Tribunale di Torino: i segni distintivi nell’era di Facebook

Il Tribunale di Torino, Sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, è stato chiamato a pronunciarsi su un caso relativo ad un atto di concorrenza sleale realizzato attraverso i c.d. Gruppi Facebook.

Nel corso del giudizio il Tribunale ha avuto l’occasione di esaminare e dichiarare importanti principi in materia di legittimazione passiva del non imprenditore (ex dipendente) e di segni distintivi atipici.

Partendo dai fatti di causa, la società ricorrente chiedeva l’emanazione di un provvedimento cautelare nei confronti di un ex dipendete e di una società concorrente (costituita formalmente dalla moglie dell’ultimo) che le restituisse il “Gruppo Facebook” societario, dal momento che l’ex dipendente, modificando la password di acceso e le informazioni del Gruppo, aveva ricollegato il Gruppo Facebook alla nuova società costituita dalla moglie, “appropriandosi” così di tutti gli amici virtuali del Gruppo ed ingenerando confusione nei medesimi.

Il Tribunale, prima di entrare nel merito della questione, chiarisce alcuni punti; e cioè che:

i) “la sussistenza della legittimazione passiva ad causam … attiene alla necessaria coincidenza fra il soggetto contro il quale l’azione è proposta e la controparte del rapporto sostanziale dedotto in giudizio”;

ii) “il non imprenditore può concorrere nell’illecito concorrenziale ex articolo 2598 c.c., che presuppone sì un conflitto fra imprese in concorrenza almeno potenziale sul mercato, ma non esige che gli atti siano posti in essere direttamente dall’imprenditore concorrente; è infatti sufficiente che l’atto scorretto da parte di un terzo soggetto (il cosiddetto “interposto”) si rivolga in beneficio dell’imprenditore concorrente, che partecipa all’illecito quale “autore morale”;

iii) “l’imprenditore titolare di un segno distintivo e in particolare sul marchio di impresa ha il diritto di vietare a terzi l’uso “nell’attività economica”, concetto questo … che non presuppone l’uso diretto da parte di un imprenditore concorrente ma appare soddisfatto in ogni ipotesi di apprezzabile rilevanza economica dell’attività esercitata”;

iv) la società ricorrente “può vantare il diritto di esclusiva sulla sua Ditta - denominazione sociale e sul marchio”.

Fermo quanto sopra, il Tribunale precisa altresì che “il Gruppo Facebook, che pure si connota con l’uso della denominazione e dei marchi della ricorrente, rappresenta un caso di segno distintivo atipico, suscettibile di tutela contro l’interferenza confusoria, quantomeno ai sensi dell’articolo 2598, n.1, c.c., che come è noto, protegge, in generale, anche i “segni legittimamente usati da altri” quale fattispecie espressamente considerata di atto idoneo a creare confusione con i prodotti e l’attività del concorrente (art. 2598, n.1: “compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente”). Inoltre, quanto sopra è confermato dalla recente giurisprudenza della Suprema Corte che ha attribuito rilievo “all’uso di segni distintivi atipici (dominio Internet prima della regolazione ad opera del Codice della proprietà industriale) in presenza di una funzione pubblicitaria e suggestiva del segno, finalizzata ad attrarre il consumatore nell’orbita dell’imprenditore, che si identifica e segnala sul mercato, nella fattispecie nella rete Internet (Cassazione Civile, sentenza n.24620 del 3 dicembre 2010)”.

Nel merito, con la sentenza in esame, il Tribunale riconosce che:

i) l’utilizzo nel Gruppo Facebook della denominazione e del marchio della società ricorrente costitui-sce di per sé manifestazione di concorrenza confusoria ex articolo 2598, n.1, c.c. e contraffazione del marchio ai sensi dell’art.20 C.p.i.;

ii) le regole interne di Facebook (che permettono al socio fondatore del Gruppo di modificarlo) devono rispettare in ogni caso le norme dell’ordinamento, incluse quelle che proteggono nomi e segni distintivi altrui.

“Diversamente opinando – continua il Tribunale – si finirebbe paradossalmente per legittimare la creazione di personalità fasulle e l’apertura di gruppi ad essa collegate da parte di chi si attribuisca falsamente le generalità, magari celebri, di un’altra persona, sol che abbia creato il profilo sul social network”.

Alla luce delle sopra esposte considerazioni, il Tribunale di Torino ha riconosciuto la grave attitudine confusoria della condotta dell’ex dipendete e della nuova società, “diretta intenzionalmente ad accreditare negli utenti l’opinione di una continuità commerciale giuridica” tra le due società, “oltretutto rafforzata dall’evidente analogia dei due nomi”.

Il procedimento cautelare in esame si è concluso con l’ordine rivolto alla nuova società (destinataria dei benefici economici derivanti dall’illecito) e all’ex dipendente di provvedere alla modifica del nome del Gruppo Facebook, alla rinomina degli amministratori del medesimo, di astenersi da ogni futuro intervento sul Gruppo predetto, con la sanzione pecuniaria (di 1.000,00 euro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione del provvedimento), la pubblicazione del provvedimento su Facebook e sul sito Internet della ricorrente e la condanna alla rifusione delle spese sostenute per il giudizio dalla società ricorrente.

