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Un ottimista razionale

Matt Ridley, 2010
Matt Ridlet, un ottimista razionale
Matt Ridlet, un ottimista razionale
un ottimista razionale

Un ottimista razionale, Matt Ridley

 Perché leggere questo libro

Matt Ridley è oggi uno dei più noti scrittori su argomenti scientifici. Le sue idee sono spesso in controtendenza rispetto a quelle prevalenti, perchè esprimono una visione positiva e fiduciosa per il presente e il futuro dell’umanità. Un ottimista razionale sfida la razza umana ad accogliere i cambiamenti a braccia aperte e ad adottare un atteggiamento di razionale ottimismo.

L’idea centrale di Ridley è che l’umanità si è differenziata dalle altre specie animali non tanto per la maggiore intelligenza dei suoi membri, ma per la loro innata tendenza alla cooperazione, alla specializzazione, allo scambio. Gli scambi di idee, beni e servizi hanno generato una sorta di “mente collettiva” che permette ai singoli individui di usufruire delle conoscenze di miliardi di altre persone che nemmeno conoscono. In questo modo l’umanità ha sviluppato un’impareggiabile capacità di risolvere le sfide economiche e ambientali più pressanti.

 

Punti chiave

  • Le condizioni dell’umanità non sono mai state migliori di oggi
  • È la cooperazione, non l’intelligenza, che ha fatto progredire l’umanità
  • Attraverso gli scambi l’umanità ha generato un’immensa intelligenza collettiva
  • Nelle società fondate sul commercio fioriscono la compassione e la creatività
  • I grandi imperi hanno spesso distrutto la ricchezza generata dai mercati
  • La frammentazione politica è di solito favorevole alla crescita economica
  • Le fonti energetiche moderne hanno eliminato la schiavitù antica
  • Dalla specializzazione e dallo scambio è emersa la macchina dell’innovazione perpetua
  • L’errore dei catastrofisti è quello di estendere al futuro delle tendenze attuali destinate a cambiare
  • Esistono ragioni razionali per essere ottimisti sul futuro.

 

Titolo originale: The Rational Optimist. How Prosperity Evolves

 

Riassunto

L’umanità non è mai stata meglio di adesso

Dal 1800 a oggi la popolazione mondiale si è moltiplicata di sei volte, eppure l’aspettativa di vita è più che raddoppiata e il reddito reale è aumentato di nove volte. Consideriamo ora un periodo più limitato. Il 1955 fu un anno di benessere record rispetto al passato, eppure cinquant’anni dopo, nel 2005, una persona guadagna tre volte tanto, consuma un terzo di calorie in più, perde un terzo dei figli e ha un’aspettativa di vita più lunga di un terzo. Tutto questo in un periodo in cui la popolazione mondiale è più che raddoppiata, e in cui, lungi dall’essere razionati dalla pressione demografica, i beni e i servizi disponibili sul mercato si sono moltiplicati.

Nel 1958 l’economista J.K. Galbraith denunciava i difetti della “società opulenta”, ma se ci guardiamo indietro adesso, la classe media del 1955, orgogliosa delle sue automobili e dei suoi elettrodomestici, ci appare al di sotto della soglia di povertà: oggi un messicano vive in media più a lungo di un inglese del 1955; un botswaniano guadagna di più di un finlandese del 1955; in Nepal la mortalità infantile è più bassa di quanto lo fosse in Italia nel 1951.

Questo enorme arricchimento si è avuto grazie alla diminuzione dei prezzi al consumo. La prosperità non è altro che l’aumento della quantità di beni e servizi acquistabili con la stessa quantità di lavoro. Tutto questo l’abbiamo guadagnato grazie allo scambio, alla specializzazione e alla divisione del lavoro. Qualsiasi cibo o portata che Luigi XIV abbia mai visto nelle sue cucine impallidirebbe di fronte allo straordinario assortimento di prodotti che si trova in un normale supermercato. Oggi noi abbiamo molti più “servitori” del Re Sole, perché ogni giorno quando ci alziamo dal letto sappiamo che qualcun altro ci fornirà il cibo, i tessuti e il combustibile di cui abbiamo bisogno. L’accrescimento cumulativo della conoscenza specialistica ci permette di consumare sempre più cose producendone individualmente sempre meno. Questa grandiosa impresa dell’umanità che progredisce dura, con qualche battuta d’arresto, da almeno diecimila anni.

