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Trust under fire

Trust
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Questi primi mesi del 2015 hanno visto un insolito numero di pronunce in materia di trust, di impatto almeno pari a quella sul trust liquidatorio, nell’anno precedente.

Ma mentre le conclusioni emerse con riferimento a tale argomento, anche se hanno ridimensionato in modo netto l’impiego di questo istituto, sono però sicuramente condivisibili e se non altro hanno posto un argine a un impiego dissennato e poco serio sovente registrato in tale, delicato, ambito, in questo primo scorcio dell’anno sembra di assistere a un fuoco concentrico diretto sul trust che tende obiettivamente a smantellare alcuni punti fermi che sembravano ormai generalmente acquisiti.

Dal mese di gennaio a oggi, sono ben otto le volte in cui la Corte di Cassazione è intervenuta sulla materia del trust, tre volte in sede penale[1], sanzionando un uso distorto e fraudolento dell’istituto, ora confermando un sequestro di beni conferiti in un trust avente finalità elusiva per avere l’indagato mantenuto il sostanziale controllo sul fondo in trust; ora confermando l’ipotesi di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte di un trust nel quale erano confluiti beni acquistati con i proventi dell’evasione tributaria,  e ancora in tema di sequestro dei beni conferiti in un trust sui quali il trustee continuava a mantenere il pieno controllo. Una volta in sede civile[2] con una sentenza per così dire “neutra” che, riprendendo quanto già asserito da Cassazione n. 10105/2014 ribadisce che “il trust non è un ente dotato di personalità giuridica, ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee, che è l'unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, non quale legale rappresentante, ma come colui che dispone del diritto”.

Di ben altro impatto appaiono invece le cinque ordinanze della VI sezione civile tributaria[3] che terremotano letteralmente l’edificio che sinora era andato costruendosi.

Tali ordinanze, non sono condivisibili neppure sul piano dell’impostazione fiscale come diremo in seguito.

Queste ordinanze - non di sentenze infatti si tratta[4] - hanno risuscitato argomenti invocati all’alba del dibattito su questo istituto,  e che si ritenevano ormai definitivamente superate, anche sul piano giurisprudenziale.

Le ordinanze all’esame rilevano, dunque, sia per le conseguenze fiscali che alle stesse si riconnettono, e che sono sicuramente importanti, sia per le considerazioni svolte incidentalmente in tema di trust più in generale, anche se la stessa Corte ha affermato più volte  di non essersi espressa sul riconoscimento del trust trattandosi di questione [5] che “risulta del tutto irrilevante ai fini della disciplina tributaria da applicare “.

Più in particolare, la 5322 e la 3737 riguardano due giudizi fra le stesse parti, scaturenti da una medesima fattispecie, e sono perfettamente sovrapponibili. In sostanza dopo aver affermato che la causa del trust risiede nella “conformazione funzionalmente orientata della proprietà”, la Corte afferma di non essere interessata “a prendere posizione sulla fisionomia di questo diritto proprietario” e argomenta invece diffusamente sugli aspetti di natura più propriamente fiscale. A questo proposito rileva, traendo spunto dal comma 47 dell’articolo 2 del Decreto Legge n. 262/2006, che l’imposta è dovuta “sulla costituzione di vincoli di destinazione” avendo voluto il legislatore attrarre nell’area applicativa della norma tutti i regolamenti capaci di produrre tale vincolo che è diretto a modificare, non  a trasferire  il diritto[6]. Conclude poi l’ordinanza affermando che la mancanza di arricchimento non rileva[7], perché il contenuto patrimoniale è ragguagliato all’utilità economica che si colloca al di fuori del patrimonio del disponente. Nel motivare il rigetto del ricorso, la Corte esclude inoltre che il trust sia assimilabile a una donazione modale, o a una donazione condizionata, né tantomeno, a una sostituzione fedecommissaria. Al riguardo si osserva che il trust non prevede l’apposizione di un vincolo di destinazione sui beni apportati ma determina qualcosa di più, e cioè lo spossessamento del disponente a favore del trustee, sulla base di un programma di destinazione, che però è cosa ben diversa dall’apposizione del vincolo che non postula la perdita della titolarità del bene stesso. Nel caso di trust autodichiarato questa distinzione può non risultare immediatamente perspicua, ma concettualmente si tratta sempre della fuoruscita di un bene dalla disponibilità di un soggetto a favore di un altro, il trustee, che ne diviene proprietario. L’identità soggettiva di disponente e trustee, in questo caso, non incide su quanto abbiamo detto.

