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Un altro diritto per i soggetti deboli. Abrogare l’interdizione (e l’inabilitazione)

1. A distanza di un paio d’anni dall’approvazione della l. n. 6/2004, che introducendo in Italia la figura dell’Amministrazione di Sostegno ha lasciato sostanzialmente intatti i vecchi strumenti dell’interdizione e dell’inabilitazione, pare opportuno mettere a punto un progetto de iure condendo che elimini in modo drastico questi ultimi istituti, moribondi ma nella prassi ancora caparbi, dal nostro c.c.

Le ragioni per cui l’interdizione appare oggi un modello superato e sostanzialmente anticostituzionale (stesso discorso vale più o meno per l’inabilitazione) sono in effetti molteplici:

- eccesso degli impedimenti anche non patrimoniali nascenti per chi è interdetto: immagine da morte civile della misura, taglio complessivamente pietrificante per chi la subisce, punitività, afflittività, fondali sulfurei;

- mancanza di valore terapeutico, impossibilità di un progetto personalizzato, enfasi solo economicistica, costosità e scarsa trasparenza delle procedure;

- impostazione tutta "dalla parte dei familiari e dei terzi", frequenza statistica dei casi di sciacallaggio, eccesso di preoccupazione per le opportunità del traffico;

- inevitabilità della pubblicità, sapore manicomiale e istituzionalistico;

- scarsezza di garanzie formali e politiche, complessità delle revoche e delle modifiche.

2. E’ stato più volte sottolineato come l’Amministrazione di sostegno costituisca una modalità protettiva, sotto l’aspetto politico/grammaticale, assai differente dal passato; una disciplina in cui appaiono ripresi motivi di vari altri istituti europei, rilanciandosi a 360° uno stile legislativo e giudiziale privo di rigidità, ricco di principi, consapevole dell’irripetibilità di ogni storia umana; senza nulla di scontato e ossificato - un taglio laboratoriale destinato a espandersi, con tutta probabilità, pur al di là dell’occasione contingente ("esistenzializzazione" del diritto privato).

Si è parlato di un diritto costruito "dal basso" invece che "dall’alto"; che dà e che non toglie; di un’offerta di risposte mobili entro il sistema, in cui il ruolo giocato dal formante giurisprudenziale appare volta a volta decisivo. Il contrario dell’ interdizione, sotto tutti gli aspetti. Non cioè un pacchetto monolitico, distillato presso qualche ufficio legislativo al vertice, concepito una volta per sempre; non una gabbia fatta per applicarsi a tutti i cittadini nello stesso modo, insuscettibile di variazioni, col medesimo labirinto statutario. Piuttosto un diritto stabilito dal basso; un decreto personalizzato, fatto per riguardare soltanto la creatura oggetto di ascolto - che le scolpisce intorno un "vestito su misura".

Singolare e plurale: di "interdizione" può essercene una soltanto, come forma e sostanza; di "amministrazione di sostegno" tante versioni quanti sono i beneficiari possibili.

3. Non abbiamo avuto in Italia la lungimiranza che hanno dimostrato, ad es., austriaci e tedeschi; i quali, introducendo entro i loro sistemi - nel recente passato - gli istituti della Sachwalterschaft e della Betreung, non si sono dimenticati i doveri della coerenza: e hanno tirato sull’interdizione e sull’inabilitazione, sia a Vienna sia a Berlino, un drastico rigo di penna.

Altri paesi europei sono stati anch’essi meno irresoluti, o appaiono comunque più avanzati a livello applicativo. E nessuno di essi, a quanto risulta, ha rinnegato quelle decisioni o mostra di rimpiangere il passato.

Svogliatezza tutta nostrana, pigrizie ingegneristiche del Parlamento nazionale del 2003? Forse. Superficialità, contraddizioni rispetto a un giudizio pur negativo pronunciato anche da tanti deputati e senatori, in passato, nei confronti dell’interdizione? Senza dubbio. Peccato originale, eccessi di timidezza, colpe dei confezionatori della prima bozza di riforma? Probabilmente sì.

(i) Le spiegazioni dell’accaduto sono abbastanza note.

Durante il famoso Convegno triestino del 1986, erano stati manifestati dalla tribuna - senza mezzi termini, da un civilista fra i più illustri della penisola - giudizi di ferma riprovazione per la scelta degli austriaci (compiuta nel 1983) di eliminare addirittura dall’ABGB ogni traccia dell’interdizione. Per chi, in Italia, si accingeva a porre in cantiere, quell’estate, la bozza di riforma relativa agli istituti del primo libro del c.c., tutto si complicava un bel po’.

Ogni ipotesi di lavoro aveva le sue controindicazioni, scegliere era difficile: "Meglio sfidare - ci si chiedeva - quella che appare un’opinione forse generalizzata fra i nostri giuristi (nemmeno dei più prudenti!), e mettere a punto un progetto che elimini l’interdizione; con tutti i rischi di insuccesso che un tale "radicalismo" potrebbe comportare? O meglio puntare sulla soluzione più blanda, più tattica, forse meno rispettosa delle ispirazioni all’origine della 180 - rinunciando a imperniare l’intera disciplina del 1° libro sul nuovo istituto di protezione, a cancellare per sempre tutto il resto?".