 

La nascita dell’intelligenza collettiva

Ma perché l’umanità, a differenza di tutte le altre specie animali che popolano il pianeta, ha progredito? Cosa abbiamo di diverso?

La risposta, secondo Ridley, non va individuata nel clima, nella genetica o nella cultura, ma nell’economia.

Gli esseri umani cominciarono a fare qualcosa tra loro che diede inizio alla costruzione di un’intelligenza collettiva. Si misero a scambiare oggetti con individui non imparentati con loro, a condividere, barattare e commerciare. I nostri antenati incapparono in quella che l’economista Friedrich von Hayek ha definito catallassi: l’inarrestabile espansione delle possibilità generata da una crescente divisione del lavoro. Così nacque il progresso.

La spiegazione di questa nostra straordinaria capacità di cambiamento non va ricercata nell’intelligenza, ma nella cooperazione. Il fenomeno non ha avuto luogo nel cervello, ma fra i cervelli. Non sono cambiate le nostre menti, ma i collegamenti fra le nostre menti. Infatti, non c’è niente di speciale nel cervello degli uomini moderni; è stata la loro rete commerciale a fare la differenza sulle altre specie, a fungere da cervello collettivo. Per lunghissimo tempo gli uomini hanno vissuto isolati in piccoli gruppi, con pochi o nulli scambi fra loro. Poi a poco a poco le idee hanno cominciato a incontrarsi, a contaminarsi, ad accoppiarsi, a “fare sesso”. Quando ciò accadde, all’improvviso la cultura divenne cumulativa e quel grande, irrefrenabile esperimento chiamato progresso economico ebbe inizio. Il successo degli esseri umani dipende in maniera fondamentale dal loro numero e dai contatti che sono in grado di stabilire tra loro, perché poche centinaia di persone non possono sostenere un’economia complessa. Il commercio è dunque una componente fondamentale della nostra storia.

 

Il commercio porta la civiltà

Il commercio ha origini preistoriche ed è onnipresente. Gli esploratori occidentali come Cristoforo Colombo o il capitano Cook si accorsero che tutte le tribù indigene lo conoscevano benissimo. Lo scambio infatti è un’attività benefica a chi riceve e a chi dà: è questo il gioco di prestigio che fa arricchire il mondo. Eppure basta guardare intorno per vedere quanto siano in pochi a pensarla così. Il pensiero “a somma zero”, secondo cui un contraente si avvantaggia sempre a danno dell’altro, domina il discorso pubblico.

Sembra che il concetto di beneficio reciproco non venga naturale alle persone. Agli occhi dei più il mercato non appare come un luogo virtuoso, ma come un’arena in cui i consumatori lottano con i produttori. Questo errore ha fatto fallire molti “ismi” nei secoli scorsi: il mercantilismo, secondo cui le esportazioni arricchirebbero una nazione mentre le importazioni lo impoverirebbero, o il marxismo, secondo cui i capitalisti si arricchiscono perché i lavoratori si impoveriscono.

In verità, osserva Ridley, tanto le premesse quanto le conclusioni di queste tesi sono sbagliate. Le società di mercato creano legami di fiducia tra gli uomini, perché chi guadagna la reputazione di disonesto non troverà più nessuno disposto a fare affari con lui. La rapida “commercializzazione” della vita dall’Ottocento in avanti ha coinciso con uno straordinario aumento della sensibilità umana, facendo scomparire la diffusa crudeltà dei secoli passati. Anche l’idea che il mercato distrugga la carità predicando l’egoismo è inesatta: casomai è la previdenza sociale che si sostituisce alla carità, mentre esiste un legame diretto fra la libertà economica e la beneficenza. I liberali spesso si rivelano più generosi dei socialisti, perché pensano che occuparsi dei poveri sia un dovere individuale, non del governo attraverso la spesa pubblica.

