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Tredici anni: dialoghi di memorie sul Brenta

tredici anni
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Tredici anni sta per compiere in quell’agosto del 1943 Piero Buscaroli (21 agosto), di cui quest’anno cadono i novant’anni dalla nascita. Tredici anni ha suo figlio Corso, portato nel cuore di quel gruppo di Brenta che amò per l’intera vita. Come in uno specchio, l’autore rievoca quei mesi e quegli anni quasi per tramandarli al figlio affidandoli alla immobile stabilità delle montagne. Per avere di fronte quelle cime, la Tosa, la Brenta Alta, il Campanile Basso, l’autore, a più di settant’anni, acquistò una casa sul lago di Molveno, il suo “ultimo gioiello”, dove pietre, libri e reperti di ogni tipo raccontano ancora le ragioni di questa affezione, durata una intera vita, da dove vide svolgersi gli eventi che ne cambiarono l’esistenza e il pensiero.

 

Dopo Ferragosto, la stagione si svuota, il tempo precipita incalzato da un’accresciuta gravità. Resta in bilico per i due o tre giorni di mezzo del mese, come quei mesi che i forzuti di paese lanciavano, con sforzo di muscoli e manubri, su per una rotaia e, giunti in cima, esitavano un attimo vibrando, prima di ricadere: il vecchio arnese è scomparso ormai fin dalle ultime fiere, ma nel mio campionario allegorico conserva sempre un suo posto.

Ho imparato ad assaporare la sosta, me la gestisco (per parlare da intellettuale) con cura. Il fatto di passarla da molti anni nello stesso luogo, me ne fornisce coordinate raffrontabili. So che dipenderà, in buona parte, dalle mie mosse, dalla scelta dei luoghi e percorsi, l’evocare o meno i demoni personali e familiari della mia storia privata. Se dirigerò i passi verse le pendici vaste e lente della Presanella, dell’Adamello, non accadrà nulla di speciale. Quelle piramidi non sembrano per me depositi di sguardi e pensieri lontani.

Tutt’al più mi assalirà, ritornando e contemplando, appesi sul legno sopra la libreria e scrivania di Madonna di Campiglio, i moniti a me stesso lanciati, le perentorie scadenze, gli appunti per l’articolo non scritto, per il libro non finito (neppure ho scritto una lettera di scuse all’editore, piantato lì, senza giustificazione) mi assalirà, dicevo, quella sindrome da bilancio che da molto tempo son riuscito a sopprimere a fine d’anno, ma che si  vendica, ritornando con gli ultimi sgoccioli dell’estate che cola via.

Ma se, invece, deciderò di molestare i fianchi nervosi del mio vecchio Brenta, resterò intrappolato nella lastra piena di segni. Da trentanove anni lì vado senza volere, incidendo e ripassando, spremendovi nuovi stati e morsure. Da quando, con mia madre, così giovane allora e agile, salii per la prima volta al rifugio Pedrotti sulla Tosa, promontorio di nuvole e sassi su cui vegliava la barba patriarcale di Arturo Castelli, oggi un ritratto che non dice ai decenni molto di più della barba di Quintino Sella, che presiede alle bevute nel rifugio del Tuckett.

È una sensazione di appuntamento inevitabile con le memorie, che non mi è, altrove, affatto abituale. Si sveglia al contatto con le montagne del Brenta, lo sfondo più costante della mia esistenza. Il paesaggio alpino, sopra una certa quota, dove finiscono le prodezze edilizie, mantiene una immobilità così impenetrabile e ferma, da costituire, per chi non possiede altra certezza, il confortevole polo della stasi, di fronte al tumulto eracliteo, di tutto il resto.

So benissimo che il rifugio Pedrotti significa per me il 1940, la morte di Balbo, le lettere dello zio Carlo dalla Grecia, i primi sospetti di sciagura. Così, se passo presso la stazione di Mezzocorona, mi sovviene del bombardamento di Roma, notizia che udimmo mentre attendevo la corriera per Molveno.

Il mio trampolino sul Brenta era la villa, armoniosa e semplice, dello zio Vittorio, oggi venduta, involgarita, inguardabile. E se contemplerò una creta parete della Brenta Alta, mi verrà incontro il 25 luglio, come la bocca di Tuckett risveglierà, chissà perché, il resto di quell’anno, ultimo fratello di mia madre, ufficiale superiore ucciso a Ravenna, mentre tentava di opporsi allo squagliamento del suo reparto. Tredici anni, un’età pericolosa. Mi accorsi all’improvviso che l’unità che mi aveva circondato era fittizia, che di Italie potevano essercene molte, e forse anche nessuna. Saltai a piedi pari sull’adolescenza, o su una parte importante di lei.

Tutto ciò, mi domanderai, guardando le montagne? Assicuro di sì.

Anzi, ormai anticipo la ristampa, me la faccio avant la lettre, evoco le memorie perfin prima di giungere sul luogo dove, al poggiar dello sguardo, scatterebbero da sole. Le aspetto, le accarezzo, le adorno di ipotesi, sforzo i cancelli chiusi dell’avvenuto storico. Mio figlio ha intuito qualcosa, e ogni tanto gliene lancio brandelli decifrabili. Abbiamo cambiato punto di partenza, ma le montagne sono le stesse.

Portarci mio figlio, dopo tanti anni, mi fornisce un’emozione dinastica. Nomi come la Tosa, il Campanile Basso, la Brenta Alta, avranno significati diversi dai miei, ma significheranno qualcosa anche per lui. Per lui, ho ripreso servizio di roccia. Mia moglie, sua madre, laggiù, non lo sa ancora.

Ma noi, ora, stiamo salendo un bel campanile diritto, e se ci affacciamo a un terrazzino, contempliamo un fitto di gente, intorno ai rifugi, due o tre volte più in basso che dalla cima del campanile di San Marco o dalla Torre degli Asinelli, con gli occhi puntati verso di noi, e additeranno, ecco quello piccolo rosso (pull-over di mio figlio) e l’altro rosso (pull-over mio) e il blu, che è di Giorgio Melchiori, la guida che sicuro, calmo, senza parole, tiene al battesimo della roccia mio figlio e ribattezza me.

So che cosa faccio e perché? Direi di sì. Non sono un mistico, non penso che le montagne siano più pure, né più vicine, a chicchessia, credo che ciascuno porti in sé i suoi incanti e le sue zavorre.

Eppure, da molti anni, non provavo un sentimento così pungente come quello che mi prende dopo che Giorgio, tolto di sotto le rocce della cima l’astuccio metallico che contiene il registro delle ascensioni mi porge il libro. Ed io vi scrivo il mio nome, e quello del ragazzo e poi, prima di rinfoderarlo nella sua guaina di alluminio, aggiungo nel margine “13 anni”.

Da “Il Giornale”, 17 agosto 1979