(ii) Quanto alle ragioni di quei sentimenti filo-interdizione, palesati al microfono triestino: ebbene, non si può dire che ci si fosse dilungati più di tanto (da parte degli interessati) nell’esplicitarle. Non quanto - almeno - sarebbe stato opportuno, tenuto conto dell’importanza della posta in gioco.

Sembrava darsi per scontato, in sostanza, che l’interdizione proteggesse "di più" e con maggiore energia, severità. E non si chiariva tuttavia dettagliatamente il perché di un assunto simile - né si argomentava l’idea della supposta minor pregnanza difensiva, con riguardo all’Austria, di una Sachwalterschaft estesa dal giudice competente (all’occorrenza) al 100% degli atti da compiere. Né si dava notizia di particolari lamentele o disfunzioni emerse nel comparto psichiatrico dell’Austria, di fatto, durante i primi anni di applicazione dell’istituto.

I motivi reali, più profondi, allora? Erano altri verosimilmente - forse non del tutto consapevoli. Con tutta probabilità: una visione del disturbo di mente come patologia sconosciuta, ardua da contenere e impossibile da curare - forse per molto tempo ancora. La follia come simbolo stesso del male: qualcosa dagli sviluppi spesso incontrollabili, dalle origini talvolta sinistre, mefistofeliche, con margini sempre possibile di violenza tutt’intorno. Per la santabarbara del diritto privato, dunque: una realtà da fronteggiare nel modo più roboante, stentoreo; da arginare tecnicamente senza mezzi termini, avviluppandolo entro una sorta di camicia di forza disciplinare - espropriativa di ogni capacità negoziale.

(iii) Quanto diffusi fra i giuristi italiani potevano ritenersi sentimenti del genere? Abbastanza - si sarebbe detto quell’estate, a Trieste, all’interno della sala del convegno. Non ci furono in effetti confutazioni significative, al microfono, perlomeno fra i privatisti presenti.

Fuori dell’aula chissà; del tema - in fondo - si parlava ancora abbastanza poco nell’accademia. I civilisti, per educazione congenita, fanno raramente discorsi de iure condendo; e i comparatisti non si erano ancora avvicinati in forza all’argomento (come sarebbe poi successo). Agli psichiatri interessavano soprattutto i problemi applicativi della 180. Un sondaggio era difficile da organizzare. Fu scelta in definitiva la via dell’accortezza: l’interdizione, seppur alleggerita di qualche spina, restò nel progetto dei mesi successivi.

(iv) Qualora si fosse fatto diversamente - se l’interdizione fosse stata tolta in radice dalla bozza, già alle prime battute - la riforma di cui oggi parliamo sarebbe passata ugualmente? Il Natale del 2003 ne avrebbe visto l’approvazione?

E’ difficile dirlo. Quindici anni fa probabilmente no. Oggi forse sì, magari a maggioranza dei voti invece che all’unanimità (com’è in effetti successo). Ma non è detto poi. E’ significativo in fondo che nessun deputato o senatore, nel Parlamento, abbia assunto iniziative di rilievo per cambiare progetto in questi anni, per caldeggiare una soluzione all’austriaca o alla tedesca (paura di rovinare tutto, di rompere il giocattolo miracoloso? Sì, ma appunto!).

Nella law in action: poi: di giudici i quali guardino preferibilmente al passato, che prendano tutto quanto alla lettera, che abbiano esaminato nella loro vita soprattutto cose di diritto, che non siano mai entrati in un Centro di salute mentale - che tutt’oggi difendono l’interdizione e dintorni - quanti ce ne sono in Italia?

4. Purtroppo, come dimostra il primo periodo di applicazione della l.6/2004, una parte sia pur minoritaria dei giudici italiani, per ragioni di vario genere, che sarebbe arduo approfondire qui (sbrigatività, autoritarismo connaturato, noncuranza, insensibilità debolologica, scarsa familiarità psichiatrica e psicologica, preferenza per soluzioni che "fanno lavorare meno", paternalismo, superficialità, conservatorismo, misoneismo), continua a ricorrere più o meno abbondantemente all’interdizione - spesso del tutto a sproposito, questioni di principio a parte.

Reazioni dei familiari dei "soggetti deboli", e dei disabili stessi, di fronte a tutto ciò? E’ sufficiente aver frequentato qualche riunione di famiglie di ragazzi down, per rendersi conto in che modo vadano le cose nel 90% dei casi. I parenti disdegnano pressoché sempre l’interdizione; piuttosto si rassegnano a inaugurare/perpetuare, nei fatti, sequenze d’altro genere, decennali o sempiterne - tessute di firme false, di procure invalide, di fughe dal notaio, di messinscene e sotterfugi di ogni tipo. E con i parenti dei malati di Alzheimer tutto è ancora più evidente: piuttosto che chiedere l’interdizione del proprio compagno di vita, sino a ieri gentile e vigoroso, una moglie (alle soglie magari della quarta età) è pronta a fare qualsiasi cosa.

