Tribunale di Trieste - Giudice Tavolare: annotazione di Trust
g.n. 1912/2007
Il giudice tavolare, letta la domanda proposta dagli Avvocati …. per conto di …., quale trustee del …., visti gli atti ed esaminata la documentazione, osserva quanto segue.
Doveroso appare il rinvio al proprio provvedimento dd. 23.9.2005, sub g.n. 10804/05, quanto alla indicazione delle linee generali di orientamento dell’Ufficio in tema di compatibilità astratta del trust con l’ordinamento civile, ed in particolare con quello tavolare.
Muovendo quindi nel solco di quel provvedimento, e dando per risolti tutta una serie di problemi che, a giudizio dello scrivente, sono stati ampiamente superati dal diritto vivente, occorrerà:
a. qualificare la tipologia di trust concretamente adottata, al fine di apprezzarne il programma negoziale secondo il combinato disposto degli artt. 11 e 13 della Convenzione de L’Aja del 1.7.1985, che consente al giudice di vagliare la compatibilità del trust e degli atti collegati (nonché della legge straniera prescelta dalle parti) con l’ordinamento giuridico italiano;
b. effettuare il giudizio di meritevolezza, nei suoi ristretti confini e nel rispetto dell’autonomia contrattuale, approcciando al negozio presumendone la legittimità fino a prova contraria, essendo lo stesso espressione di libertà di iniziativa economica;
c. verificare se l’atto istitutivo del trust o quelli ad esso geneticamente o funzionalmente collegati contengano pattuizioni che violino norme inderogabili specifiche o principi precettivi dell’ordinamento italiano o di quello estero prescelto dalle parti.
Oltre a queste linee di indagine occorrerà infine, a seguito dell’innovazione normativa di cui all’art. 2645 ter cod. civ., confrontarsi con la nuova – presunta - figura degli atti di destinazione, per verificare se ed in che modo operi una relazione tra i due istituti.
Ciò posto, si premette come, nel dichiarato intento di superare alcune riconosciute omissioni, ed in quello verosimile di colmare le lacune presenti negli atti già predisposti e conservati presso l’ufficio tavolare dopo il rigetto sub g.n. 3996/06, alla domanda tavolare è stata di fatto assegnata una funzione di auspicata eterointegrazione dei negozi stessi, avendo i ricorrenti operato una descrizione delle finalità del programma negoziale prescelto; ciò ovviamente non è ammissibile, dovendo gli atti essere da sé soli idonei al raggiungimento degli scopi: non di meno il ricorso tavolare può fungere da utile riferimento ermeneutico.
Si procede quindi nell’ordine elencato.
a. Qualificazione della tipologia di trust concretamente adottata.
Fino a quando del trust non verrà data disciplina sotto il profilo civilistico, ma si continuerà solo a presupporre la sua esistenza con norme di settore o ambito limitato (ad esempio, tributarie), il trust stesso rimarrà un negozio atipico. Le considerazioni sulla natura delle norme della convenzione de L’Aja del 1.7.1985, la tipizzazione effettuata da altri ordinamenti, nonché il rinvio a tali realtà da parte di quello italiano, lungi dal conferire tipicità al trust rappresentano, nondimeno, tappe del percorso logico giuridico che deve compiere l’interprete per dare sistemazione e copertura a vicende economiche che, nel rispetto del principio di completezza dell’ordinamento giuridico, devono trovare comunque regolamentazione. Per apprezzare allora il programma negoziale e vagliare la compatibilità del trust e degli atti collegati (nonché della legge straniera prescelta dalle parti) con l’ordinamento giuridico italiano, occorre guardare con attenzione all’assetto di interessi delle parti stipulanti: l’accesso alla causa è del resto tipico del giudizio tavolare, come altrove si è sostenuto e come è pacifico in dottrina. Ovviamente, trattandosi di fattispecie atipica, l’accezione di causa non può essere quella statica e tradizionale della cd. teoria oggettiva, formalmente accolta dal codice del 1942, svincolata dagli scopi delle parti, quella cioè di “funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall’ordinamento ai fini di giustificare la tutela dell’autonomia privata” (così nella relazione del guardasigilli al re). Essa può e deve essere oggi particolarmente apprezzata, ed al riguardo soccorrono le esemplari considerazioni della recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (Sent. n. 10490 del 2006), che l’elemento negoziale ha definito quale “sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale”.
L’indagine sulla causa del trust rischierebbe però di essere compromessa in partenza, se si rimanesse inviluppati tra il tentativo inutile di individuare una causa tipica, e quello illegittimo di sostituire con i motivi la funzione del negozio. In altri termini: non esiste la causa di trust direttamente ed immediatamente rilevante per l’ordinamento giuridico italiano, e non esisterà fin quando essa non sarà normativamente prevista, ma esistono solo l’effetto di segregazione e gli altri elementi che caratterizzano usualmente o necessariamente il trust in altri ordinamenti. Tali elementi immancabili sono, secondo la miglior dottrina, il trasferimento del diritto al trustee o la dichiarazione unilaterale di trust; la segregazione, appunto; l’affidamento; l’esistenza di beneficiari o di uno scopo, con conseguente funzionalizzazione del diritto trasferito al trustee; l’esistenza di un rapporto fiduciario in virtù del quale risolvere profili di conflitto di interesse. Partendo da qui, e rammentando che l’atipicità del negozio non impone sempre un affanno qualificatorio, si conferma la precedente opinione di questo giudice secondo cui l’interprete potrà fermarsi alla mera individuazione, all’interno del negozio atipico, dei suoi parametri generali (id est: indagare la sua efficacia obbligatoria o traslativa, la natura corrispettiva o unilaterale o gratuita, l’aleatorietà o commutatività, e così oltre), per poi verificare il suo funzionamento in base alle regole normative di riferimento, anche se straniere, o adattare al caso di specie le regole generali dell’ordinamento interno, ovvero quelle che, essendo comuni alle figure negoziali maggiormente similari a quella atipica, vengono a rappresentarne impronte caratterizzanti. Non occorrerà quindi una perfetta sincronia strutturale o effettuale con i negozi tipici, ma sarà sufficiente la mera possibilità di condurre il negozio atipico a categorie – anche solo effettuali - apprezzate dall’ordinamento. Si rammenterà, del resto, che la Suprema Corte di Cassazione abbia ammesso la configurabilità di negozi traslativi atipici, purché sorretti da causa lecita, fondandola sul principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 comma 2 cod. civ. (Cass., sez. 3, sent. 9.10.1991 n. 10612).
b. Il giudizio di meritevolezza.
Il discorso sulla ricerca della causa viene a questo punto a fondersi con l’apprezzamento degli interessi perseguiti. È già stata espressa in altra sede la convinzione della dottrina assolutamente dominante sul tema della meritevolezza di interessi, e molto è stato scritto su questo dimenticato, frainteso e spesso travisato concetto: ciò anche di recente, a commento dell’art. 2645 ter cod. civ.. È qui solo il caso di rammentare come l’art. 1322, co. 2, cod. civ., una volta scomparso il regime e l’ideologia che lo avevano fortemente voluto nel codice sostanziale, non costituisca più una pseudo-clausola generale, che «si presterebbe a meraviglia a mettere i contraenti a discrezione del giudice, il quale potrebbe togliere valore ad ogni contratto valido, col pretesto che il suo fine non è socialmente apprezzabile»: si rinvia al provvedimento già citato per le considerazioni di supporto. Invece il concetto al quale si rimane fedeli, e che viene ad integrare le considerazioni di cui al punto a. sulla causa, è quello di meritevolezza come giudizio di verifica del programma negoziale, volto ad analizzare se i suoi effetti siano rapportabili a quelli previsti a livello categoriale dall’ordinamento giuridico, oppure se si perseguano ulteriori obiettivi non altrimenti raggiungibili con gli strumenti ordinari: in questo caso si avrà un negozio atipico, meritevole di tutela sempre che la sua causa non sia illecita; altrimenti si rimarrà all’interno del fenomeno del negozio misto, del collegamento negoziale, della frantumazione e ricomposizione negoziale, dove il giudizio di meritevolezza è già stato in astratto compiuto dal legislatore.
Poste queste due premesse, si muove all’analisi della fattispecie concreta, e quindi in primo luogo dell’atto istitutivo del trust.
Non essendo possibile riportare i 44 articoli, e le sottovoci, che compongono il complesso atto, si considerano qui di seguito quelli maggiormente caratterizzanti, al fine della qualificazione dell’operazione negoziale: la sensazione è che si tratti tuttavia di opera di difficile attuazione, in considerazione della scarsa linearità del programma negoziale.