Il commercio ha a cuore le minoranze. Mentre le decisioni politiche sono per definizione monopolistiche, illiberali e dispoticamente maggioritarie, i mercati cercano di soddisfare anche le esigenze di nicchia dei consumatori. Il commercio arricchisce anche la cultura e stimola lo spirito: che si parli di Atene, Firenze, Pisa, Venezia, Amsterdam o Londra, le società dedite al commercio hanno prodotto le più grandi opere dell’arte o del pensiero. In conclusione, laddove prospera il commercio fioriscono compassione e creatività.

 

10.000 anni di agricoltura

L’altra grande rivoluzione della storia umana è stata l’agricoltura, che nel giro di qualche migliaio di anni apparve in maniera indipendente in Medio Oriente e in altre parti del mondo. Qualcosa deve averla resa inevitabile, quasi come fosse un passaggio obbligato per l’umanità, ma a differenza di quanto si crede il commercio nacque prima dell’agricoltura.

Le prime comunità agricole non erano isolate e autosufficienti, ma erano già inserite in una rete commerciale.

La rivoluzione neolitica donò all’umanità un apporto calorico quasi illimitato. Nei millenni successivi ci furono ancora carestie, ma la densità demografica non si ridusse più ai livelli preagricoli. Con l’agricoltura gli uomini adottarono nuove abitudini di vita, compresa l’idea della proprietà, dato che la prima persona che seminò un campo di grano ha dovuto affermare: “Questo è mio; solo io posso mieterlo”.

Da allora l’umanità ha accumulato una quantità di conoscenze tecniche nel campo agricolo che ha del miracoloso, e che ancora oggi non smette di crescere. Negli anni Sessanta del XX secolo la varietà di frumento sviluppata dallo scienziato Norman Borlaug innescò una “rivoluzione verde” che fece scomparire le carestie dal continente asiatico malgrado l’enorme aumento della popolazione, smentendo le tesi dei catastrofisti come Paul Ehrlich. Lo sviluppo dell’agricoltura intensiva e degli OGM ha portato non solo immensi benefici alimentari, ma anche ambientali, perché ha ridotto del 44 per cento la terra destinata alla coltivazione, riservandola alla natura.

 

Il trionfo delle città

Anche le città esistono in funzione del commercio, perché sono luoghi in cui le persone si riuniscono per dividere il lavoro, specializzarsi e fare scambi. I primi grandi insediamenti urbani compaiono per la prima volta 7000 anni fa nelle fertili valli fluviali della Mesopotamia. Uruk, con più di 50.000 abitanti, fu probabilmente la prima grande città mai apparsa sulla faccia della terra, ma decadde secondo uno schema che si sarebbe riproposto per i 6000 anni successivi: i mercanti e gli artigiani generano ricchezza, i politici la nazionalizzano e la sperperano. Infatti, quando le aree di libero scambio finiscono sotto una dominazione imperiale, la ricchezza generata dal commercio viene dirottata, attraverso tassazioni, regolamenti e monopoli, per sovvenzionare i lussi della minoranza e l’oppressione della maggioranza. Tutti gli imperi successivi, da quello egizio a quello romano, da quello indiano a quello cinese, seguirono lo stesso ciclo. Nel 1500 a.C. le regioni più prosperose del mondo erano ormai sprofondate nella stagnazione di un “socialismo di palazzo” causato dalla progressiva nazionalizzazione delle attività mercantili.

Per fortuna le buone idee non muoiono mai. Intono al 1200 a.C. il declino degli imperi permise ai “popoli del mare” come i fenici di sviluppare una serie di innovazioni marinare e contabili, che generarono un’ondata di divisione del lavoro in tutto il Mediterraneo. I fenici non fondarono mai un’unica unità politica, ma solo città federate come Tiro, Sidone, Cartagine e Gadir.

Questo illustra un’altra lezione importante: spesso la frammentazione politica è alleata del progresso economico perché pone un freno al potere e all’autorità. Infatti anche la straordinaria diffusione della prosperità e della cultura nel mar Egeo fra il 600 e il 300 a.C. si deve al fatto che la Grecia era divisa in piccole città-stato indipendenti, ma appena fu unificata da Filippo II di Macedonia cominciò a perdere colpi. Anche la Cina ha vissuto i suoi momenti migliori quando era un paese frammentato, ma entrò in una lunga stagnazione con la dinastia centralizzatrice dei Ming.