La 5028 respinge  ricorso e  controricorso per difetto di autosufficienza non specificando il ricorso che cosa era stato conferito in trust, qual’era lo scopo e quali le utilità riservate ai   beneficiari.

La 3886 si riferisce al caso di un trust autodichiarato in cui due coniugi conferiscono in trust immobili, di cui sono loro stessi  beneficiari in vita e, in loro mancanza, i loro figli. Anche la 3735 si riferisce a un trust autodichiaratoin cui il disponente apporta beni personali in un trust per garantire proprie obbligazioni verso il sistema  bancario, stabilendo altresì che il fondo residuato fosse destinato ai bisogni del disponente, se in vita, o, in mancanza dei figli.

Al di là  delle conseguenze sul piano fiscale, interessano le statuizioni relative al trust. Al riguardo la Corte afferma che “il regolamento voluto dai coniugi, benché sia denominato trust, non ne ha la fisionomia  difettando uno degli elementi caratteristici, ossia il trasferimento a terzi da parte del  disponente dei beni costituiti in trust al fine del conseguimento dell’effetto di destinazione del bene all’interesse programmato.  E il fatto che il trust postuli l’alienazione dei beni del disponente emergerebbe, secondo la Corte, dal terzo comma dell’articolo 2 della Convenzione secondo cui il fatto che il disponente possa ritenere alcuni diritti e facoltà, o che il trustee possa avere alcuni diritti in qualità di beneficiario, non è incompatibile col trust, volendo implicitamente affermare che il fatto di continuare a essere proprietari (trust autodichiarato) comporterebbe il mantenimento, in capo al disponente, non di “alcuni” diritti e facoltà, ma di tutti, in quanto, appunto, proprietario. E questo perché i disponenti “sono rimasti proprietari dei beni e che giustappunto mercé il vincolo su di essi impresso sono riusciti  a conseguire gli effetti voluti”. La conclusione è quella per cui il trust, funzionale a un fondo patrimoniale, va qualificato, ai fini tributari, come atto costituivo di vincolo di destinazione  con conseguente assoggettabilità alla relativa imposta dei beneficiari della destinazione.

Al riguardo, molto sinteticamente si osserva intanto che l’articolo 2 della Convenzione de L’Aja non definisce “il trust”, ma i rapporti giuridici oggetto della Convenzione stessa. La Convenzione, in altre parole si limita a “definire quando un rapporto giuridico può essere considerato trust ai fini della Convenzione[8]”. La nozione di trust infatti è data dalla legge straniera prescelta dal disponente e in questo senso  non ha pregio l’affermazione secondo la quale un trust senza trasferimento al trustee non ha la “fisionomia” del trust, dal momento che la legislazione di tutti i paesi che conoscono il trust ammettono pacificamente il trust autodichiarato. Potrebbe sorgere il dubbio se questa tipologia di trust rientri nell’ambito di applicazione della Convenzione. Ma è la stessa Convenzione che non richiede il trasferimento della proprietà, ritenendo sufficiente (articolo 2) che determinati beni siano posti “sotto il controllo” di un trustee, introducendo quindi un concetto molto più sfumato e generico rispetto al trasferimento della proprietà che fa ricomprendere nell’ambito della categoria trust anche tutta una serie di situazioni di fatto atteso che il concetto di controllo sfugge a una definizione giuridicamente vincolante.

