni, esperienze, Elsa Morante realizza quello che può essere considerato un testo a mezza via tra il romanzo di formazione e la favola, arricchendo il testo di suggestioni quasi magiche e a tratti oniriche.

Quella in cui ci immerge la Morante è l’età della fantasia, della scoperta della propria intimità e del proprio corpo, delle angosce e delle paure dei rapporti con gli altri, quelle sensazioni tipiche dell’età adolescenziale. La forza del romanzo parrebbe tutta qui: l’immedesimazione di ogni adolescente, che si ritrova a riconoscere i tratti nostalgici e poetici del ragazzo, animato da una smania di crescere, di diventare grande, utilizzando la metafora della barca con cui si muove, insieme al fidato cane, Immacolatella, nelle acque di Procida alla ricerca di nuove avventure.

Un romanzo per ragazzi, insomma.

Ecco, questo sarebbe l’errore più grande e l’approssimazione più facile che potremmo fare, perché se è vero che “L’isola di Arturo” è un romanzo bellissimo, a mio avviso non è un libro per ragazzi, almeno non solo. È il libro di tutti, un testo esperienziale, una continua iniziazione sensoriale ed emotiva, con una serie innumerevole di tratti magici, misteriosi, irrisolti (pensiamo a Nunziatella, la sposa bambina che il padre porta a casa e che segna la perdita dell’innocenza di Arturo).

Un romanzo ricco di simboli, in cui anche l’isola, come luogo fisico e ideale, ha un suo scopo preciso.

Riporto un passo tratto dall’edizione Einaudi “Gli struzzi 70” uscita nel 1975, con la bellissima copertina di Ben Shan (che sta orgogliosamente nella biblioteca di mio padre e che rileggo con una certa commozione):

“Nelle figurazioni dei miti eroici, l'isola nativa rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la tentazione delle terre ignote. L'isola, dunque, è il punto di una scelta: e a tale scelta finale, attraverso le varie prove necessarie, si prepara qui nella sua isola, l'eroe-ragazzo Arturo. È una scelta rischiosa, perché non si dà uscita dall'isola senza la traversata del mare materno: come dire il passaggio dalla preistoria infantile verso la storia e la coscienza”.

Perché, come detto, “Fuori del limbo non v’è eliso” ed è già pronta l’età della disillusione e della delusione.

La Morante ricorre a una prosa perfetta.

Io non ho trovato nel testo una sola parola che, cambiandola con una simile o con un sinonimo, avrebbe potuto dare un risultato migliore (una cosa simile mi era capitata finora, in Italia, soltanto con Carlo Emilio Gadda).

La Morante cesella il tutto col bulino, utilizzando un linguaggio poetico e delicato, limpido ed espressivo, anche realistico e vero, semplice.

Perché, e qui torniamo all’inizio, la vera, grande forza di questo libro sta nella semplicità, che è sempre una apparenza, foriera di non detti e di volutamente sottintesi, irrisolti, oltre ad essere, e questo è sempre più vero, la cosa più rara e preziosa, fonte di continue e vitali scoperte.