La frammentazione politica fece anche la fortuna dell’Europa moderna, soprattutto dei paesi più aperti al commercio come l’Olanda e l’Inghilterra. Nell’800 la Gran Bretagna adottò unilateralmente una serie di misure per aprire i propri mercati al commercio internazionale. Questi interventi provocarono una riduzione delle tariffe doganali in tutti i paesi del mondo, e finalmente l’umanità vide la nascita di un autentico commercio mondiale libero: un esperimento fenicio su scala planetaria.

La lezione della storia è evidente: il libero scambio genera prosperità, il protezionismo genera povertà. È incredibile che qualcuno abbia mai pensato il contrario, dato che non esiste un solo esempio di paese che abbia aperto le proprie frontiere al commercio e si sia impoverito di conseguenza. Nel 2008, per la prima volta nella storia, oltre la metà della popolazione mondiale vive in città. Questo non è un male, ma un riflesso del progresso economico, perché più della metà degli esseri umani può oggi partecipare maggiormente alle possibilità offerte dall’intelligenza collettiva.

 

In fuga dalla trappola maltusiana

L’aumento della specializzazione insieme all’aumento della popolazione esiste solo nel mondo umano, non in quello animale. L’idea maltusiana secondo cui la disponibilità di cibo e risorse è inversamente proporzionale alla popolazione è applicabile quindi agli animali, ma non agli uomini. Erano dunque fondate su valutazioni errate le politiche denataliste coercitive invocate da molti intellettuali negli anni ’60, e sostenute in Occidente da un ampio consenso. Negli anni ’70 la sterilizzazione obbligatoria venne praticata in alcuni paesi asiatici come la Cina e l’India, rivelandosi crudele e fortemente impopolare. Fu anche inutile, dato che negli Anni ’70 la natalità stava già diminuendo velocemente in maniera volontaria.

Oggi gli indici di natalità sono ovunque in caduta libera rispetto a cinquant’anni fa. Il mondo sta vivendo la seconda metà di una transizione demografica, passando da una mortalità e fertilità alte a una mortalità e fertilità basse. Le cause non sono ancora chiare. Sono state indicate il calo della mortalità infantile, l’aumento della ricchezza, l’emancipazione femminile, l’urbanizzazione. Le ultime ricerche svelano inoltre una seconda transizione demografica: nei paesi molto ricchi, una volta oltrepassato un certo livello di prosperità, si è avuto un leggero aumento del tasso di natalità. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono passati dal minimo di 1,74 figli per donna nel 1976 al 2,05 di oggi. Le notizie sulla popolazione globale non potrebbero essere migliori. Più gli individui diventano ricchi e liberi, più i loro tassi di natalità si assestano intorno ai due figli per donna, senza che sia necessaria alcuna coercizione. Non è forse una buona notizia?

 

L’energia che liberò gli schiavi

L’impero romano fu edificato in gran parte grazie alla forza muscolare degli schiavi. Nel periodo successivo alla sua caduta si verificò però una diffusa sostituzione dell’energia umana con quella prodotta dai buoi e dai cavalli, dai mulini e infine dal carbone e dal petrolio. Sono stati quindi i combustibili fossili ad aver reso antieconomica la schiavitù, insieme all’energia ottenuta dagli animali, dal vento e dall’acqua.

L’Inghilterra sperimentò per prima lo sviluppo industriale perché nel ‘700 gli imprenditori manifatturieri britannici erano insolitamente liberi di investire, espandersi e fare profitti rispetto ai loro omologhi europei e asiatici. Grazie al miglior sfruttamento delle fonti di energia e alla meccanizzazione, la Rivoluzione industriale aumentò i redditi di tutte le classi sociali. Non ci sono dubbi sul fatto che gli abitanti delle campagne che si riversavano in città per lavorare nelle fabbriche migliorassero notevolmente il proprio tenore di vita.