L’argomentare della Corte inoltre non sembra tener conto del fatto che oggi si può legittimamente parlare dell’ esistenza di una proprietà separata in capo allo stesso soggetto[9] e del superamento del limite dell’unicità del patrimonio posto dall’articolo n. 2740, comma 1 del codice civile a seguito della ratifica della Convenzione, che ha costituito deroga al principio enunciato nella norma civilistica. Pertanto

i coniugi che si sono autodichiarati trustees, non sono rimasti proprietari dei beni come lo erano in precedenza, ma sono divenuti proprietari come trustees nell’interesse dei beneficiari - hanno il titulus, non il commodum - e quei poteri che possono ritenere, secondo l’articolo 2 sono quelli che invece possono esercitare a loro personale vantaggio contrapposto anche a quello dei beneficiari.

Accanto a quelle esaminate, si pone una nutrita serie di pronunce delle Corti di merito, che hanno accolto le domande di revocatoria provenienti dai creditori di coloro che hanno apportato beni in trust,  anche in casi in cui effettivamente questo intento non era così patente, o forse neppure voluto, gettando così una luce sinistra su questo istituto. Paradossalmente sono queste, ad avviso di chi scrive, quelle sentenze che invece di minare la credibilità dei trust, ne affermano il ruolo e l’importanza essendo dirette a colpirne un uso distorto e fraudolento.

La giurisprudenza delle corti di merito[10] evidenzia, nel suo complesso, un atteggiamento molto attento e capace di analizzare compiutamente le situazioni concrete senza farsi sviare dalle iniziali apparenze. In T. Cremona, il giudice nega che il conferimento del patrimonio immobiliare della famiglia in un trust, inizialmente autodichiarato, sia di per sé indizio di aver voluto creare una situazione fittizia, a ciò contrapponendosi elementi quali la nomina di un trustee professionista, l’irrevocabilità del trust e la piena discrezionalità attribuita al trustee. Sulla stessa linea T. Sassari che esclude rappresenti indice di illiceità il fatto che il trust sia maturato in un contesto familiare, ma nondimeno accoglie la domanda di revocatoria dell’atto di trasferimento dei beni atteso che ciò costituiva pregiudizio, anche solo potenziale all’aspettativa di soddisfacimento del creditore unita alla consapevolezza del debitore e del terzo acquirente di recar pregiudizio alle ragioni di quest’ultimo. Trattano di trust liquidatorio T.Milano e T.Forlì. La prima sentenza nega, perché elusivo delle norme di ordine pubblico in materia, la riconoscibilità di questo tipo di trust istituito da una società poi fallita individuando la causa concreta nella volontà di segregare i beni dell’impresa e di sottrarre al curatore la disponibilità degli stessi. La sentenza rileva che il trust non prevedeva il coinvolgimento dei creditori in ordine alle scelte sulla gestione del patrimonio, introducendo un argomento che fa riflettere[11]. Infatti delimitato l’ambito di impiego del trust che è legittimo in una situazione temporale in cui non hanno fatto già ingresso gli organi della procedura, non si vede come e a qual fine si debbano coinvolgere i creditori nella gestione di una situazione che è rimessa alla mera autonomia privata. Inoltre non vi sarebbe nessuna garanzia circa la possibilità di impedire iniziative individuali da parte di chi non sia d’accordo.