Questi quindi i principali punti:
- al punto 5 della premessa i disponenti esprimono la loro volontà di creare un patrimonio separato, in analogia con il fondo patrimoniale, per soddisfare le esigenze attuali e future di entrambi; il riferimento ai figli – comuni e non - della coppia, non legata da vincolo matrimoniale, viene alla luce solo al punto 4, in sede di individuazione dei beneficiari del trust, in relazione sia al reddito che alla destinazione finale dei beni;
- al punto 11, nella parte III dell’atto su “i beneficiari” si prevede che le disposizioni in favore dei beneficiari sono oggetto di “Protective Trust” secondo la legge regolatrice del Trust (Trustee Act, 1925, sect. 33), ed i relativi diritti sono indisponibili e vengono meno sia in caso di disposizione, qualora il titolare sia dichiarato fallito o se su di esso si compiano atti conservativi o di esecuzione;
- al punto 19 si dispone che il trustee – sulla cui figura si tornerà – abbia tutti i poteri in ordine ai beni in trust ad eccezione di quelli di disporre di beni immobili o partecipazioni societarie, di costituire garanzie reali, di stipulare contratti che attribuiscano il godimento di beni in trust (salvo che a favore dei beneficiari);
- al punto 27.3. si prevederebbe che il trustee sia revocabile solo in forza d’atto congiunto tra il guardiano ed i disponenti: ma si tratta di disposizione da leggere congiuntamente con il negozio collegato costitutivo della società semplice che funge da trustee: essa è di totale e paritaria partecipazione dei due disponenti, e vi è preposto un socio d’opera, revocabile in qualsiasi momento (art. 7.3. del contratto costitutivo di società semplice, “il socio d’opera può essere escluso su richiesta anche di un solo socio di capitale”): escludere il socio d’opera determinerebbe che la società semplice rimarrebbe trustee, ma i disponenti ed i beneficiari del trust sarebbero al tempo stesso i suoi unici soci e rappresentanti, e quindi coloro che formano anche formalmente la volontà del trustee;
- al punto 35.1. si statuisce che il reddito del trust, assolto ogni costo, è “a discrezione del trustee, sentito il guardiano, accumulato nel trust o distribuito ai beneficiari o parte accumulato e parte distribuito: in caso di distribuzione spetta al trustee decidere discrezionalmente a vantaggio di quale beneficiario”. In relazione di subordinazione logica sta la successiva previsione di cui all’art. 36.1. in base alla quale, “ove il trustee accerti” (ma rimane ovviamente libero discrezionalmente di farlo in base al disposto che precede) “che qualcuno fra i beneficiari abbia necessità di somministrazione di mezzi finanziari per ragioni di studio, malattia o di sopravvenute difficoltà nella vita ordinaria, egli è tenuto ad impiegare il reddito del trust, corrente o previamente accumulato, per devolvergli o impiegare direttamente le somme di denaro necessarie”;
- ai punti 38.1. e 38.2. si disciplina il godimento di beni immobili da parte dei beneficiari e il possibile riassetto di eventuali sperequazioni fra gli stessi beneficiari in relazione a tale godimento;
- ai punti 39. e seguenti si legge della disciplina per la destinazione finale dei beni in trust, nella quale, tuttavia, si dà per scontato che i beni debbano essere frazionati in quote, nel mentre alla cessazione della destinazione è ovvio e naturale che i beni tornino ai disponenti, a meno che non si sia verificato un fenomeno successorio;
- al punto 44.1. si stabilisce che qualora una o più clausole dell’atto siano invalide esse devono esse sostituite con altre valide, conformi alla legge applicabile e non in contrasto con il riconoscimento da parte della legge italiana, che ottengano gli effetti il più possibile simili a quelli delle clausole invalide, evitando di travolgere la validità dell’atto stesso;
- al punto 44.2., come extrema ratio, si rinviene che, qualora non fosse ritenuto legittimo il trust, esso dovrà essere riconosciuto come società semplice di fatto tra trustee e guardiano, ambedue soci d’opera (con le particolarità sopra viste), ed i beni in trust saranno beni della società.
Da questo sommario esame possono essere tratte le prime conseguenze.
Malgrado l’espressa definizione operata dalle parti, quello in questione non è un Protective Trust, e la clausola sub 11 è illegittima, in quanto viola il principio di ordine pubblico, proprio del diritto inglese regolatore dell’atto, che vieta che il beneficiario sia la stessa persona del disponente: nell’atto si prevede che i disponenti siano i primi beneficiari del reddito e, salvo in caso di morte, gli esclusivi beneficiari dei beni. Ma in via logicamente prioritaria osta al riconoscimento di un Protective Trust la circostanza che sussiste piena ed incontrollabile discrezionalità del trustee nella distribuzione dei redditi derivanti dal trust, sia quanto all’an che al quomodo, come desumibile dalla lettura del punto 35.1. dell’atto istitutivo.
In considerazione del fatto che le parti disponenti hanno voluto istituire come trustee una società semplice, di cui loro stessi sono esclusivi e paritari soci di capitale ed un terzo soggetto è socio d’opera, e poiché lo schermo della società semplice sembra molto fragile, conviene quindi, in un’ottica conservativa del negozio non estranea alla volontà dei disponenti, eliminare la clausola e verificare cosa resta di questo trust.
Visto nella nuova dimensione, e nella generica connotazione voluta dalle parti ed ulteriormente illustrata nel ricorso tavolare, sembrerebbe potersi invocare la figura dei Family Trusts, ma anche - per lo meno quanto alla distribuzione del reddito - quella dei Discretionary Trusts, attesa la piena discrezionalità del trustee sul se ed a chi distribuire reddito; invece, quanto alla ripartizione finale, sembra che di discrezionalità non ve ne sia in concreto, atteso che l’unico bene al momento affidato al trustee (oltre alla dotazione di € 100,00) è l’immobile di cui si dirà, e che esso andrà ai disponenti (o al disponente che l’ha conferito, non essendo chiara la clausola). Per altro verso, la previsione di cui al punto 38.2. sulla possibilità di concessione in godimento di beni immobili a vantaggio dei beneficiari, sembra evocare quelle particolari categorie di trusts in cui si attribuiscono diritti diversi da rendite o beni capitali. Una considerazione che pure si potrebbe trarre in base ad un’analisi complessiva delle clausole dell’atto istitutivo, tenendo in debito conto la qualità di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, è che in realtà si potrebbe essere al cospetto di un trust di protezione patrimoniale, connotato ad colorandum da finalità di protezione familiare: uno di quei trust, insomma, in cui il disponente crea una situazione in cui “having the cake and eating too”, ove sostanzialmente difetta qualsiasi affidamento del diritto al trustee.
Ferma però la convinzione che fino a prova contraria il trust deve stimarsi lecito, e riservata ad altra ed eventuale indagine di diverso giudice la questione di una possibile simulazione o illegittimità di causa, o quella di una violazione dei diritti dei creditori a cagione di un atto di dotazione in frode agli stessi, non rimane che qualificare l’operazione compiuta, nei limiti sopra esposti.
Il fine dichiarato dai disponenti è quello di “soddisfare le esigenze attuali e future di entrambi”, con eventuale distribuzione dei redditi ai beneficiari, con futura ripartizione dei beni alla cessazione del trust, e con obbligo del trustee di somministrare “mezzi finanziari per ragioni di studio, malattia o di sopravvenute difficoltà nella vita ordinaria” ai beneficiari che ne abbiano necessità.
Potrebbe quindi ritenersi legittima una qualificazione del negozio come Family Trust, ancorché manchi qualsiasi considerazione in ordine all’intento delle parti disponenti di mantenere una unitarietà dei beni all’interno della famiglia nucleare; sono poi dettate disposizioni contrastanti e poco comprensibili in merito al riparto finale dei beni, stante la difformità dei punti 4.2. e ss. e di quelli 39. e ss.; non è chiaro come debbano essere ripartiti i beni apportati da un singolo disponente (come nel caso dell’immobile qui conferito), né appaiono nitide le regole di distribuzione, la cui unica linea ispiratrice appare l’assoluta discrezionalità del trustee; inoltre manca qualsiasi apporto in ordine all’individuazione della disciplina dell’amministrazione dei beni, dichiaratamente destinati al soddisfacimento di interessi anche di minorenni: il ruolo del guardiano non potrà che essere di secondo piano, in quanto istituzionalmente dovranno essere fatte salve le prerogative del giudice tutelare. Infine nessun indice ermeneutico a vantaggio della qualificazione di questo come di un Family Trust può trarsi dalla scelta del trustee, non trattandosi di un soggetto dotato di particolari attitudini che lascino intendere, ad esempio, una selezione da parte dei disponenti attuata sulla base delle capacità professionali o morali di amministrare beni o interessi per il raggiungimento dei fini preposti.
Quello adottato – quindi - si avvicina molto ad uno schema individuato dalla dottrina nell’analisi pratica degli Asset Protection Trust che abbiano ad oggetto immobili, come tali non trasferibili off-shore: anche nel caso in esame – come in quelli usualmente commentati con sfavore dalla dottrina ed oggetto di esame giudiziario - è stata seguita la traccia della costituzione di una società alla quale conferire i beni di cui i disponenti si sono intesi spogliare, con nomina del fiduciario quale amministratore unico, ma con possesso completo del capitale o delle quote da parte del disponente, così da esercitare un controllo completo sul bene pur non figurandone direttamente trustee. Ciò è quanto successo, se si analizza il contratto costitutivo della società semplice, alla quale è espressamente inibito lo svolgimento di attività d’impresa, ed il cui oggetto sociale appare essere il possesso e la gestione di beni mobili, immobili e partecipazioni o quote o di altri strumenti finanziari, sia in proprio che quale trustee. Soci di capitale sono i soli disponenti, nel mentre un terzo viene indicato come socio d’opera e come gestore e rappresentante della società nei confronti dei terzi: egli può essere escluso su richiesta anche di uno solo dei soci di capitale. In caso di aggressione del capitale sociale da parte dei creditori, viene mantenuto il potere di voto in capo al socio, diventato socio d’opera; sono poi previste ipotesi di accrescimento per casi come la morte del socio o lo scioglimento del rapporto sociale. I patti sociali possono essere modificati a maggioranza dei soci di capitali (disposizione inattuabile). Con espressa pattuizione si prevede che la società semplice non potrà mai essere considerata comunione di godimento, ma al più società in nome collettivo irregolare.