Coloro che oggi si lamentano della dipendenza degli esseri umani dai combustibili fossili dovrebbero pensare che per ogni famiglia di quattro persone che vediamo per strada ci dovrebbero essere seicento schiavi che vivono nella povertà più abietta.  Se non fosse per i combustibili fossili il 99 per cento degli individui sarebbe costretto a vivere in schiavitù per garantire agli altri un tenore di vita accettabile, come accadeva negli imperi dell’Età del bronzo.

 

L’invenzione dell’invenzione

Gli economisti classici come David Ricardo, Thomas Malthus e John Stuart Mill non credevano che la crescita dovuta alla rivoluzione industriale sarebbe durata a lungo, perché a causa dei rendimenti decrescenti l’economia avrebbe raggiunto prima o poi uno stadio stazionario di stagnazione permanente. Questi economisti inglesi non avevano però compreso che il mondo delle idee, a differenza di quello degli oggetti fisici, non è soggetto a rendimenti decrescenti. Mentre i beni materiali si consumano, le idee si moltiplicano quanto più si diffondono. Più conoscenza si genera, più se ne può generare. È questa la ragione per cui l’umanità da migliaia di anni sperimenta dei rendimenti crescenti così veloci da distanziare persino l’esplosione demografica. La velocità di accelerazione dei rendimenti è balzata verso l’alto con la rivoluzione agricola di 10.000 anni fa, ha fatto un altro balzo nel XIX secolo ed è proseguita nel XX secolo.

Ma come è nata questa “invenzione dell’invenzione” che ha fatto dell’innovazione una routine? È da escludere che il volano sia stata la ricerca scientifica. In verità le macchine che hanno reso possibile la Rivoluzione industriale non sono state inventate da scienziati, ma da imprenditori che procedevano per tentativi. Anche oggi la maggior parte delle novità tecnologiche nascono nelle officine o sui posti di lavoro, non nei laboratori delle università. Neanche gli investimenti di denaro di per sé sono sufficienti a generare l’innovazione. Le grandi imprese che dispongono di grandi capitali, infatti sono di solito meno innovative delle piccole imprese. Va scartata anche l’idea che l’innovazione nasca dalla tutela della proprietà intellettuale, perché gran parte delle invenzioni non vengono mai brevettate. Infine, decisamente da respingere è l’idea che le politiche governative possano incentivare l’innovazione, dato che la sua imprevedibilità ma si concilia con il dirigismo dei funzionari pubblici.

La macchina perpetua dell’innovazione in realtà non è stata pianificata da nessuno ma è emersa dal basso, dalla specializzazione e dallo scambio. Nel mondo moderno è il sempre maggior scambio di idee che provoca il sempre maggior avanzamento dell’innovazione. Il mondo moderno è straordinariamente interconnesso, e le idee si fondono quindi con altre idee in tutto il pianeta con promiscuità crescente. Se non fosse per questo inesauribile fiume di invenzioni e scoperte, l’umanità avrebbe raggiunto già da molto tempo i propri limiti di crescita.

 

Le lamentele dei pessimisti

Se l’innovazione è infinita, perché tutti sono così pessimisti riguardo al futuro? Le librerie sono letteralmente sommerse da libri pessimisti, i quali sostengono che il mondo è un posto terribile, che sta peggiorando, che è soprattutto colpa del commercio, che è stato raggiunto un punto di svolta. La generazione che ha goduto di pace, libertà, tempo libero, istruzione, medicina, viaggi, film e telefoni cellulari più di qualsiasi altra nella storia si sta avvelenando di cupezza. Nel corso degli anni le ragioni del pessimismo sono cambiate a seconda delle mode, ma il pessimismo in sé è rimasto costante. Negli anni ’60 erano prime in classifica l’esplosione demografica e la carestia globale, nei ’70 l’esaurimento delle risorse, negli ’80 le piogge acide, nei ’90 le pandemie e oggi il riscaldamento globale. Salvo l’ultimo, ad uno ad uno questi allarmismi se ne sono andati così come erano venuti. È probabile che avverrà così anche per gli allarmi che ci assillano oggi, come la povertà dell’Africa e il cambiamento del clima.