Infine anche le Commissioni Tributarie si sono espresse tre volte in materia[12]. Il giudice di Forlì all’interno di un’attenta analisi, riconosce la validità di un trust liquidatorio autodichiarato che persegue il fine di non disperdere il patrimonio di un soggetto, e aderisce poi a una (corretta) lettura dell’articolo 2 della Convenzione dell’Aja per cui non è necessario, per aversi un trust che un bene sia posto sotto il controllo di un soggetto terzo rispetto al disponente potendo coincidere, nella stessa persona, disponente e trustee attesa la possibilità, per un soggetto, di essere titolare di più di un patrimonio, in deroga all’articolo 2740 del codice civile. Queste considerazioni non impediscono tuttavia di accogliere la domanda di revocatoria introdotta in via subordinata atteso che l’esecuzione sui beni apportati in trust sarebbe stata preclusa per tutto il tempo della durata di questo. Sempre in tema di accoglimento della domanda di revocatoria  si pongono T.Monza e T.Genova. Effettivamente l’accoglimento della domanda di revocatoria ex articolo 2901 del codice civile appare difficilmente contestabile atteso che non può esser ritenuto in dubbio che, dal punto di vista del singolo creditore, il conferimento in trust rappresenti una penalizzazione. Se tuttavia, al di là dell’enunciato formale, si andassero a verificare  le reali possibilità di soddisfacimento del creditore in presenza di un trust in cui il trustee effettivamente perseguisse con diligenza lo scopo, molto probabilmente si potrebbe verificare che, sia per quanto riguarda i tempi, sia per quanto riguarda la consistenza delle somme recuperate, i risultati risulterebbero più soddisfacenti rispetto a una esecuzione individuale. Circostanze che probabilmente non ricorrevano nel caso di Genova in cui il trust era stato istituito dopo la notifica di un decreto ingiuntivo facendo così seriamente dubitare della rispondenza dello scopo concretamente perseguito con quello dichiarato nell’atto. Anche in questo caso si trattava di un trust autodichiarato, ma la legittimità in astratto di questa figura non è stata messa in dubbio dalla sentenza.

Del tutto dissonante invece, rispetto a quelli che possono essere ormai ritenuti principi acquisiti nel corso di dibattiti maturati per più di venti anni, la sentenza di T. Udine. Nel risolvere una diatriba legata a una complessa vicenda successoria in cui erano stati apportati in un trust beni sui quali l’attrice, figlia del de cuius, rivendicava la proprietà, il Tribunale (in composizione monocratica), preso atto che trattavasi di trust interni in cui l’unico elemento di estraneità era rappresentato dalla legge regolatrice, ha affermato che pur in presenza di un orientamento “prevalente” volto a riconoscere la legittimità dei trust interni,  recentemente avallato anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (10105/2014), riteneva di aderire all’orientamento minoritario che ritiene la Convenzione volta a disciplinare un conflitto di leggi e quindi volta a “disciplinare fattispecie concrete con elementi oggettivi di interferenza fra diversi ordinamenti nazionali” e che ha ritenuto inoltre sovvertendo un’opinione consolidata, che l’articolo 13 sia rivolto allo Stato e non rappresenti la norma di chiusura che consente al giudice di non riconoscere un trust quando questo produca effetti ripugnanti per l’ordinamento. Tale affermazione, secondo l’estensore della sentenza fa venire il dubbio che in mancanza di un atto di riconoscimento del trust da parte dello Stato, la legge di ratifica della Convenzione sia  idonea da sola a dare copertura  normativa al trust interno, essendo gli ordinamenti non trust - che attraverso la ratifica della Convenzione si sono impegnati a riconoscere i trust istituiti in paesi che prevedono quell’istituto - liberi invece di riconoscere i trust interni. La conclusione di questo ragionamento porta pertanto a escludere che, in mancanza di elementi di estraneità ulteriori rispetto alla legge regolatrice, un trust interno possa essere riconosciuto dalla Convenzione, difettando i minimi requisiti di estraneità, dovendo solo valutarsi se l’autonomia delle parti possa dar vita “ a rapporti regolati da norme straniere incompatibili con gli istituti privatistici del diritto interno”.