Né va dimenticato che, se pure l’interdizione è stata addolcita dal legislatore del 2004 in un paio di passaggi (così per quanto concerne l’art. 414 c.c.; un altro articolo, il 427, consente oggi di far ricorso allo schema curatoriale per qualche atto da compiere), è rimasto in vigore per il l’interdetto invece il "no" al matrimonio, e così pure il "no" al testamento, il "no" alla donazione, il "no" al riconoscimento del figlio naturale, e così via.

Di fatto, l’interdizione è rimasta quella di prima, anche nel nome. Il pedigree è quello di sempre. E il Tribunale non può fare nulla per ammorbidirla, neanche se vuole: è mancato nel nuovo testo l’inserimento di una previsione speculare rispetto dell’art. 411, ult. co., c.c. - ossia una norma volta a permettere ai giudici di tenere indenne il disabile, nel momento in cui lo si interdice, rispetto a qualcuno degli impedimenti sopra indicati.

5. Come procedere allora nella messa a punto del progetto di abrogazione, di qui in avanti? Qualche indicazione alla rinfusa:

- cercheremo in sei/otto mesi di stendere un testo attento e preciso, affidandolo poi (diciamo, dopo le prossime elezioni politiche, ammesso che ancora sia possibile fare qualcosa di "bipartisan" …) a tutti quanti i partiti; ricordo che l’amministrazione di sostegno è passata due anni fa all’unanimità: e così sarebbe bene fosse anche per questa nuova proposta che è, in fondo, la prosecuzione e il completamento di quell’iniziativa fortunata;

- la parte civilistica del progetto verrà coordinata precipuamente, sul piano redazionale, da un gruppo intorno a me (farò girare progressivamente le varie bozze presso tutti, ogni suggerimento sarà prezioso), quella processualistica sarà curata soprattutto da un gruppo di amici esperti (v. sotto); al momento buono il tutto sarà unificato;

- verranno aggiustate qua e là nei dettagli (comunque nei passaggi di cui la prassi ha evidenziato la lacunosità, l’insufficienza o la discutibilità, e certamente in tutti quelli, sostanziali e processuali, il cui ritocco si renda necessario proprio per la scomparsa dei due tradizionali "mostri sacri"), le norme dal 404 al 413;

- scompariranno del tutto l’interdizione e l’inabilitazione; resterà solo, come strumento protettivo per tutti i "disabili", di qualsiasi tipo, l’amministrazione di sostegno (il cui raggio effettivo, sottolineo, continuerà ad essere un quid stabilito volta per volta dal g.t.: si potrà andare come oggi dal minimo di un unico atto, ad. es., un’eredità da accettare, al massimo di un affidamento all’amministratore di tutti quanti gli atti patrimoniali:, così ad es. nel caso di prodighi irriducibili, maniaci gravi, dementi indifesi e molto ingenui, etc.);

- che fare dei contenitori dal 414 al 432? Tenerli vuoti o spalmare su di essi la disciplina dell’Ads + ritocchi e precisazioni della stessa + l’attuale 428? E’ da vedere …

- l’a.d.s. potrà valere anche per gli atti di tipo sanitario, fermo restando il principio della tendenziale sovranità dell’interessato in proposito (vedremo se esplicitarlo, all’inizio c’era qualche dubbio, oggi il punto è pacifico);

- l’incapacitazione eventuale del beneficiario continuerà ad essere un dato stabilito dal giudice, volta per volta, più o meno ampiamente, a seconda che vi sia oppure non vi sia il concreto pericolo di un cattivo un cattivo uso dei suoi poteri e diritti, da parte dell’interessato; laddove tale pericolo manchi, come accade in effetti nella maggioranza dei casi, avremo invece un’amministrazione al 100% "non incapacitante"; in particolare, non saranno mai incapacitabili le persone in coma (sono già tragicamente protette dalla loro condizione);

- resterà ovviamente il 428 c.c., magari modificato in qualche dettaglio: perno dell’annullabilità per i contratti potrebbe diventare innovativamente/esplicitamente l’elemento oggettivo del "pregiudizio", invece che quello soggettivo della "malafede" della controparte: forse si tratterà di chiarire ancor più che il riscontro dell’inadeguatezza gestionale andrà sempre compiuta nello specifico, hic et nunc, rispetto a quel determinato contratto di cui si discute;