La società semplice trustee, indubbiamente dotata di soggettività giuridica, è in completo controllo dei suoi soci di capitale, i quali formalmente hanno concesso un potere di rappresentanza pieno ed indiscutibile: di fatto però sono titolari anche in via disgiunta del potere di revocarlo. Si potrebbe in concreto intuire una dipendenza della società trustee da quei soggetti che fisicamente sono al tempo stesso i disponenti del bene in trust, i suoi primi beneficiari di rendite e dei beni stessi, nonché i soli soci di capitale della società in questione.
Ma i limiti dell’indagine non potrebbero consentire, in difetto dell’interesse di un controinteressato, di spingersi oltre nell’analisi; e ciò anche sulla base di un ulteriore argomento, di carattere forse più suggestivo che ermeneutico: i disponenti avrebbero potuto infatti seguire la strada, più diretta ma al tempo stesso meno accattivante, del trust autodichiarato, senza dare adito a tanti dubbi sulla loro reale volontà.
Gli stessi ristretti limiti di analisi consentono di censurare come meramente irrilevante la clausola flee (o anche conosciuta come flight) di cui all’art. 8.2. che consentirebbe una migrazione del trust verso leggi straniere regolatrici che, in prosieguo, si mostrassero più consone all’utilità dei beneficiari: più propriamente il fenomeno riguarda lo spostamento materiale del trust ma, trattandosi di trust fondamentalmente destinato a ricevere in dotazione beni immobili, lo stesso effetto speravano di ottenere gli stipulanti prevedendo un disinvolto cambio in corsa delle leggi regolatrici.
Sul presupposto, quindi, che si possa trattare di un trust discrezionale, di ispirazione familiare, occorre verificare se, al di là delle mere definizioni, sussistano elementi per ritenere meritevole di tutela la scelta negoziale.
Volontà dei disponenti è quella di creare un patrimonio separato in analogia con il fondo patrimoniale, obiettivo questo non realizzabile direttamente per non essere i disponenti sposati.
È noto come ai conviventi more uxorio non vengano riconosciuti diritti connaturati all’esistenza di un rapporto duraturo e stabile, ma che – non di meno - la tutela della prole e degli assetti patrimoniali nell’interesse degli stessi costituiscano importanti chiavi di interpretazione ai fini che ne occupano.
Si ritiene che l’assenza di un vincolo parentale e di una situazione di certezza di rapporti giuridici, in nome della quale spesso i giudici di legittimità e lo stesso giudice delle leggi hanno dichiarato manifestamente infondate o rigettato questioni di incostituzionalità dell’assetto normativo, non impediscano nel caso di specie di ritenere meritevole lo strumento in questione al fine di concedere una tutela, altrimenti inesistente, ai genitori ed ai figli, nati prima o in costanza di questo rapporto di fatto. Si intende cioè dire che la segregazione di un patrimonio nel dichiarato intento di apprestare una tutela economica e di assistenza ad una famiglia di fatto, che non sarebbe altrimenti assicurabile in forme neanche lontanamente simili a quelle del fondo patrimoniale, rappresenta quel quid che consente di ritenere apprezzabile lo strumento innominato, e dare così ingresso al trust in questione, nei limiti di indagine di questo giudice. Proprio questo valore perseguito, e cioè la tutela della prole familiare, costituisce quel rilevante elemento che aveva indotto la giurisprudenza costituzionale a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevedeva la successione nel contratto di locazione al conduttore che avesse cessato la convivenza quando vi fosse prole naturale; non a caso lo stesso presupposto – questa volta in negativo - della ricorrenza di figli ha recentemente indotto la stessa corte a negare il diritto alla prosecuzione nel rapporto locatizio al convivente more uxorio in assenza di prole (C. Cost., ord. n. 204 del 2003, rel. CONTRI).
E nel nome della tutela della prole è possibile anche superare la problematica dei rapporti del trust con la disposizione di cui all’art. 2645 ter cod. civ..
Molto si è detto e scritto al riguardo, e sia l’ambito di questo provvedimento che la circostanza di avere altrove espresso le proprie convinzioni sulla operatività della norma impediscono una analisi approfondita della stessa. Basti quindi evidenziare come a proprio giudizio “la norma sia valsa a legittimare l’esistenza nell’ordinamento giuridico di un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione, che per i beni immobili e mobili registrati postula il veicolo formale dell’atto pubblico”; “…siamo al cospetto di un ulteriore effetto negoziale, che può essere partecipe delle fattispecie causali traslative tipiche (e forse anche di quelle ad effetti obbligatori e di quelle atipiche)” e quindi non “…ci troviamo davanti ad un nuovo negozio la cui causa è quella finalistica della destinazione del bene alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela”.
In un primo momento la norma era stata giudicata - da chi scrive - sostanzialmente inutile, se non dannosa, in ragione degli ormai acquisiti equilibri interpretativi raggiunti sul tema della meritevolezza di interessi. L’opinione potrebbe però essere parzialmente rimeditata alla luce del contributo offerto, recentemente, da autorevole dottrina, la quale ha proposto una lettura costituzionalmente orientata della norma in questione, riconoscendole “il significato di estendere la sfera operativa dell’autonomia privata”. Mentre in precedenza i casi di separazione tra legal e equitable ownership erano tipizzati normativamente, ora la “giustificazione idonea” potrebbe essere rinvenuta proprio in quegli interessi meritevoli di tutela cui fa riferimento la norma. Nell’individuazione di questi criteri, però, per non abbandonarsi alla discrezionalità dei giudici, occorre individuare il concetto di meritevolezza in questione: e ciò soprattutto perché, a volere intenderlo nel modo fin qui condiviso dalla assoluta maggioranza della dottrina e – nei fatti concreti – dalla giurisprudenza, si finirebbe per determinare una illegittimità costituzionale della norma. Invero non sarebbe giustificabile una potenzialità astratta e sempre valida alla separazione di assetti proprietari, laddove lo stesso legislatore l’ha voluta e disciplinata, in precedenza, solo per talune e specifiche ipotesi. Propone quindi l’Autore, così dando nuovo impulso alla tesi di altra dottrina, di leggere la norma quale “strumento di selezione di valori”. Vi sarà meritevolezza rilevante ai fini della separazione qualora l’interesse perseguito sia prevalente rispetto a quello dei creditori e degli aventi causa. Del resto non qualsiasi interesse individuale poteva legittimare tale separazione, neanche mercè lo strumento normativo, in quanto – sottolinea ancora la condivisibile dottrina – l’art. 43, co. 2, Cost. tollera le limitazioni del diritto di proprietà solo qualora in tal modo sia assicurata la sua funzione sociale. La proposta esegetica è quindi quella di rifarsi al sistema costituzionale per l’individuazione dei valori in nome dei quali operare la separazione: beni ed interessi non necessariamente collettivi, purché non meramente patrimoniali; corrispondenti, cioè, a valori della persona costituzionalmente garantiti, sulla falsariga di quelli selezionati dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione come meritevoli di ristoro ai sensi dell’art. 2059 cod. civ.. In conclusione, dubitando della apprezzabilità della norma quale clausola generale dell’ordinamento, l’Autore ne postula una limitazione anche soggettiva, nel senso della necessaria “estraneità dell’interesse perseguito alla persona del proprietario gravato”, pur limitando le conseguenze negative al caso in cui tale interesse sia “esclusivamente” proprio di tale soggetto.
Queste considerazioni, largamente riportate, sono in buona parte compatibili con il proprio convincimento che, in termini generali, l’interesse meritevole di tutela di cui all’art. 1322, co. 2, cod. civ. sia e resti altro; e che la meritevolezza del trust vada individuata secondo i cennati parametri di idoneità al raggiungimento di uno scopo altrimenti non raggiungibile dalle parti nell’espletamento della loro autonomia negoziale. Ne rimane anche confermata la differenza tra trust ed atti di destinazione: il primo quale negozio causalmente ben definito, ancorché tipizzato solo per rinvio agli ordinamenti che lo disciplinano; e i secondi quali entità paranegoziali che, con una parafrasi “biogiuridica”, potremmo definire “opportuniste” in quanto, in difetto di struttura vitale propria, devono aderire ad altre fattispecie negoziali per potere dispiegare, sfruttando la loro struttura, gli effetti riconosciuti dall’art. 2645 ter cod. civ..
Ritiene oggi questo il giudice di cogliere l’invito avanzato da larga parte della dottrina di non relegare nell’oblio la norma, di rinvenire comunque in essa un significato, a dispetto della contorta formulazione. Se quindi si deve dare all’istituto lo spazio che merita, si deve opinare che la norma venga ad operare su un piano per così dire esterno: la sua presenza nel sistema giuridico potrebbe avere come conseguenza quella di rappresentare un limite all’incondizionato ingresso nell’ordinamento italiano al trust: oltre ai precedenti parametri, l’interprete si deve porre la domanda se debba essere rispettato anche quello nuovo imposto dall’art. 2645 ter cod. civ..