La drastica conclusione è quella di dichiarare la nullità dell’atto costituivo dei trust sottoposti al vaglio del Tribunale, per impossibilità dell’oggetto “in quanto volti a creare una forma di segregazione patrimoniale non prevista e non consentita dal nostro ordinamento (articolo 2740, comma 2 del codice civile, che non consente limitazioni della responsabilità se non nei casi stabiliti dalla legge), senza però tener conto del valore derogante operato dalla Convenzione[13].

Infine, per quanto riguarda le pronunce delle Commissioni Tributarie, tutte le Commissioni, con differenza di accenti, hanno confermato l’orientamento ormai prevalente nella giurisprudenza di questi organismi, sottolineando come il trasferimento al trustee debba scontare le imposte in misura fissa non determinando un trasferimento unito al godimento del bene apportato in trust nessun tipo di arricchimento, presupposto dell’applicazione dell’imposta in misura proporzionale[14].

In conclusione possiamo dire che mentre la giurisprudenza di merito si muove ormai da tempo, nei confronti del trust nel senso del rigore reprimendo usi distorti e fraudolenti dell’istituto di cui si riconosce la piena legittimità a operare nell’ordinamento[15], la Cassazione, con queste ultime pronunce ha provocato un certo sconcerto non tanto per le conseguenze sul piano fiscale - che pure sono rilevanti - ma per le considerazioni espresse sul trust in generale che ci si augura possano essere riviste in un senso più coerente con la reale natura di questo istituto e senza che venga trascurato l’enorme apporto di giurisprudenza e di dottrina che in questi anni si è registrato. Tuttavia il pressoché costante accoglimento delle domande di revocatoria laddove si sia in presenza di una pregressa situazione debitoria deve far riflettere.

È incontestabile infatti che nell’apportare uno o più beni in un trust si creino i presupposti per l’esercizio dell’azione di cui all’articolo 2901 del codice civile, essendo altamente probabile che si generi pregiudizio nonché che si abbia la consapevolezza del fatto di arrecarlo. In questi casi la revocatoria verrà sempre esperita con successo anche nel caso in cui - non poi così raro - il debitore abbia inteso, in assoluta buona fede, dar vita a un trust per soddisfare i propri creditori. Infatti dall’azione individuale il creditore ha motivo di ritenere che più probabilmente potrà ottenere, in tempi più rapidi, la piena soddisfazione del proprio credito. Alcune sentenze suggeriscono implicitamente di coinvolgere i creditori in questi processi. Lo spunto offerto non appare banale, anche se di non agevole attuazione. Infatti, in linea generale, quando si sia in presenza di un cospicuo numero di creditori, il coinvolgimento potrebbe apparire difficile difettando nel trustee i poteri necessari non solo per conoscere chi siano i creditori, ma per convocarli e per poter stringere con loro accordi che siano vincolanti verso tutta la categoria, ma che soprattutto siano tali da impedire isolate azioni individuali. Laddove si avesse a che fare con un numero di controparti più contenuto ciò deve, al contrario, ritenersi possibile. E infatti l’articolo 2740 del codice civile protegge il creditore da comportamenti con cui il debitore cerca di sottrarsi alle proprie responsabilità, ma il divieto non si giustifica laddove attraverso di esso “si voglia impedire la realizzazione di interessi meritevoli di tutela che si soddisfino tramite una limitazione di responsabilità del debitore”[16]. Al di là di questa possibilità, è ammissibile il ricorso al trust all’interno di una procedura già aperta, si pensi agli accordi di ristrutturazione o all’esdebitazione, ma sono casi in cui il trust viene usato come strumento “al servizio” e non in alternativa a una procedura.

Parte II

[1] Cass. III sez. penale, 14.gennaio 2015, 2 Gennaio 2015 e 10 febbraio 2015.

[2] Cass, 20 febbraio 2015, 3456.

[3] Cass, Ord. n.3735, 3737 del 24 febbraio  e 3886 del 25 febbraio  2015; 5028 del 12 marzo e 5322 del 18 marzo 2015  .