- direi che rispetto a 20 anni fa è sempre più chiaro che se è molto importante, nella vita di una persona in difficoltà, che possa essere disfatto dal diritto ciò che di negoziale non doveva essere fatto, ancor più lo è (coi tempi che viviamo) che venga fatto presto e bene qualcosa che non può non essere fatto, né aspettare, pena uno scadimento nella qualità di vita della persona disabile (appalti, rinunce, dentiere, appendiciti, badanti, televita, Sky, idraulici, massaggi, cooperative sociali, pensioni, separazioni, eredità, abbonamenti, imposte, domande e rette in case di riposo, luce, acqua, gas telefono, condominio, banca, posta, pratiche comunali, ASL, assicurazione, r.c., etc.);

- l’intera categoria dell’incapacità naturale appare anch’essa da rimeditare; probabilmente va anch’essa ripensata frastagliatamente, contingentemente: la parola "incapacità" sembra comunque da doversi abbandonare per sempre: occorre prendere atto semmai che vi sono oggi molti disagi di tipo non strettamente psichiatrico, che creano di fatto significativi affanni gestionali alla persona (riluttanze, scarsezza di memoria, depressioni non patologiche, ostinazioni irrazionali, rassegnazioni al peggio, passività rinunciatarie croniche, sospettosità oltre misura, ripiegamenti progressivi in se stessi, svogliatezze accentuate, homeless style, ingenuità o assenteismi fiscali e condominiali, micro-handicap neurologici, imbarbarimenti casalinghi, abbrutimenti striscianti …): resta da vedere fino a che punto tutto ciò dovrebbe rimbalzare nel c.c.;

- scompare invece concettualmente/positivamente la categoria dell’incapacità d’agire, sostituita da una figura di "inadeguatezza gestionale", comunque tendenzialmente maculata, puntinata, reticolare, funzionalistica, operativo/burocratica, depersonalizzata, non lombrosiana, circoscritta di regola a una serie ben precisa di operazioni e di atti: una categoria che al suo interno si presenta divisa in due sub-versioni disciplinari, quella dell’inadeguatezza "negozialmente pericolosa" (es. prodighi irriducibili), la quale condurrà di regola a indicazioni di taglio incapacitante, ad opera del giudice tutelare; e quella dell’inadeguatezza "negozialmente non pericolosa" (es. anziani sfiancati, malinconici, con disturbi del carattere, ma lucidi, vigili, pignoli, rigorosi), che non comporterà invece alcuna incapacitazione ;

- scompariranno gli impedimenti personali automatici (stabiliti per gli interdetti): allorquando il g.t. ritenga che un certo beneficiario non debba ad es. sposarsi, o fare testamento, o donare cose importanti, ebbene, lo dovrà indicare espressamente nel decreto (cfr. art. 411 c..c, ult. comma, dove scomparirà beninteso il riferimento all’interdizione);

- è da vedere che fare con il 2046 c.c., oppure con le norme codicistiche di "favor" per gli incapaci (i quali non esistono più, non nel vecchio modo almeno), etc.;

- occorre riscrivere (soprattutto ma non solo nel c.p.c., artt. 712-720, dedicati in avvenire all’AdS), tutta la parte processualistica, impresa che sarà affidata (in prima battuta) a una "commissione" formata da Sergio Chiarloni, Giorgio Costantino, Andrea Proto Pisani, Michele Taruffo, Enzo Vullo; fra le tante questioni da risolvere, ci si sta orientando sull’idea che sia il g.t. a stabilire - caso per caso, fra due possibilità processuali prefigurate a monte - se (a) le circostanze sono tali, in concreto, da tranquillizzare circa la mancanza hic et nunc di contrasti familiari, spigolosità, complicazioni, nella quale ipotesi il g.t. darà il via al tipo di rito più snello, ammnistrativistico, fluido (80% dei casi), o se invece (b) sussistano concreti elementi di scontro domestico, opportunità di compressioni significative, forti riluttanze dell’interessato, patrimoni complessi, nella quale ipotesi il g.t. dovrà far capo al rito più formalista e garantista; in questo modo si tengono insieme le due anime dell’A.d.S. entro un unico contenitore processuale, cosa opportuna qui e sotto tutti i punti di vista, soprattutto perché occorre vi sia un’unica "immagine" sociale del’A.d. s. e bisogna che essa sia la più inoffensiva, blanda e meno stigmatizzante possibile … diciamo che le garanzie, le incapacitazioni, le protezioni anche "forti" ci dovranno pur essere, magari anche più di prima, però sempre come realtà "dal basso", e costruite/vissute in modo che la loro percezione e simbolologia generale sia la più tenue possibile, che i casi "difficili" scompaiano nell’insieme di quelli "facili", che l’immagine massmediale del tutto si costruisca intorno alla "clientela leggera";

- da più parti è stata sottolineata l’opportunità di una futura precisazione normativa secondo cui il giudice tutelare, stante la delicatezza dei compiti lui affidati, debba essere in futuro sempre un giudice togato;

- nel progetto coinvolgeremo tutti coloro che siano d’accordo con l’ipotesi abrogazionistica: civilisti, processualisti, psichiatri, magistrati, notai, avvocati, medici legali, psicologi, sociologi, etc.; gli elenchi sottostanti di adesioni sono tutti provvisori, aperti, e chi vuol aderire (come singolo o come ente, ordine, fondazione, gruppo, ect.) non ha che da segnalarlo a paolo.cendon@econ.units.it (335 67.45.836 - 040 36.56.80).