(Tribunale di Torino, Sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, Ordinanza 7 luglio 2011)

[Dott.ssa Luciana Di Vito]

Il Tribunale di Torino, Sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, è stato chiamato a pronunciarsi su un caso relativo ad un atto di concorrenza sleale realizzato attraverso i c.d. Gruppi Facebook.

Nel corso del giudizio il Tribunale ha avuto l’occasione di esaminare e dichiarare importanti principi in materia di legittimazione passiva del non imprenditore (ex dipendente) e di segni distintivi atipici.

Partendo dai fatti di causa, la società ricorrente chiedeva l’emanazione di un provvedimento cautelare nei confronti di un ex dipendete e di una società concorrente (costituita formalmente dalla moglie dell’ultimo) che le restituisse il “Gruppo Facebook” societario, dal momento che l’ex dipendente, modificando la password di acceso e le informazioni del Gruppo, aveva ricollegato il Gruppo Facebook alla nuova società costituita dalla moglie, “appropriandosi” così di tutti gli amici virtuali del Gruppo ed ingenerando confusione nei medesimi.

Il Tribunale, prima di entrare nel merito della questione, chiarisce alcuni punti; e cioè che:

i) “la sussistenza della legittimazione passiva ad causam … attiene alla necessaria coincidenza fra il soggetto contro il quale l’azione è proposta e la controparte del rapporto sostanziale dedotto in giudizio”;

ii) “il non imprenditore può concorrere nell’illecito concorrenziale ex articolo 2598 c.c., che presuppone sì un conflitto fra imprese in concorrenza almeno potenziale sul mercato, ma non esige che gli atti siano posti in essere direttamente dall’imprenditore concorrente; è infatti sufficiente che l’atto scorretto da parte di un terzo soggetto (il cosiddetto “interposto”) si rivolga in beneficio dell’imprenditore concorrente, che partecipa all’illecito quale “autore morale”;

iii) “l’imprenditore titolare di un segno distintivo e in particolare sul marchio di impresa ha il diritto di vietare a terzi l’uso “nell’attività economica”, concetto questo … che non presuppone l’uso diretto da parte di un imprenditore concorrente ma appare soddisfatto in ogni ipotesi di apprezzabile rilevanza economica dell’attività esercitata”;

iv) la società ricorrente “può vantare il diritto di esclusiva sulla sua Ditta - denominazione sociale e sul marchio”.

Fermo quanto sopra, il Tribunale precisa altresì che “il Gruppo Facebook, che pure si connota con l’uso della denominazione e dei marchi della ricorrente, rappresenta un caso di segno distintivo atipico, suscettibile di tutela contro l’interferenza confusoria, quantomeno ai sensi dell’articolo 2598, n.1, c.c., che come è noto, protegge, in generale, anche i “segni legittimamente usati da altri” quale fattispecie espressamente considerata di atto idoneo a creare confusione con i prodotti e l’attività del concorrente (art. 2598, n.1: “compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente”). Inoltre, quanto sopra è confermato dalla recente giurisprudenza della Suprema Corte che ha attribuito rilievo “all’uso di segni distintivi atipici (dominio Internet prima della regolazione ad opera del Codice della proprietà industriale) in presenza di una funzione pubblicitaria e suggestiva del segno, finalizzata ad attrarre il consumatore nell’orbita dell’imprenditore, che si identifica e segnala sul mercato, nella fattispecie nella rete Internet (Cassazione Civile, sentenza n.24620 del 3 dicembre 2010)”.

Nel merito, con la sentenza in esame, il Tribunale riconosce che:

i) l’utilizzo nel Gruppo Facebook della denominazione e del marchio della società ricorrente costitui-sce di per sé manifestazione di concorrenza confusoria ex articolo 2598, n.1, c.c. e contraffazione del marchio ai sensi dell’art.20 C.p.i.;

ii) le regole interne di Facebook (che permettono al socio fondatore del Gruppo di modificarlo) devono rispettare in ogni caso le norme dell’ordinamento, incluse quelle che proteggono nomi e segni distintivi altrui.

“Diversamente opinando – continua il Tribunale – si finirebbe paradossalmente per legittimare la creazione di personalità fasulle e l’apertura di gruppi ad essa collegate da parte di chi si attribuisca falsamente le generalità, magari celebri, di un’altra persona, sol che abbia creato il profilo sul social network”.

Alla luce delle sopra esposte considerazioni, il Tribunale di Torino ha riconosciuto la grave attitudine confusoria della condotta dell’ex dipendete e della nuova società, “diretta intenzionalmente ad accreditare negli utenti l’opinione di una continuità commerciale giuridica” tra le due società, “oltretutto rafforzata dall’evidente analogia dei due nomi”.

Il procedimento cautelare in esame si è concluso con l’ordine rivolto alla nuova società (destinataria dei benefici economici derivanti dall’illecito) e all’ex dipendente di provvedere alla modifica del nome del Gruppo Facebook, alla rinomina degli amministratori del medesimo, di astenersi da ogni futuro intervento sul Gruppo predetto, con la sanzione pecuniaria (di 1.000,00 euro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione del provvedimento), la pubblicazione del provvedimento su Facebook e sul sito Internet della ricorrente e la condanna alla rifusione delle spese sostenute per il giudizio dalla società ricorrente.

(Tribunale di Torino, Sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, Ordinanza 7 luglio 2011)

[Dott.ssa Luciana Di Vito]