L’errore tipico degli allarmisti è l’estrapolazionismo: si limitano a estendere nel futuro le tendenze presenti, e inevitabilmente giungono a conclusioni catastrofiche. Dato che tutti i trasporti dipendono dal petrolio, tutto si fermerà quando il petrolio finirà; dato che l’agricoltura dipende dall’acqua, ci sarà la fame quando le falde acquifere si esauriranno, e così via. Il punto fondamentale, tuttavia, è che il mondo non continuerà così com’è oggi.

La razza umana è diventata una macchina collettiva per la risoluzione dei problemi, che li risolve cambiando strada. Lo fa mediante invenzioni guidate spesso dal mercato: la scarsità relativa fa salire i prezzi, il che spinge allo sviluppo di alternative e modalità più efficienti.

 

La catallassi non si fermerà

È probabile che nel ventunesimo secolo ci sarà una continua espansione della catallassi, l’ordine spontaneo generato dallo scambio e dalla specializzazione. L’intelligenza diventerà sempre più collettiva, l’innovazione proverrà sempre più dal basso, il lavoro sarà sempre più specializzato. È proprio perché ci sono ancora tanta povertà, fame e malattie che il mondo deve stare attento a non ostacolare ciò che ha già migliorato l’esistenza di tante persone: gli strumenti del commercio, della tecnologia e del credito, della specializzazione e dello scambio.

È certamente possibile immaginare uno scenario negativo in cui, a un certo punto, predatori e parassiti vincano del tutto, o che le ideologie sbagliate riescano a fermare la catallassi e a rigettare il mondo nella povertà preindustriale. Oggi il mondo è così integrato che un’idea folle, che un tempo sarebbe restata all’interno di un paese o di un impero, potrebbe rapidamente impadronirsi di tutta la terra. Sarà però difficile spegnere del tutto la fiamma dell’innovazione, perché è un fenomeno evolutivo proveniente dal basso. Per quanto reazionari e cauti possono diventare l’Europa, il mondo islamico e perfino l’America, molto probabilmente la Cina, l’India, per non parlare della moltitudine di città libere e piccole nazioni, terranno accesa la torcia della catallassi.

 

Citazioni rilevanti

L’ottimismo razionale

«Questo libro sfida la razza umana ad accogliere i cambiamenti a braccia aperte, ad adottare un atteggiamento di razionale ottimismo e quindi a lottare per migliorare l’umanità e il mondo in cui viviamo ... Sono un ottimista razionale. Razionale perché non sono arrivato a posizioni ottimiste per indole o per istinto, ma esaminando le prove. Nelle pagine che seguo spero di trasformare anche voi in ottimisti razionali. Innanzitutto devo convincervi che il progresso dell’umanità è un fenomeno positivo e che, nonostante la nostra tendenza a lamentarci, il nostro pianeta è un posto bellissimo in cui vivere, almeno per l’essere umano medio: lo è sempre stato, e lo è persino oggi, in un’epoca di profonda recessione; che il mondo è più ricco, più sano e persino più “gentile” anche grazie al commercio, e non a dispetto di esso. Poi intendo spiegare come e perché sia diventato così. Infine voglio capire se possa continuare a migliorare» (p. 10, 12).

 

L’amigdala e il mouse

«Torniamo all’amigdala e al mouse. Entrambi sono oggetti creati dall’uomo, ma uno è stato fabbricato da un unico individuo, l’altro è il prodotto collettivo di centinaia di persone, forse persino di milioni. Ecco cosa intendo con intelligenza collettiva. Nessuno di noi è in grado di costruire un mouse da solo. L’operaio che lo ha assemblato non sa estrarre il petrolio necessario per fabbricare la plastica di cui è fatto. A un certo punto, l’intelligenza umana è diventata collettiva e cumulativa, e questo è stato un nostro sviluppo esclusivo, che non è capitato a nessun altro animale» (p. 7).

 

Meglio le multinazionali o gli enti pubblici?