1. A distanza di un paio d’anni dall’approvazione della l. n. 6/2004, che introducendo in Italia la figura dell’Amministrazione di Sostegno ha lasciato sostanzialmente intatti i vecchi strumenti dell’interdizione e dell’inabilitazione, pare opportuno mettere a punto un progetto de iure condendo che elimini in modo drastico questi ultimi istituti, moribondi ma nella prassi ancora caparbi, dal nostro c.c.

Le ragioni per cui l’interdizione appare oggi un modello superato e sostanzialmente anticostituzionale (stesso discorso vale più o meno per l’inabilitazione) sono in effetti molteplici:

- eccesso degli impedimenti anche non patrimoniali nascenti per chi è interdetto: immagine da morte civile della misura, taglio complessivamente pietrificante per chi la subisce, punitività, afflittività, fondali sulfurei;

- mancanza di valore terapeutico, impossibilità di un progetto personalizzato, enfasi solo economicistica, costosità e scarsa trasparenza delle procedure;

- impostazione tutta "dalla parte dei familiari e dei terzi", frequenza statistica dei casi di sciacallaggio, eccesso di preoccupazione per le opportunità del traffico;

- inevitabilità della pubblicità, sapore manicomiale e istituzionalistico;

- scarsezza di garanzie formali e politiche, complessità delle revoche e delle modifiche.

2. E’ stato più volte sottolineato come l’Amministrazione di sostegno costituisca una modalità protettiva, sotto l’aspetto politico/grammaticale, assai differente dal passato; una disciplina in cui appaiono ripresi motivi di vari altri istituti europei, rilanciandosi a 360° uno stile legislativo e giudiziale privo di rigidità, ricco di principi, consapevole dell’irripetibilità di ogni storia umana; senza nulla di scontato e ossificato - un taglio laboratoriale destinato a espandersi, con tutta probabilità, pur al di là dell’occasione contingente ("esistenzializzazione" del diritto privato).

Si è parlato di un diritto costruito "dal basso" invece che "dall’alto"; che dà e che non toglie; di un’offerta di risposte mobili entro il sistema, in cui il ruolo giocato dal formante giurisprudenziale appare volta a volta decisivo. Il contrario dell’ interdizione, sotto tutti gli aspetti. Non cioè un pacchetto monolitico, distillato presso qualche ufficio legislativo al vertice, concepito una volta per sempre; non una gabbia fatta per applicarsi a tutti i cittadini nello stesso modo, insuscettibile di variazioni, col medesimo labirinto statutario. Piuttosto un diritto stabilito dal basso; un decreto personalizzato, fatto per riguardare soltanto la creatura oggetto di ascolto - che le scolpisce intorno un "vestito su misura".

Singolare e plurale: di "interdizione" può essercene una soltanto, come forma e sostanza; di "amministrazione di sostegno" tante versioni quanti sono i beneficiari possibili.

3. Non abbiamo avuto in Italia la lungimiranza che hanno dimostrato, ad es., austriaci e tedeschi; i quali, introducendo entro i loro sistemi - nel recente passato - gli istituti della Sachwalterschaft e della Betreung, non si sono dimenticati i doveri della coerenza: e hanno tirato sull’interdizione e sull’inabilitazione, sia a Vienna sia a Berlino, un drastico rigo di penna.

Altri paesi europei sono stati anch’essi meno irresoluti, o appaiono comunque più avanzati a livello applicativo. E nessuno di essi, a quanto risulta, ha rinnegato quelle decisioni o mostra di rimpiangere il passato.

Svogliatezza tutta nostrana, pigrizie ingegneristiche del Parlamento nazionale del 2003? Forse. Superficialità, contraddizioni rispetto a un giudizio pur negativo pronunciato anche da tanti deputati e senatori, in passato, nei confronti dell’interdizione? Senza dubbio. Peccato originale, eccessi di timidezza, colpe dei confezionatori della prima bozza di riforma? Probabilmente sì.

(i) Le spiegazioni dell’accaduto sono abbastanza note.

Durante il famoso Convegno triestino del 1986, erano stati manifestati dalla tribuna - senza mezzi termini, da un civilista fra i più illustri della penisola - giudizi di ferma riprovazione per la scelta degli austriaci (compiuta nel 1983) di eliminare addirittura dall’ABGB ogni traccia dell’interdizione. Per chi, in Italia, si accingeva a porre in cantiere, quell’estate, la bozza di riforma relativa agli istituti del primo libro del c.c., tutto si complicava un bel po’.