[4] “Il ricorso può essere definito in camera di consiglio, risultando, oltre che ammissibile, in quanto, contrariamente a quanto dedotto in controricorso, ha esaurientemente individuato la questione di diritto controversa, manifestamente fondato” Così Cass. 5322/2015.

[5] Si riferisce al fatto che il ricorrente aveva dedotto in memoria, di aver richiamato l’applicazione,  come legge regolatrice, la legge di Jersey sul trust che, all’art.9A, prevede poteri indiscriminati del disponente. A parte il fatto che il generico richiamo all’art.9 A non è sufficiente ad attribuire al disponente i poteri indicati che invece devono essere analiticamente individuati,  si fa osservare che la miglior dottrina ha subito precisato che l’attribuzione in atto anche solo di alcuni di detti poteri determinerebbe la non riconoscibilità del trust ai sensi della Convenzione.

[6] Qui appare evidente l’”errore” concettuale in quanto il trasferimento si realizza in quanto il proprietario originario diviene trustee dei beni, e quindi proprietario al fine di gestire e amministrare i beni nell’interesse dei beneficiari. Il fondo patrimoniale invece è il classico esempio di un vincolo, perché non si attua nessun trasferimento di proprietà, realizzandosi nondimeno un’indubbia utilità economica.

[7] Questo del mancato arricchimento del trustee era stato l’argomento principe sul quale si fondavano i ricorsi per negare l’applicazione dell’imposta in misura proporzionale.

[8] M.Lupoi, I “trust interni” rimangono regolati dalla legge straniera, Il Sole, 25 marzo 2015.

[9] Molteplici sono ormai gli esempi in tal senso, il fondo patrimoniale, l’eredità beneficiata, il vincolo di cui all’articolo 2645-ter, le separazioni patrimoniali all’interno delle Sgr, le garanzie finanziarie, al patrimonio separato nell’ipotesi di cui all’art. 2447 bis c.c., in tema di patrimoni destinati a uno specifico affare.

[10] T. Cremona, 9 gennaio 2015;T. Monza, 12 gennaio, 2015; T. Milano, 21 gennaio 2015; T. Forlì, 5 febbraio; T. Genova, 18 febbraio 2015;T. Sassari, 20 febbraio 2015; T. Udine, 28 febbraio 2015;T.Reggio Emilia, 11 marzo 2015

[11] Una certa giurisprudenza delle corti milanesi aveva ritenuto che un trust liquidatorio che non avesse previsto la cessazione ex tunc dell’atto al momento del fallimento era affetto da nullità. La Cassazione (10105/2014) ha ritenuto inutile questa clausola.  Ciò premesso, parlare di coinvolgimento dei creditori in un trust liquidatorio come mezzo per mantenere in vita il trust in presenza di un fallimento, sembra parimenti inutile ove si consideri che il coinvolgimento dei creditori ad opera del trustee non sarebbe che un tentativo di ricalcare la procedura di legge che in questi casi, secondo l’insegnamento del Supremo Collegio è destinata a prevalere.

[12] Comm.Trib. Prov. Lodi, 26 gennaio 2015; Comm. Trib. Prov. Lucca, 6 febbraio 2015 e Comm. Trib. Reg. Napoli, 16 febbraio 2015.

[13] Si ricorda che anche nella citata Cass. 10105/2014 in tema di trust liquidatorio non si era mai parlato di nullità dell’atto istitutivo, ma semmai di nullità dei successivi apporti per mancanza di causa.

[14] Nel caso di Lucca peraltro il trust prevedeva anche l’inefficacia ex tunc degli apporti in caso di fallimento della società. Sul tema cfr. Cass. 10105/2014.

[15] Le pronunce dissonanti sono veramente molto poche all’interno di un orientamento quasi unanime dei giudici di merito.

[16] G.Sicchiero, I patti sulla responsabilità patrimoniale, in Contratto e impresa, 2012, 91.