«Le multinazionali hanno periodi d’oro più brevi rispetto agli enti statali: negli Stati Uniti la metà delle principali aziende esistenti nel 1980 è sparita, per fallimenti o acquisizioni; di converso, la metà delle grandi aziende odierne non esisteva ancora nel 1980. Lo stesso non può dirsi dei monopoli di Stato. L’agenzia delle entrate e il servizio sanitario nazionale non spariranno presto, a prescindere da quanto si dimostrino inefficienti; ciò nonostante, la maggior parte degli attivisti che attaccano le multinazionali ha fiducia nella buona volontà di questi leviatani pubblici che possono costringerci a fare affari con loro, mentre guardano con sospetto i behemot privati che devono invece implorarci per farlo. Lo trovo strano» (p. 124).

 

Che cosa ha portato l’agricoltura

«Gordon Childe e i suoi discepoli interpretarono la Rivoluzione neolitica come un miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani, e ne elencarono gli evidenti benefici: riserve cerealicole con cui superare le carestie; nuovi alimenti, come latte e uova; minore dipendenza da spedizioni di caccia faticose, pericolose e spesso infruttuose; un’occupazione anche per gli ammalati e le persone comunque non idonee alla caccia e alla raccolta; e forse anche più tempo libero per poter inventare la civiltà» (p. 148).

 

Elogio dei fenici

«La diaspora fenicia è uno dei grandi episodi taciuti dalla storia, taciuti perché Tiro e i suoi libri furono distrutti da criminali come Nabucodonosor, Ciro e Alessandro Magno, mentre Cartagine lo fu dagli Scipioni, per cui la loro storia ci è giunta attraverso i frammentari resoconti composti dai loro invidiosi e altezzosi contemporanei. Ma in tutta onestà, è mai esistito un popolo più ammirevole dei fenici? Quegli antichi mercanti collegarono insieme non solo l’intero Mediterraneo, ma anche le coste accessibili dell’Atlantico, il Mar Rosso e le vie carovaniere dell’Asia; eppure non ebbero mai un imperatore, mostrarono poco interesse per le diatribe religiose e non parteciparono mai a nessuna battaglia memorabile … nel complesso resistettero alla tentazione di trasformarsi in ladroni, sacerdoti e despoti più di qualsiasi altro popolo di successo nella storia dell’umanità. Grazie alla libera impresa scoprirono la virtù sociale» (p. 186-187).

 

Anche la demografia si autoregola

«Che bel lieto fine! La specie umana interrompe l’aumento della propria popolazione quando la divisione del lavoro raggiunge il punto in cui tutti gli individui scambiano beni e servizi tra loro, invece di cercare di essere autosufficienti. Più diventiamo interdipendenti e agiati, più la popolazione si organizza in modo compatibile con i limiti delle risorse del pianeta. Come sostiene Ron Bailey, in netta contrapposizione rispetto a Garrett Hardin, “Non c’è alcun bisogno di imporre misure coercitive di controllo demografico: la libertà economica pone in realtà una benigna mano invisibile sul controllo della popolazione”» (p. 233).

 

L’exploit dell’Inghilterra

«La piccola Gran Bretagna, che nel 1750 contava appena otto milioni di abitanti, rispetto ai venticinque dell’assai più sviluppata Francia, ai trentuno dell’assai più popoloso Giappone e ai duecentosettanta dell’assai più produttiva Cina, si imbarcò in una fenomenale espansione economica che nel giro di un secolo la avrebbe portata al dominio del mondo. Tra il 1750 e il 1850 gli inglesi (alcuni dei quali immigrati) inventarono una straordinaria gamma di dispositivi per risparmiare e migliorare il lavoro che permisero di produrre di più, vendere di più, guadagnare di più, spendere di più, vivere meglio e ridurre la mortalità infantile» (p. 243).

 

La conoscenza è illimitata

«La cosa straordinaria della conoscenza è che è davvero illimitata. Non c’è una possibilità nemmeno a livello teorico di esaurire la scorta di idee, scoperte e invenzioni: è questo che più di tutto il resto mi rende ottimista. Una delle meravigliose caratteristiche dei sistemi informativi è che sono assai più vasti di quelli fisici: l’ampiezza combinatoria dell’universo delle idee possibili fa apparire piccolo il debole universo degli oggetti fisici. Come dice Paul Romer, il numero di programmi che possono essere installati su un hard-disk da 1 gigabyte è ventisette milioni di volte maggiore degli atomi dell’universo» (p. 305).