Ogni ipotesi di lavoro aveva le sue controindicazioni, scegliere era difficile: "Meglio sfidare - ci si chiedeva - quella che appare un’opinione forse generalizzata fra i nostri giuristi (nemmeno dei più prudenti!), e mettere a punto un progetto che elimini l’interdizione; con tutti i rischi di insuccesso che un tale "radicalismo" potrebbe comportare? O meglio puntare sulla soluzione più blanda, più tattica, forse meno rispettosa delle ispirazioni all’origine della 180 - rinunciando a imperniare l’intera disciplina del 1° libro sul nuovo istituto di protezione, a cancellare per sempre tutto il resto?".

(ii) Quanto alle ragioni di quei sentimenti filo-interdizione, palesati al microfono triestino: ebbene, non si può dire che ci si fosse dilungati più di tanto (da parte degli interessati) nell’esplicitarle. Non quanto - almeno - sarebbe stato opportuno, tenuto conto dell’importanza della posta in gioco.

Sembrava darsi per scontato, in sostanza, che l’interdizione proteggesse "di più" e con maggiore energia, severità. E non si chiariva tuttavia dettagliatamente il perché di un assunto simile - né si argomentava l’idea della supposta minor pregnanza difensiva, con riguardo all’Austria, di una Sachwalterschaft estesa dal giudice competente (all’occorrenza) al 100% degli atti da compiere. Né si dava notizia di particolari lamentele o disfunzioni emerse nel comparto psichiatrico dell’Austria, di fatto, durante i primi anni di applicazione dell’istituto.

I motivi reali, più profondi, allora? Erano altri verosimilmente - forse non del tutto consapevoli. Con tutta probabilità: una visione del disturbo di mente come patologia sconosciuta, ardua da contenere e impossibile da curare - forse per molto tempo ancora. La follia come simbolo stesso del male: qualcosa dagli sviluppi spesso incontrollabili, dalle origini talvolta sinistre, mefistofeliche, con margini sempre possibile di violenza tutt’intorno. Per la santabarbara del diritto privato, dunque: una realtà da fronteggiare nel modo più roboante, stentoreo; da arginare tecnicamente senza mezzi termini, avviluppandolo entro una sorta di camicia di forza disciplinare - espropriativa di ogni capacità negoziale.

(iii) Quanto diffusi fra i giuristi italiani potevano ritenersi sentimenti del genere? Abbastanza - si sarebbe detto quell’estate, a Trieste, all’interno della sala del convegno. Non ci furono in effetti confutazioni significative, al microfono, perlomeno fra i privatisti presenti.

Fuori dell’aula chissà; del tema - in fondo - si parlava ancora abbastanza poco nell’accademia. I civilisti, per educazione congenita, fanno raramente discorsi de iure condendo; e i comparatisti non si erano ancora avvicinati in forza all’argomento (come sarebbe poi successo). Agli psichiatri interessavano soprattutto i problemi applicativi della 180. Un sondaggio era difficile da organizzare. Fu scelta in definitiva la via dell’accortezza: l’interdizione, seppur alleggerita di qualche spina, restò nel progetto dei mesi successivi.

(iv) Qualora si fosse fatto diversamente - se l’interdizione fosse stata tolta in radice dalla bozza, già alle prime battute - la riforma di cui oggi parliamo sarebbe passata ugualmente? Il Natale del 2003 ne avrebbe visto l’approvazione?

E’ difficile dirlo. Quindici anni fa probabilmente no. Oggi forse sì, magari a maggioranza dei voti invece che all’unanimità (com’è in effetti successo). Ma non è detto poi. E’ significativo in fondo che nessun deputato o senatore, nel Parlamento, abbia assunto iniziative di rilievo per cambiare progetto in questi anni, per caldeggiare una soluzione all’austriaca o alla tedesca (paura di rovinare tutto, di rompere il giocattolo miracoloso? Sì, ma appunto!).

Nella law in action: poi: di giudici i quali guardino preferibilmente al passato, che prendano tutto quanto alla lettera, che abbiano esaminato nella loro vita soprattutto cose di diritto, che non siano mai entrati in un Centro di salute mentale - che tutt’oggi difendono l’interdizione e dintorni - quanti ce ne sono in Italia?

4. Purtroppo, come dimostra il primo periodo di applicazione della l.6/2004, una parte sia pur minoritaria dei giudici italiani, per ragioni di vario genere, che sarebbe arduo approfondire qui (sbrigatività, autoritarismo connaturato, noncuranza, insensibilità debolologica, scarsa familiarità psichiatrica e psicologica, preferenza per soluzioni che "fanno lavorare meno", paternalismo, superficialità, conservatorismo, misoneismo), continua a ricorrere più o meno abbondantemente all’interdizione - spesso del tutto a sproposito, questioni di principio a parte.