Il disposto recentemente introdotto, in altri termini, potrebbe venire ad operare in modo complementare, ma non perciò meno rilevante, rispetto al trust. L’esistenza di una norma che consenta la separazione patrimoniale purché si perseguano interessi meritevoli di tutela, così come identificati in base alla interpretazione che sopra è stata riportata, farebbe si che oggi – al di fuori delle ipotesi di scissione tipizzate legalmente – potrebbe non essere più legittimo attuare a nessun titolo, e quindi neanche a titolo di trust, una separazione con finalità esclusivamente egoistiche e patrimoniali, motivata cioè da interessi non solo esclusivamente economici ma anche assolutamente individuali.
Pur cosciente del fatto che la lettura dei valori costituzionali, o di supposta rilevanza costituzionale, può essere in buona misura soggettiva, e che si corra il rischio di riproporre- come avvenuto intorno agli anni ’70 dello scorso secolo - sotto nuove spoglie quel pericoloso vaglio discrezionale da parte dei giudici, scollegato dai limiti legali posti all’autonomia negoziale, stima comunque il giudice che in presenza di un valore di rilevanza primaria o costituzionale tutelato mediante la separazione stessa, ovvero di un interesse patrimoniale non individuale ed egoistico, sarà certamente difficile negare ammissibilità al trust. Non è dunque un caso che la stessa dottrina sopra ampiamente riportata giunga alla nostra medesima finale considerazione della ammissibilità di una separazione patrimoniale a tutela della famiglia di fatto, peraltro seguendo la strada originale sopra esposta.
Ma non sarà automaticamente e sempre vera la deduzione contraria, e cioè che in assenza di tali valori dichiarati, o in presenza di interessi esclusivamente egoistici e patrimoniali, si debba dare risposta negativa in termini generali ed astratti all’ammissibilità di un trust. È in altri termini vero che in nome di beni/interessi superindividuali sarà possibile sacrificare quello, altrettanto generale, della tutela dei creditori, altrimenti pregiudicato dalla separazione stessa; nondimeno, anche un trust attuato per la semplice ragione di protezione del proprio patrimonio, per fini non dichiaratamente illeciti, potrebbe meritare l’apprezzamento in forza della più volte ribadita presunzione di legittimità delle pattuizioni negoziali: ciò sempre che lo strumento negoziale consenta di perseguire ulteriori obiettivi non altrimenti raggiungibili con gli strumenti ordinari. Queste considerazioni sono – si pensa - in linea con i limiti di apprezzamento tipici del giudizio tavolare che, in presenza di una causa lecita e di un programma negoziale meritevole di tutela (nel senso si spera ormai chiaramente delimitato) non può negare alle vicende di rilevanza immobiliare la pubblicità richiesta: altrove si giocherà la partita del concreto vaglio del programma negoziale; altrove si potrà e dovrà, ad esempio, controllare che la dotazione iniziale o sopravvenuta del trust non sia manifestamente sovrabbondante rispetto alle finalità perseguite, dissimulandosi in tal modo un reale intento di segregazione patrimoniale dietro la cortina di un interesse di rango più elevato, ma meramente apparente.
Tornando all’analisi della documentazione dimessa, un ultimo dato negoziale sul quale riflettere è la mancanza di espressione di consenso da parte del trustee nell’ambito dell’atto di dotazione, atto al quale ha – singolarmente – partecipato, firmandolo, ma senza manifestare volontà alcuna. Dalla lettura accurata dell’atto stesso non traspare alcuna clausola negoziale di accettazione della dotazione elargita da uno dei due disponenti, proprietario esclusivo del bene.
L’atto in questione non sembrerebbe poter essere qualificato in via immediata come unilaterale, come invece accade in caso di trust autodichiarato: occorre quindi, al fine di verificare la validità del negozio giuridico e di stabilire la regolamentazione dei rapporti economici tra le parti, stabilire se l’intento delle parti sia stato quello di arricchire una sola di esse, oppure quello di dare attuazione ad un programma negoziale di cui l’atto costituisce parte non autonoma (si veda, per una diversa fattispecie che pure consente di rinvenire la medesima ratio decidendi, Cass., sez. 2, sent. n. 5397 del 2.6.1999). Nel primo caso, in difetto di accettazione espressa nell’atto pubblico, anche qualora si potesse rinvenire nei rimanenti atti una qualsivoglia espressione di consenso negoziale da parte del trustee, ciò comunque non impedirebbe di ravvisare nello stesso una donazione inefficace o imperfetta in assenza di accettazione: solo la volontà del donante avrebbe i necessari requisiti di forma, ma non quella del donatario.
Se invece, come si ritiene, la dotazione del trust non costituisce atto di liberalità, ma schema di trasferimento causalmente e necessariamente informato al programma negoziale di cui fa parte, allora sarebbe sufficiente una accettazione non riversata nella forma dell’atto pubblico. È evidente che questa seconda sia la lettura che si impone, difettando nell’atto di disposizione - e da parte del conferente - qualsiasi intendimento di arricchire il trustee, soggetto che di quel bene non potrà liberamente godere, ma che dovrà amministrarlo con precisi obblighi e responsabilità, in cambio di un minimo corrispettivo.
Se così è, e se si rammenta che il procedimento in affari tavolari è procedimento giurisdizionale di volontaria giurisdizione, sembra di potersi richiamare l’insegnamento per il quale anche “con riferimento ai contratti per i quali è prevista la forma scritta "ad substantiam", il contraente che non abbia sottoscritto l’atto può perfezionare il negozio con la produzione in giudizio del documento al fine di farne valere gli effetti contro l’altro contraente sottoscrittore, o manifestando a questi con un proprio atto scritto la volontà di avvalersi del contratto” (da ultimo, Cass., sez. 2, sent. n. 22223 del 17.10.2006). Il ricorso tavolare, presentato dai procuratori difensori del ricorrente come da mandato a margine, contro il proprietario del bene rappresenta quindi il requisito formale minimo che consente di individuare una accettazione della dotazione immobiliare del trust: è chiaro il riferimento al disposto dell’art. 1333 cod. civ..
Si prende comunque atto della tesi dottrinaria alla quale più volte si è fatto rinvio, la quale evidenzia come, in caso di contratto gratuito ma non liberale, in considerazione della presenza di un preciso interesse dell’alienante, “il vincolo si costituisca per effetto della sola dichiarazione del proprietario gravato, una volta resa conoscibile dal beneficiario, se non segua entro congruo termine il rifiuto”.
c. Verifica della contrarietà ai principi inderogabili dell’ordinamento giuridico.
Non sussiste nell’atto istitutivo del trust o in quelli ad esso geneticamente o funzionalmente collegati alcuna pattuizione che, in modo rilevante ai fini del presente giudizio tavolare, violi norme inderogabili specifiche o principi precettivi dell’ordinamento italiano o di quello estero prescelto dalle parti. L’eliminazione delle clausole illecite sopra individuate non determina la compromissione dell’intero atto, né una sostanziale modificazione.
In conclusione si ritiene che, pur in presenza di tutte le controverse questioni e le non modeste lacune degli atti, la domanda meriti accoglimento.
Quanto alle disposizioni di carattere tavolare, deve essere precisato che la disposizione dell’art. 11 della Convenzione esonera dall’indagine sullo status e sul regime patrimoniale familiare del trustee. Si rende poi evidente come l’elemento negoziale accidentale e tipizzato, quale è il termine finale di cui all’art. 7, vada annotato insieme all’atto che lo contiene, ai sensi dell’art. 20 h) della legge generale sui libri fondiari, nel testo allegato al R.D. 499/1929.
Giova inoltre confermare che, in regime tavolare, la nota problematica sulla natura obbligatoria o reale dei vincoli imposti al trustee assume valenza piuttosto teorica. Infatti al giudice tavolare spetta il potere-dovere di concedere l’iscrizione tavolare solo se, ai sensi dell’art. 94, co. 1 n. 2, della legge generale sui libri fondiari, nel testo allegato al R.D. 499/1929, “non sussiste alcun giustificato dubbio sulla capacità personale delle parti di disporre dell’oggetto a cui l’iscrizione si riferisce o sulla legittimazione dell’istante”. Qualora, quindi, il trustee decidesse di alienare il bene costituito in trust, o creare altri diritti reali di godimento o garanzia senza rispettare i limiti posti a suo carico, ad esempio cedendolo a terzi diversi dal beneficiario, il giudice tavolare dovrebbe negare l’iscrizione tavolare a favore dell’alienatario, senza porsi tanto il problema della natura reale o personale dei vincoli violati, afferendo comunque essi alla capacità di disporre del bene: non si dimentichi che il regime tavolare sconosce l’istituto della vendita a non domino.
Tutto ciò premesso, il giudice tavolare, in accoglimento del ricorso
O R D I N A
In c.c. di Aurisina
presso la P.T. 1966
1) Intavolare il diritto di proprietà dal nome di: TIZIO (nato a Udine _____) a nome di Caia s.s., in persona dell’amministratore pro tempore, quale trustee del “TRUST TIZIO e SEMPRONIA”,
2) Annotare il termine di cui all’art. 7 dell’atto istitutivo del trust.