 

Le innovazioni tecnologiche sconvolgono ogni previsione

«Adesso sappiamo, mentre negli anni Sessanta no, che più di sei miliardi di individui possono vivere sul pianeta, con più salute, disponibilità di cibo e aspettative di vita maggiori, e che tutto ciò è compatibile con un’aria più pulita, con l’aumento della superficie boschiva e con la rapida crescita di alcune colonie di elefanti. Le risorse e le tecnologie degli anni Sessanta non avrebbero mai potuto mantenere sei miliardi di individui, ma le tecnologie sono cambiate, e così anche le risorse. Sei miliardi rappresentano il punto di svolta? O forse sette? Otto? In un’epoca in cui la fibra di vetro sta sostituendo il cavo di rame, gli elettroni la carta e la maggior parte del lavoro implica più software che hardware, soltanto la più statica delle immaginazioni potrebbe pensarla così» (p. 334).

 

Le ragioni di un gioioso ottimismo

«Ho sostenuto che il mondo ora è più connesso e che le idee si accoppiano le une con le altre in maniera più promiscua che mai, che il passo dell’evoluzione economica farà giungere il tenore di vita a vette inimmaginate, aiutando anche gli individui più poveri del mondo a soddisfare, oltre ai propri bisogni, i propri desideri. Sebbene tale ottimismo sia chiaramente fuori moda, ho sostenuto che esso emerge dalla storia come un atteggiamento in realtà più realistico rispetto a un pessimismo apocalittico. “È la lunga ascesa del passato a smentire il nostro sconforto” ha detto Herbert G. Wells» (p. 390).

 

L’autore

Matt Ridley

Matt Ridley (vero nome Matthew White Ridley) nasce a il 7 febbraio 1958 a Northumberland, nel Regno Unito. Nel 1983 si laurea in zoologia a Oxford. Dal 1984 al 1992 lavora come giornalista scientifico e poi come corrispondente dagli Stati Uniti per l’Economist. Scrive numerosi libri sulle scienze e l’evoluzione, come La regina rossa (1994), Le origini della virtù (1998), Genoma (1999), L’ottimista razionale (2010) e The Evolution of Everything (2015). Dal 2004 al 2007 siede nel consiglio di amministrazione della Northern Rock, la banca inglese travolta dalla crisi e poi nazionalizzata. Nel 2012, alla morte del padre, diventa quinto visconte Ridley. Nel 2013 viene eletto alla Camera dei Lord nel Partito Conservatore.

Ridley ha esposto le sue idee anche in una conferenza TED dal titolo “Quando le idee fanno sesso”, che è stata vista da oltre due milioni di persone. Bill Gates ha elogiato L’ottimista razionale, pur nella diversità di opinioni sul riscaldamento globale. Recensioni lusinghiere sono apparse anche su Nature e Scientific American. Le critiche maggiori sono arrivate dagli ecologisti radicali e dagli avversari della globalizzazione economica.

 

INDICE DEL LIBRO

Prologo: Quando le idee fanno sesso;

1. Un presente migliore: l'oggi senza precedenti;

2. Intelligenza collettiva: scambio e specializzazione dopo 200.000;

3. La manifattura della virtù: baratto, fiducia e regole dopo 50.000 anni;

4. Sfamarne nove miliardi: l'agricoltura dopo 10.000 anni;

5. Il trionfo delle città: il commercio dopo 5000 anni;

6. In fuga dalla trappola di Malthus: la popolazione dopo il 1200;

7. La liberazione degli schiavi: l'energia dopo il 1700;

8. L'invenzione dell'invenzione: i rendimenti crescenti dopo il 1800;

9. Punti di svolta: il pessimismo dopo il 1900;

10. I due grandi pessimismi oggi di oggi: l'Africa e il clima dopo il 2010;

11. La catallassi: l'ottimismo razionale sul 2010.

 

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Matt Ridley, Un ottimista razionale. Come evolve la prosperità, Codice Edizioni, Torino, 2013, traduzione di Dade Fasic e Anna Lovisolo, p. 418.