Reazioni dei familiari dei "soggetti deboli", e dei disabili stessi, di fronte a tutto ciò? E’ sufficiente aver frequentato qualche riunione di famiglie di ragazzi down, per rendersi conto in che modo vadano le cose nel 90% dei casi. I parenti disdegnano pressoché sempre l’interdizione; piuttosto si rassegnano a inaugurare/perpetuare, nei fatti, sequenze d’altro genere, decennali o sempiterne - tessute di firme false, di procure invalide, di fughe dal notaio, di messinscene e sotterfugi di ogni tipo. E con i parenti dei malati di Alzheimer tutto è ancora più evidente: piuttosto che chiedere l’interdizione del proprio compagno di vita, sino a ieri gentile e vigoroso, una moglie (alle soglie magari della quarta età) è pronta a fare qualsiasi cosa.

Né va dimenticato che, se pure l’interdizione è stata addolcita dal legislatore del 2004 in un paio di passaggi (così per quanto concerne l’art. 414 c.c.; un altro articolo, il 427, consente oggi di far ricorso allo schema curatoriale per qualche atto da compiere), è rimasto in vigore per il l’interdetto invece il "no" al matrimonio, e così pure il "no" al testamento, il "no" alla donazione, il "no" al riconoscimento del figlio naturale, e così via.

Di fatto, l’interdizione è rimasta quella di prima, anche nel nome. Il pedigree è quello di sempre. E il Tribunale non può fare nulla per ammorbidirla, neanche se vuole: è mancato nel nuovo testo l’inserimento di una previsione speculare rispetto dell’art. 411, ult. co., c.c. - ossia una norma volta a permettere ai giudici di tenere indenne il disabile, nel momento in cui lo si interdice, rispetto a qualcuno degli impedimenti sopra indicati.

5. Come procedere allora nella messa a punto del progetto di abrogazione, di qui in avanti? Qualche indicazione alla rinfusa:

- cercheremo in sei/otto mesi di stendere un testo attento e preciso, affidandolo poi (diciamo, dopo le prossime elezioni politiche, ammesso che ancora sia possibile fare qualcosa di "bipartisan" …) a tutti quanti i partiti; ricordo che l’amministrazione di sostegno è passata due anni fa all’unanimità: e così sarebbe bene fosse anche per questa nuova proposta che è, in fondo, la prosecuzione e il completamento di quell’iniziativa fortunata;

- la parte civilistica del progetto verrà coordinata precipuamente, sul piano redazionale, da un gruppo intorno a me (farò girare progressivamente le varie bozze presso tutti, ogni suggerimento sarà prezioso), quella processualistica sarà curata soprattutto da un gruppo di amici esperti (v. sotto); al momento buono il tutto sarà unificato;

- verranno aggiustate qua e là nei dettagli (comunque nei passaggi di cui la prassi ha evidenziato la lacunosità, l’insufficienza o la discutibilità, e certamente in tutti quelli, sostanziali e processuali, il cui ritocco si renda necessario proprio per la scomparsa dei due tradizionali "mostri sacri"), le norme dal 404 al 413;

- scompariranno del tutto l’interdizione e l’inabilitazione; resterà solo, come strumento protettivo per tutti i "disabili", di qualsiasi tipo, l’amministrazione di sostegno (il cui raggio effettivo, sottolineo, continuerà ad essere un quid stabilito volta per volta dal g.t.: si potrà andare come oggi dal minimo di un unico atto, ad. es., un’eredità da accettare, al massimo di un affidamento all’amministratore di tutti quanti gli atti patrimoniali:, così ad es. nel caso di prodighi irriducibili, maniaci gravi, dementi indifesi e molto ingenui, etc.);

- che fare dei contenitori dal 414 al 432? Tenerli vuoti o spalmare su di essi la disciplina dell’Ads + ritocchi e precisazioni della stessa + l’attuale 428? E’ da vedere …

- l’a.d.s. potrà valere anche per gli atti di tipo sanitario, fermo restando il principio della tendenziale sovranità dell’interessato in proposito (vedremo se esplicitarlo, all’inizio c’era qualche dubbio, oggi il punto è pacifico);

- l’incapacitazione eventuale del beneficiario continuerà ad essere un dato stabilito dal giudice, volta per volta, più o meno ampiamente, a seconda che vi sia oppure non vi sia il concreto pericolo di un cattivo un cattivo uso dei suoi poteri e diritti, da parte dell’interessato; laddove tale pericolo manchi, come accade in effetti nella maggioranza dei casi, avremo invece un’amministrazione al 100% "non incapacitante"; in particolare, non saranno mai incapacitabili le persone in coma (sono già tragicamente protette dalla loro condizione);

- resterà ovviamente il 428 c.c., magari modificato in qualche dettaglio: perno dell’annullabilità per i contratti potrebbe diventare innovativamente/esplicitamente l’elemento oggettivo del "pregiudizio", invece che quello soggettivo della "malafede" della controparte: forse si tratterà di chiarire ancor più che il riscontro dell’inadeguatezza gestionale andrà sempre compiuta nello specifico, hic et nunc, rispetto a quel determinato contratto di cui si discute;