Trieste
IL GIUDICE TAVOLARE
(Dott. Arturo Picciotto)
IL Conservatore
g.n. 1912/2007
Il giudice tavolare, letta la domanda proposta dagli Avvocati …. per conto di …., quale trustee del …., visti gli atti ed esaminata la documentazione, osserva quanto segue.
Doveroso appare il rinvio al proprio provvedimento dd. 23.9.2005, sub g.n. 10804/05, quanto alla indicazione delle linee generali di orientamento dell’Ufficio in tema di compatibilità astratta del trust con l’ordinamento civile, ed in particolare con quello tavolare.
Muovendo quindi nel solco di quel provvedimento, e dando per risolti tutta una serie di problemi che, a giudizio dello scrivente, sono stati ampiamente superati dal diritto vivente, occorrerà:
a. qualificare la tipologia di trust concretamente adottata, al fine di apprezzarne il programma negoziale secondo il combinato disposto degli artt. 11 e 13 della Convenzione de L’Aja del 1.7.1985, che consente al giudice di vagliare la compatibilità del trust e degli atti collegati (nonché della legge straniera prescelta dalle parti) con l’ordinamento giuridico italiano;
b. effettuare il giudizio di meritevolezza, nei suoi ristretti confini e nel rispetto dell’autonomia contrattuale, approcciando al negozio presumendone la legittimità fino a prova contraria, essendo lo stesso espressione di libertà di iniziativa economica;
c. verificare se l’atto istitutivo del trust o quelli ad esso geneticamente o funzionalmente collegati contengano pattuizioni che violino norme inderogabili specifiche o principi precettivi dell’ordinamento italiano o di quello estero prescelto dalle parti.
Oltre a queste linee di indagine occorrerà infine, a seguito dell’innovazione normativa di cui all’art. 2645 ter cod. civ., confrontarsi con la nuova – presunta - figura degli atti di destinazione, per verificare se ed in che modo operi una relazione tra i due istituti.
Ciò posto, si premette come, nel dichiarato intento di superare alcune riconosciute omissioni, ed in quello verosimile di colmare le lacune presenti negli atti già predisposti e conservati presso l’ufficio tavolare dopo il rigetto sub g.n. 3996/06, alla domanda tavolare è stata di fatto assegnata una funzione di auspicata eterointegrazione dei negozi stessi, avendo i ricorrenti operato una descrizione delle finalità del programma negoziale prescelto; ciò ovviamente non è ammissibile, dovendo gli atti essere da sé soli idonei al raggiungimento degli scopi: non di meno il ricorso tavolare può fungere da utile riferimento ermeneutico.
Si procede quindi nell’ordine elencato.
a. Qualificazione della tipologia di trust concretamente adottata.
Fino a quando del trust non verrà data disciplina sotto il profilo civilistico, ma si continuerà solo a presupporre la sua esistenza con norme di settore o ambito limitato (ad esempio, tributarie), il trust stesso rimarrà un negozio atipico. Le considerazioni sulla natura delle norme della convenzione de L’Aja del 1.7.1985, la tipizzazione effettuata da altri ordinamenti, nonché il rinvio a tali realtà da parte di quello italiano, lungi dal conferire tipicità al trust rappresentano, nondimeno, tappe del percorso logico giuridico che deve compiere l’interprete per dare sistemazione e copertura a vicende economiche che, nel rispetto del principio di completezza dell’ordinamento giuridico, devono trovare comunque regolamentazione. Per apprezzare allora il programma negoziale e vagliare la compatibilità del trust e degli atti collegati (nonché della legge straniera prescelta dalle parti) con l’ordinamento giuridico italiano, occorre guardare con attenzione all’assetto di interessi delle parti stipulanti: l’accesso alla causa è del resto tipico del giudizio tavolare, come altrove si è sostenuto e come è pacifico in dottrina. Ovviamente, trattandosi di fattispecie atipica, l’accezione di causa non può essere quella statica e tradizionale della cd. teoria oggettiva, formalmente accolta dal codice del 1942, svincolata dagli scopi delle parti, quella cioè di “funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall’ordinamento ai fini di giustificare la tutela dell’autonomia privata” (così nella relazione del guardasigilli al re). Essa può e deve essere oggi particolarmente apprezzata, ed al riguardo soccorrono le esemplari considerazioni della recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (Sent. n. 10490 del 2006), che l’elemento negoziale ha definito quale “sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale”.
L’indagine sulla causa del trust rischierebbe però di essere compromessa in partenza, se si rimanesse inviluppati tra il tentativo inutile di individuare una causa tipica, e quello illegittimo di sostituire con i motivi la funzione del negozio. In altri termini: non esiste la causa di trust direttamente ed immediatamente rilevante per l’ordinamento giuridico italiano, e non esisterà fin quando essa non sarà normativamente prevista, ma esistono solo l’effetto di segregazione e gli altri elementi che caratterizzano usualmente o necessariamente il trust in altri ordinamenti. Tali elementi immancabili sono, secondo la miglior dottrina, il trasferimento del diritto al trustee o la dichiarazione unilaterale di trust; la segregazione, appunto; l’affidamento; l’esistenza di beneficiari o di uno scopo, con conseguente funzionalizzazione del diritto trasferito al trustee; l’esistenza di un rapporto fiduciario in virtù del quale risolvere profili di conflitto di interesse. Partendo da qui, e rammentando che l’atipicità del negozio non impone sempre un affanno qualificatorio, si conferma la precedente opinione di questo giudice secondo cui l’interprete potrà fermarsi alla mera individuazione, all’interno del negozio atipico, dei suoi parametri generali (id est: indagare la sua efficacia obbligatoria o traslativa, la natura corrispettiva o unilaterale o gratuita, l’aleatorietà o commutatività, e così oltre), per poi verificare il suo funzionamento in base alle regole normative di riferimento, anche se straniere, o adattare al caso di specie le regole generali dell’ordinamento interno, ovvero quelle che, essendo comuni alle figure negoziali maggiormente similari a quella atipica, vengono a rappresentarne impronte caratterizzanti. Non occorrerà quindi una perfetta sincronia strutturale o effettuale con i negozi tipici, ma sarà sufficiente la mera possibilità di condurre il negozio atipico a categorie – anche solo effettuali - apprezzate dall’ordinamento. Si rammenterà, del resto, che la Suprema Corte di Cassazione abbia ammesso la configurabilità di negozi traslativi atipici, purché sorretti da causa lecita, fondandola sul principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 comma 2 cod. civ. (Cass., sez. 3, sent. 9.10.1991 n. 10612).
b. Il giudizio di meritevolezza.
Il discorso sulla ricerca della causa viene a questo punto a fondersi con l’apprezzamento degli interessi perseguiti. È già stata espressa in altra sede la convinzione della dottrina assolutamente dominante sul tema della meritevolezza di interessi, e molto è stato scritto su questo dimenticato, frainteso e spesso travisato concetto: ciò anche di recente, a commento dell’art. 2645 ter cod. civ.. È qui solo il caso di rammentare come l’art. 1322, co. 2, cod. civ., una volta scomparso il regime e l’ideologia che lo avevano fortemente voluto nel codice sostanziale, non costituisca più una pseudo-clausola generale, che «si presterebbe a meraviglia a mettere i contraenti a discrezione del giudice, il quale potrebbe togliere valore ad ogni contratto valido, col pretesto che il suo fine non è socialmente apprezzabile»: si rinvia al provvedimento già citato per le considerazioni di supporto. Invece il concetto al quale si rimane fedeli, e che viene ad integrare le considerazioni di cui al punto a. sulla causa, è quello di meritevolezza come giudizio di verifica del programma negoziale, volto ad analizzare se i suoi effetti siano rapportabili a quelli previsti a livello categoriale dall’ordinamento giuridico, oppure se si perseguano ulteriori obiettivi non altrimenti raggiungibili con gli strumenti ordinari: in questo caso si avrà un negozio atipico, meritevole di tutela sempre che la sua causa non sia illecita; altrimenti si rimarrà all’interno del fenomeno del negozio misto, del collegamento negoziale, della frantumazione e ricomposizione negoziale, dove il giudizio di meritevolezza è già stato in astratto compiuto dal legislatore.
Poste queste due premesse, si muove all’analisi della fattispecie concreta, e quindi in primo luogo dell’atto istitutivo del trust.
Non essendo possibile riportare i 44 articoli, e le sottovoci, che compongono il complesso atto, si considerano qui di seguito quelli maggiormente caratterizzanti, al fine della qualificazione dell’operazione negoziale: la sensazione è che si tratti tuttavia di opera di difficile attuazione, in considerazione della scarsa linearità del programma negoziale.
Questi quindi i principali punti:
- al punto 5 della premessa i disponenti esprimono la loro volontà di creare un patrimonio separato, in analogia con il fondo patrimoniale, per soddisfare le esigenze attuali e future di entrambi; il riferimento ai figli – comuni e non - della coppia, non legata da vincolo matrimoniale, viene alla luce solo al punto 4, in sede di individuazione dei beneficiari del trust, in relazione sia al reddito che alla destinazione finale dei beni;
- al punto 11, nella parte III dell’atto su “i beneficiari” si prevede che le disposizioni in favore dei beneficiari sono oggetto di “Protective Trust” secondo la legge regolatrice del Trust (Trustee Act, 1925, sect. 33), ed i relativi diritti sono indisponibili e vengono meno sia in caso di disposizione, qualora il titolare sia dichiarato fallito o se su di esso si compiano atti conservativi o di esecuzione;
- al punto 19 si dispone che il trustee – sulla cui figura si tornerà – abbia tutti i poteri in ordine ai beni in trust ad eccezione di quelli di disporre di beni immobili o partecipazioni societarie, di costituire garanzie reali, di stipulare contratti che attribuiscano il godimento di beni in trust (salvo che a favore dei beneficiari);
- al punto 27.3. si prevederebbe che il trustee sia revocabile solo in forza d’atto congiunto tra il guardiano ed i disponenti: ma si tratta di disposizione da leggere congiuntamente con il negozio collegato costitutivo della società semplice che funge da trustee: essa è di totale e paritaria partecipazione dei due disponenti, e vi è preposto un socio d’opera, revocabile in qualsiasi momento (art. 7.3. del contratto costitutivo di società semplice, “il socio d’opera può essere escluso su richiesta anche di un solo socio di capitale”): escludere il socio d’opera determinerebbe che la società semplice rimarrebbe trustee, ma i disponenti ed i beneficiari del trust sarebbero al tempo stesso i suoi unici soci e rappresentanti, e quindi coloro che formano anche formalmente la volontà del trustee;
- al punto 35.1. si statuisce che il reddito del trust, assolto ogni costo, è “a discrezione del trustee, sentito il guardiano, accumulato nel trust o distribuito ai beneficiari o parte accumulato e parte distribuito: in caso di distribuzione spetta al trustee decidere discrezionalmente a vantaggio di quale beneficiario”. In relazione di subordinazione logica sta la successiva previsione di cui all’art. 36.1. in base alla quale, “ove il trustee accerti” (ma rimane ovviamente libero discrezionalmente di farlo in base al disposto che precede) “che qualcuno fra i beneficiari abbia necessità di somministrazione di mezzi finanziari per ragioni di studio, malattia o di sopravvenute difficoltà nella vita ordinaria, egli è tenuto ad impiegare il reddito del trust, corrente o previamente accumulato, per devolvergli o impiegare direttamente le somme di denaro necessarie”;
- ai punti 38.1. e 38.2. si disciplina il godimento di beni immobili da parte dei beneficiari e il possibile riassetto di eventuali sperequazioni fra gli stessi beneficiari in relazione a tale godimento;
- ai punti 39. e seguenti si legge della disciplina per la destinazione finale dei beni in trust, nella quale, tuttavia, si dà per scontato che i beni debbano essere frazionati in quote, nel mentre alla cessazione della destinazione è ovvio e naturale che i beni tornino ai disponenti, a meno che non si sia verificato un fenomeno successorio;
- al punto 44.1. si stabilisce che qualora una o più clausole dell’atto siano invalide esse devono esse sostituite con altre valide, conformi alla legge applicabile e non in contrasto con il riconoscimento da parte della legge italiana, che ottengano gli effetti il più possibile simili a quelli delle clausole invalide, evitando di travolgere la validità dell’atto stesso;
- al punto 44.2., come extrema ratio, si rinviene che, qualora non fosse ritenuto legittimo il trust, esso dovrà essere riconosciuto come società semplice di fatto tra trustee e guardiano, ambedue soci d’opera (con le particolarità sopra viste), ed i beni in trust saranno beni della società.
Da questo sommario esame possono essere tratte le prime conseguenze.
Malgrado l’espressa definizione operata dalle parti, quello in questione non è un Protective Trust, e la clausola sub 11 è illegittima, in quanto viola il principio di ordine pubblico, proprio del diritto inglese regolatore dell’atto, che vieta che il beneficiario sia la stessa persona del disponente: nell’atto si prevede che i disponenti siano i primi beneficiari del reddito e, salvo in caso di morte, gli esclusivi beneficiari dei beni. Ma in via logicamente prioritaria osta al riconoscimento di un Protective Trust la circostanza che sussiste piena ed incontrollabile discrezionalità del trustee nella distribuzione dei redditi derivanti dal trust, sia quanto all’an che al quomodo, come desumibile dalla lettura del punto 35.1. dell’atto istitutivo.
In considerazione del fatto che le parti disponenti hanno voluto istituire come trustee una società semplice, di cui loro stessi sono esclusivi e paritari soci di capitale ed un terzo soggetto è socio d’opera, e poiché lo schermo della società semplice sembra molto fragile, conviene quindi, in un’ottica conservativa del negozio non estranea alla volontà dei disponenti, eliminare la clausola e verificare cosa resta di questo trust.
Visto nella nuova dimensione, e nella generica connotazione voluta dalle parti ed ulteriormente illustrata nel ricorso tavolare, sembrerebbe potersi invocare la figura dei Family Trusts, ma anche - per lo meno quanto alla distribuzione del reddito - quella dei Discretionary Trusts, attesa la piena discrezionalità del trustee sul se ed a chi distribuire reddito; invece, quanto alla ripartizione finale, sembra che di discrezionalità non ve ne sia in concreto, atteso che l’unico bene al momento affidato al trustee (oltre alla dotazione di € 100,00) è l’immobile di cui si dirà, e che esso andrà ai disponenti (o al disponente che l’ha conferito, non essendo chiara la clausola). Per altro verso, la previsione di cui al punto 38.2. sulla possibilità di concessione in godimento di beni immobili a vantaggio dei beneficiari, sembra evocare quelle particolari categorie di trusts in cui si attribuiscono diritti diversi da rendite o beni capitali. Una considerazione che pure si potrebbe trarre in base ad un’analisi complessiva delle clausole dell’atto istitutivo, tenendo in debito conto la qualità di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, è che in realtà si potrebbe essere al cospetto di un trust di protezione patrimoniale, connotato ad colorandum da finalità di protezione familiare: uno di quei trust, insomma, in cui il disponente crea una situazione in cui “having the cake and eating too”, ove sostanzialmente difetta qualsiasi affidamento del diritto al trustee.
Ferma però la convinzione che fino a prova contraria il trust deve stimarsi lecito, e riservata ad altra ed eventuale indagine di diverso giudice la questione di una possibile simulazione o illegittimità di causa, o quella di una violazione dei diritti dei creditori a cagione di un atto di dotazione in frode agli stessi, non rimane che qualificare l’operazione compiuta, nei limiti sopra esposti.
Il fine dichiarato dai disponenti è quello di “soddisfare le esigenze attuali e future di entrambi”, con eventuale distribuzione dei redditi ai beneficiari, con futura ripartizione dei beni alla cessazione del trust, e con obbligo del trustee di somministrare “mezzi finanziari per ragioni di studio, malattia o di sopravvenute difficoltà nella vita ordinaria” ai beneficiari che ne abbiano necessità.
Potrebbe quindi ritenersi legittima una qualificazione del negozio come Family Trust, ancorché manchi qualsiasi considerazione in ordine all’intento delle parti disponenti di mantenere una unitarietà dei beni all’interno della famiglia nucleare; sono poi dettate disposizioni contrastanti e poco comprensibili in merito al riparto finale dei beni, stante la difformità dei punti 4.2. e ss. e di quelli 39. e ss.; non è chiaro come debbano essere ripartiti i beni apportati da un singolo disponente (come nel caso dell’immobile qui conferito), né appaiono nitide le regole di distribuzione, la cui unica linea ispiratrice appare l’assoluta discrezionalità del trustee; inoltre manca qualsiasi apporto in ordine all’individuazione della disciplina dell’amministrazione dei beni, dichiaratamente destinati al soddisfacimento di interessi anche di minorenni: il ruolo del guardiano non potrà che essere di secondo piano, in quanto istituzionalmente dovranno essere fatte salve le prerogative del giudice tutelare. Infine nessun indice ermeneutico a vantaggio della qualificazione di questo come di un Family Trust può trarsi dalla scelta del trustee, non trattandosi di un soggetto dotato di particolari attitudini che lascino intendere, ad esempio, una selezione da parte dei disponenti attuata sulla base delle capacità professionali o morali di amministrare beni o interessi per il raggiungimento dei fini preposti.
Quello adottato – quindi - si avvicina molto ad uno schema individuato dalla dottrina nell’analisi pratica degli Asset Protection Trust che abbiano ad oggetto immobili, come tali non trasferibili off-shore: anche nel caso in esame – come in quelli usualmente commentati con sfavore dalla dottrina ed oggetto di esame giudiziario - è stata seguita la traccia della costituzione di una società alla quale conferire i beni di cui i disponenti si sono intesi spogliare, con nomina del fiduciario quale amministratore unico, ma con possesso completo del capitale o delle quote da parte del disponente, così da esercitare un controllo completo sul bene pur non figurandone direttamente trustee. Ciò è quanto successo, se si analizza il contratto costitutivo della società semplice, alla quale è espressamente inibito lo svolgimento di attività d’impresa, ed il cui oggetto sociale appare essere il possesso e la gestione di beni mobili, immobili e partecipazioni o quote o di altri strumenti finanziari, sia in proprio che quale trustee. Soci di capitale sono i soli disponenti, nel mentre un terzo viene indicato come socio d’opera e come gestore e rappresentante della società nei confronti dei terzi: egli può essere escluso su richiesta anche di uno solo dei soci di capitale. In caso di aggressione del capitale sociale da parte dei creditori, viene mantenuto il potere di voto in capo al socio, diventato socio d’opera; sono poi previste ipotesi di accrescimento per casi come la morte del socio o lo scioglimento del rapporto sociale. I patti sociali possono essere modificati a maggioranza dei soci di capitali (disposizione inattuabile). Con espressa pattuizione si prevede che la società semplice non potrà mai essere considerata comunione di godimento, ma al più società in nome collettivo irregolare.
La società semplice trustee, indubbiamente dotata di soggettività giuridica, è in completo controllo dei suoi soci di capitale, i quali formalmente hanno concesso un potere di rappresentanza pieno ed indiscutibile: di fatto però sono titolari anche in via disgiunta del potere di revocarlo. Si potrebbe in concreto intuire una dipendenza della società trustee da quei soggetti che fisicamente sono al tempo stesso i disponenti del bene in trust, i suoi primi beneficiari di rendite e dei beni stessi, nonché i soli soci di capitale della società in questione.
Ma i limiti dell’indagine non potrebbero consentire, in difetto dell’interesse di un controinteressato, di spingersi oltre nell’analisi; e ciò anche sulla base di un ulteriore argomento, di carattere forse più suggestivo che ermeneutico: i disponenti avrebbero potuto infatti seguire la strada, più diretta ma al tempo stesso meno accattivante, del trust autodichiarato, senza dare adito a tanti dubbi sulla loro reale volontà.
Gli stessi ristretti limiti di analisi consentono di censurare come meramente irrilevante la clausola flee (o anche conosciuta come flight) di cui all’art. 8.2. che consentirebbe una migrazione del trust verso leggi straniere regolatrici che, in prosieguo, si mostrassero più consone all’utilità dei beneficiari: più propriamente il fenomeno riguarda lo spostamento materiale del trust ma, trattandosi di trust fondamentalmente destinato a ricevere in dotazione beni immobili, lo stesso effetto speravano di ottenere gli stipulanti prevedendo un disinvolto cambio in corsa delle leggi regolatrici.
Sul presupposto, quindi, che si possa trattare di un trust discrezionale, di ispirazione familiare, occorre verificare se, al di là delle mere definizioni, sussistano elementi per ritenere meritevole di tutela la scelta negoziale.
Volontà dei disponenti è quella di creare un patrimonio separato in analogia con il fondo patrimoniale, obiettivo questo non realizzabile direttamente per non essere i disponenti sposati.
È noto come ai conviventi more uxorio non vengano riconosciuti diritti connaturati all’esistenza di un rapporto duraturo e stabile, ma che – non di meno - la tutela della prole e degli assetti patrimoniali nell’interesse degli stessi costituiscano importanti chiavi di interpretazione ai fini che ne occupano.
Si ritiene che l’assenza di un vincolo parentale e di una situazione di certezza di rapporti giuridici, in nome della quale spesso i giudici di legittimità e lo stesso giudice delle leggi hanno dichiarato manifestamente infondate o rigettato questioni di incostituzionalità dell’assetto normativo, non impediscano nel caso di specie di ritenere meritevole lo strumento in questione al fine di concedere una tutela, altrimenti inesistente, ai genitori ed ai figli, nati prima o in costanza di questo rapporto di fatto. Si intende cioè dire che la segregazione di un patrimonio nel dichiarato intento di apprestare una tutela economica e di assistenza ad una famiglia di fatto, che non sarebbe altrimenti assicurabile in forme neanche lontanamente simili a quelle del fondo patrimoniale, rappresenta quel quid che consente di ritenere apprezzabile lo strumento innominato, e dare così ingresso al trust in questione, nei limiti di indagine di questo giudice. Proprio questo valore perseguito, e cioè la tutela della prole familiare, costituisce quel rilevante elemento che aveva indotto la giurisprudenza costituzionale a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevedeva la successione nel contratto di locazione al conduttore che avesse cessato la convivenza quando vi fosse prole naturale; non a caso lo stesso presupposto – questa volta in negativo - della ricorrenza di figli ha recentemente indotto la stessa corte a negare il diritto alla prosecuzione nel rapporto locatizio al convivente more uxorio in assenza di prole (C. Cost., ord. n. 204 del 2003, rel. CONTRI).
E nel nome della tutela della prole è possibile anche superare la problematica dei rapporti del trust con la disposizione di cui all’art. 2645 ter cod. civ..
Molto si è detto e scritto al riguardo, e sia l’ambito di questo provvedimento che la circostanza di avere altrove espresso le proprie convinzioni sulla operatività della norma impediscono una analisi approfondita della stessa. Basti quindi evidenziare come a proprio giudizio “la norma sia valsa a legittimare l’esistenza nell’ordinamento giuridico di un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione, che per i beni immobili e mobili registrati postula il veicolo formale dell’atto pubblico”; “…siamo al cospetto di un ulteriore effetto negoziale, che può essere partecipe delle fattispecie causali traslative tipiche (e forse anche di quelle ad effetti obbligatori e di quelle atipiche)” e quindi non “…ci troviamo davanti ad un nuovo negozio la cui causa è quella finalistica della destinazione del bene alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela”.
In un primo momento la norma era stata giudicata - da chi scrive - sostanzialmente inutile, se non dannosa, in ragione degli ormai acquisiti equilibri interpretativi raggiunti sul tema della meritevolezza di interessi. L’opinione potrebbe però essere parzialmente rimeditata alla luce del contributo offerto, recentemente, da autorevole dottrina, la quale ha proposto una lettura costituzionalmente orientata della norma in questione, riconoscendole “il significato di estendere la sfera operativa dell’autonomia privata”. Mentre in precedenza i casi di separazione tra legal e equitable ownership erano tipizzati normativamente, ora la “giustificazione idonea” potrebbe essere rinvenuta proprio in quegli interessi meritevoli di tutela cui fa riferimento la norma. Nell’individuazione di questi criteri, però, per non abbandonarsi alla discrezionalità dei giudici, occorre individuare il concetto di meritevolezza in questione: e ciò soprattutto perché, a volere intenderlo nel modo fin qui condiviso dalla assoluta maggioranza della dottrina e – nei fatti concreti – dalla giurisprudenza, si finirebbe per determinare una illegittimità costituzionale della norma. Invero non sarebbe giustificabile una potenzialità astratta e sempre valida alla separazione di assetti proprietari, laddove lo stesso legislatore l’ha voluta e disciplinata, in precedenza, solo per talune e specifiche ipotesi. Propone quindi l’Autore, così dando nuovo impulso alla tesi di altra dottrina, di leggere la norma quale “strumento di selezione di valori”. Vi sarà meritevolezza rilevante ai fini della separazione qualora l’interesse perseguito sia prevalente rispetto a quello dei creditori e degli aventi causa. Del resto non qualsiasi interesse individuale poteva legittimare tale separazione, neanche mercè lo strumento normativo, in quanto – sottolinea ancora la condivisibile dottrina – l’art. 43, co. 2, Cost. tollera le limitazioni del diritto di proprietà solo qualora in tal modo sia assicurata la sua funzione sociale. La proposta esegetica è quindi quella di rifarsi al sistema costituzionale per l’individuazione dei valori in nome dei quali operare la separazione: beni ed interessi non necessariamente collettivi, purché non meramente patrimoniali; corrispondenti, cioè, a valori della persona costituzionalmente garantiti, sulla falsariga di quelli selezionati dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione come meritevoli di ristoro ai sensi dell’art. 2059 cod. civ.. In conclusione, dubitando della apprezzabilità della norma quale clausola generale dell’ordinamento, l’Autore ne postula una limitazione anche soggettiva, nel senso della necessaria “estraneità dell’interesse perseguito alla persona del proprietario gravato”, pur limitando le conseguenze negative al caso in cui tale interesse sia “esclusivamente” proprio di tale soggetto.
Queste considerazioni, largamente riportate, sono in buona parte compatibili con il proprio convincimento che, in termini generali, l’interesse meritevole di tutela di cui all’art. 1322, co. 2, cod. civ. sia e resti altro; e che la meritevolezza del trust vada individuata secondo i cennati parametri di idoneità al raggiungimento di uno scopo altrimenti non raggiungibile dalle parti nell’espletamento della loro autonomia negoziale. Ne rimane anche confermata la differenza tra trust ed atti di destinazione: il primo quale negozio causalmente ben definito, ancorché tipizzato solo per rinvio agli ordinamenti che lo disciplinano; e i secondi quali entità paranegoziali che, con una parafrasi “biogiuridica”, potremmo definire “opportuniste” in quanto, in difetto di struttura vitale propria, devono aderire ad altre fattispecie negoziali per potere dispiegare, sfruttando la loro struttura, gli effetti riconosciuti dall’art. 2645 ter cod. civ..
Ritiene oggi questo il giudice di cogliere l’invito avanzato da larga parte della dottrina di non relegare nell’oblio la norma, di rinvenire comunque in essa un significato, a dispetto della contorta formulazione. Se quindi si deve dare all’istituto lo spazio che merita, si deve opinare che la norma venga ad operare su un piano per così dire esterno: la sua presenza nel sistema giuridico potrebbe avere come conseguenza quella di rappresentare un limite all’incondizionato ingresso nell’ordinamento italiano al trust: oltre ai precedenti parametri, l’interprete si deve porre la domanda se debba essere rispettato anche quello nuovo imposto dall’art. 2645 ter cod. civ..
Il disposto recentemente introdotto, in altri termini, potrebbe venire ad operare in modo complementare, ma non perciò meno rilevante, rispetto al trust. L’esistenza di una norma che consenta la separazione patrimoniale purché si perseguano interessi meritevoli di tutela, così come identificati in base alla interpretazione che sopra è stata riportata, farebbe si che oggi – al di fuori delle ipotesi di scissione tipizzate legalmente – potrebbe non essere più legittimo attuare a nessun titolo, e quindi neanche a titolo di trust, una separazione con finalità esclusivamente egoistiche e patrimoniali, motivata cioè da interessi non solo esclusivamente economici ma anche assolutamente individuali.
Pur cosciente del fatto che la lettura dei valori costituzionali, o di supposta rilevanza costituzionale, può essere in buona misura soggettiva, e che si corra il rischio di riproporre- come avvenuto intorno agli anni ’70 dello scorso secolo - sotto nuove spoglie quel pericoloso vaglio discrezionale da parte dei giudici, scollegato dai limiti legali posti all’autonomia negoziale, stima comunque il giudice che in presenza di un valore di rilevanza primaria o costituzionale tutelato mediante la separazione stessa, ovvero di un interesse patrimoniale non individuale ed egoistico, sarà certamente difficile negare ammissibilità al trust. Non è dunque un caso che la stessa dottrina sopra ampiamente riportata giunga alla nostra medesima finale considerazione della ammissibilità di una separazione patrimoniale a tutela della famiglia di fatto, peraltro seguendo la strada originale sopra esposta.
Ma non sarà automaticamente e sempre vera la deduzione contraria, e cioè che in assenza di tali valori dichiarati, o in presenza di interessi esclusivamente egoistici e patrimoniali, si debba dare risposta negativa in termini generali ed astratti all’ammissibilità di un trust. È in altri termini vero che in nome di beni/interessi superindividuali sarà possibile sacrificare quello, altrettanto generale, della tutela dei creditori, altrimenti pregiudicato dalla separazione stessa; nondimeno, anche un trust attuato per la semplice ragione di protezione del proprio patrimonio, per fini non dichiaratamente illeciti, potrebbe meritare l’apprezzamento in forza della più volte ribadita presunzione di legittimità delle pattuizioni negoziali: ciò sempre che lo strumento negoziale consenta di perseguire ulteriori obiettivi non altrimenti raggiungibili con gli strumenti ordinari. Queste considerazioni sono – si pensa - in linea con i limiti di apprezzamento tipici del giudizio tavolare che, in presenza di una causa lecita e di un programma negoziale meritevole di tutela (nel senso si spera ormai chiaramente delimitato) non può negare alle vicende di rilevanza immobiliare la pubblicità richiesta: altrove si giocherà la partita del concreto vaglio del programma negoziale; altrove si potrà e dovrà, ad esempio, controllare che la dotazione iniziale o sopravvenuta del trust non sia manifestamente sovrabbondante rispetto alle finalità perseguite, dissimulandosi in tal modo un reale intento di segregazione patrimoniale dietro la cortina di un interesse di rango più elevato, ma meramente apparente.
Tornando all’analisi della documentazione dimessa, un ultimo dato negoziale sul quale riflettere è la mancanza di espressione di consenso da parte del trustee nell’ambito dell’atto di dotazione, atto al quale ha – singolarmente – partecipato, firmandolo, ma senza manifestare volontà alcuna. Dalla lettura accurata dell’atto stesso non traspare alcuna clausola negoziale di accettazione della dotazione elargita da uno dei due disponenti, proprietario esclusivo del bene.
L’atto in questione non sembrerebbe poter essere qualificato in via immediata come unilaterale, come invece accade in caso di trust autodichiarato: occorre quindi, al fine di verificare la validità del negozio giuridico e di stabilire la regolamentazione dei rapporti economici tra le parti, stabilire se l’intento delle parti sia stato quello di arricchire una sola di esse, oppure quello di dare attuazione ad un programma negoziale di cui l’atto costituisce parte non autonoma (si veda, per una diversa fattispecie che pure consente di rinvenire la medesima ratio decidendi, Cass., sez. 2, sent. n. 5397 del 2.6.1999). Nel primo caso, in difetto di accettazione espressa nell’atto pubblico, anche qualora si potesse rinvenire nei rimanenti atti una qualsivoglia espressione di consenso negoziale da parte del trustee, ciò comunque non impedirebbe di ravvisare nello stesso una donazione inefficace o imperfetta in assenza di accettazione: solo la volontà del donante avrebbe i necessari requisiti di forma, ma non quella del donatario.
Se invece, come si ritiene, la dotazione del trust non costituisce atto di liberalità, ma schema di trasferimento causalmente e necessariamente informato al programma negoziale di cui fa parte, allora sarebbe sufficiente una accettazione non riversata nella forma dell’atto pubblico. È evidente che questa seconda sia la lettura che si impone, difettando nell’atto di disposizione - e da parte del conferente - qualsiasi intendimento di arricchire il trustee, soggetto che di quel bene non potrà liberamente godere, ma che dovrà amministrarlo con precisi obblighi e responsabilità, in cambio di un minimo corrispettivo.
Se così è, e se si rammenta che il procedimento in affari tavolari è procedimento giurisdizionale di volontaria giurisdizione, sembra di potersi richiamare l’insegnamento per il quale anche “con riferimento ai contratti per i quali è prevista la forma scritta "ad substantiam", il contraente che non abbia sottoscritto l’atto può perfezionare il negozio con la produzione in giudizio del documento al fine di farne valere gli effetti contro l’altro contraente sottoscrittore, o manifestando a questi con un proprio atto scritto la volontà di avvalersi del contratto” (da ultimo, Cass., sez. 2, sent. n. 22223 del 17.10.2006). Il ricorso tavolare, presentato dai procuratori difensori del ricorrente come da mandato a margine, contro il proprietario del bene rappresenta quindi il requisito formale minimo che consente di individuare una accettazione della dotazione immobiliare del trust: è chiaro il riferimento al disposto dell’art. 1333 cod. civ..
Si prende comunque atto della tesi dottrinaria alla quale più volte si è fatto rinvio, la quale evidenzia come, in caso di contratto gratuito ma non liberale, in considerazione della presenza di un preciso interesse dell’alienante, “il vincolo si costituisca per effetto della sola dichiarazione del proprietario gravato, una volta resa conoscibile dal beneficiario, se non segua entro congruo termine il rifiuto”.
c. Verifica della contrarietà ai principi inderogabili dell’ordinamento giuridico.
Non sussiste nell’atto istitutivo del trust o in quelli ad esso geneticamente o funzionalmente collegati alcuna pattuizione che, in modo rilevante ai fini del presente giudizio tavolare, violi norme inderogabili specifiche o principi precettivi dell’ordinamento italiano o di quello estero prescelto dalle parti. L’eliminazione delle clausole illecite sopra individuate non determina la compromissione dell’intero atto, né una sostanziale modificazione.
In conclusione si ritiene che, pur in presenza di tutte le controverse questioni e le non modeste lacune degli atti, la domanda meriti accoglimento.
Quanto alle disposizioni di carattere tavolare, deve essere precisato che la disposizione dell’art. 11 della Convenzione esonera dall’indagine sullo status e sul regime patrimoniale familiare del trustee. Si rende poi evidente come l’elemento negoziale accidentale e tipizzato, quale è il termine finale di cui all’art. 7, vada annotato insieme all’atto che lo contiene, ai sensi dell’art. 20 h) della legge generale sui libri fondiari, nel testo allegato al R.D. 499/1929.
Giova inoltre confermare che, in regime tavolare, la nota problematica sulla natura obbligatoria o reale dei vincoli imposti al trustee assume valenza piuttosto teorica. Infatti al giudice tavolare spetta il potere-dovere di concedere l’iscrizione tavolare solo se, ai sensi dell’art. 94, co. 1 n. 2, della legge generale sui libri fondiari, nel testo allegato al R.D. 499/1929, “non sussiste alcun giustificato dubbio sulla capacità personale delle parti di disporre dell’oggetto a cui l’iscrizione si riferisce o sulla legittimazione dell’istante”. Qualora, quindi, il trustee decidesse di alienare il bene costituito in trust, o creare altri diritti reali di godimento o garanzia senza rispettare i limiti posti a suo carico, ad esempio cedendolo a terzi diversi dal beneficiario, il giudice tavolare dovrebbe negare l’iscrizione tavolare a favore dell’alienatario, senza porsi tanto il problema della natura reale o personale dei vincoli violati, afferendo comunque essi alla capacità di disporre del bene: non si dimentichi che il regime tavolare sconosce l’istituto della vendita a non domino.
Tutto ciò premesso, il giudice tavolare, in accoglimento del ricorso
O R D I N A
In c.c. di Aurisina
presso la P.T. 1966
1) Intavolare il diritto di proprietà dal nome di: TIZIO (nato a Udine _____) a nome di Caia s.s., in persona dell’amministratore pro tempore, quale trustee del “TRUST TIZIO e SEMPRONIA”,
2) Annotare il termine di cui all’art. 7 dell’atto istitutivo del trust.
Trieste
IL GIUDICE TAVOLARE
(Dott. Arturo Picciotto)
IL Conservatore