- direi che rispetto a 20 anni fa è sempre più chiaro che se è molto importante, nella vita di una persona in difficoltà, che possa essere disfatto dal diritto ciò che di negoziale non doveva essere fatto, ancor più lo è (coi tempi che viviamo) che venga fatto presto e bene qualcosa che non può non essere fatto, né aspettare, pena uno scadimento nella qualità di vita della persona disabile (appalti, rinunce, dentiere, appendiciti, badanti, televita, Sky, idraulici, massaggi, cooperative sociali, pensioni, separazioni, eredità, abbonamenti, imposte, domande e rette in case di riposo, luce, acqua, gas telefono, condominio, banca, posta, pratiche comunali, ASL, assicurazione, r.c., etc.);

- l’intera categoria dell’incapacità naturale appare anch’essa da rimeditare; probabilmente va anch’essa ripensata frastagliatamente, contingentemente: la parola "incapacità" sembra comunque da doversi abbandonare per sempre: occorre prendere atto semmai che vi sono oggi molti disagi di tipo non strettamente psichiatrico, che creano di fatto significativi affanni gestionali alla persona (riluttanze, scarsezza di memoria, depressioni non patologiche, ostinazioni irrazionali, rassegnazioni al peggio, passività rinunciatarie croniche, sospettosità oltre misura, ripiegamenti progressivi in se stessi, svogliatezze accentuate, homeless style, ingenuità o assenteismi fiscali e condominiali, micro-handicap neurologici, imbarbarimenti casalinghi, abbrutimenti striscianti …): resta da vedere fino a che punto tutto ciò dovrebbe rimbalzare nel c.c.;

- scompare invece concettualmente/positivamente la categoria dell’incapacità d’agire, sostituita da una figura di "inadeguatezza gestionale", comunque tendenzialmente maculata, puntinata, reticolare, funzionalistica, operativo/burocratica, depersonalizzata, non lombrosiana, circoscritta di regola a una serie ben precisa di operazioni e di atti: una categoria che al suo interno si presenta divisa in due sub-versioni disciplinari, quella dell’inadeguatezza "negozialmente pericolosa" (es. prodighi irriducibili), la quale condurrà di regola a indicazioni di taglio incapacitante, ad opera del giudice tutelare; e quella dell’inadeguatezza "negozialmente non pericolosa" (es. anziani sfiancati, malinconici, con disturbi del carattere, ma lucidi, vigili, pignoli, rigorosi), che non comporterà invece alcuna incapacitazione ;

- scompariranno gli impedimenti personali automatici (stabiliti per gli interdetti): allorquando il g.t. ritenga che un certo beneficiario non debba ad es. sposarsi, o fare testamento, o donare cose importanti, ebbene, lo dovrà indicare espressamente nel decreto (cfr. art. 411 c..c, ult. comma, dove scomparirà beninteso il riferimento all’interdizione);

- è da vedere che fare con il 2046 c.c., oppure con le norme codicistiche di "favor" per gli incapaci (i quali non esistono più, non nel vecchio modo almeno), etc.;

- occorre riscrivere (soprattutto ma non solo nel c.p.c., artt. 712-720, dedicati in avvenire all’AdS), tutta la parte processualistica, impresa che sarà affidata (in prima battuta) a una "commissione" formata da Sergio Chiarloni, Giorgio Costantino, Andrea Proto Pisani, Michele Taruffo, Enzo Vullo; fra le tante questioni da risolvere, ci si sta orientando sull’idea che sia il g.t. a stabilire - caso per caso, fra due possibilità processuali prefigurate a monte - se (a) le circostanze sono tali, in concreto, da tranquillizzare circa la mancanza hic et nunc di contrasti familiari, spigolosità, complicazioni, nella quale ipotesi il g.t. darà il via al tipo di rito più snello, ammnistrativistico, fluido (80% dei casi), o se invece (b) sussistano concreti elementi di scontro domestico, opportunità di compressioni significative, forti riluttanze dell’interessato, patrimoni complessi, nella quale ipotesi il g.t. dovrà far capo al rito più formalista e garantista; in questo modo si tengono insieme le due anime dell’A.d.S. entro un unico contenitore processuale, cosa opportuna qui e sotto tutti i punti di vista, soprattutto perché occorre vi sia un’unica "immagine" sociale del’A.d. s. e bisogna che essa sia la più inoffensiva, blanda e meno stigmatizzante possibile … diciamo che le garanzie, le incapacitazioni, le protezioni anche "forti" ci dovranno pur essere, magari anche più di prima, però sempre come realtà "dal basso", e costruite/vissute in modo che la loro percezione e simbolologia generale sia la più tenue possibile, che i casi "difficili" scompaiano nell’insieme di quelli "facili", che l’immagine massmediale del tutto si costruisca intorno alla "clientela leggera";

- da più parti è stata sottolineata l’opportunità di una futura precisazione normativa secondo cui il giudice tutelare, stante la delicatezza dei compiti lui affidati, debba essere in futuro sempre un giudice togato;

- nel progetto coinvolgeremo tutti coloro che siano d’accordo con l’ipotesi abrogazionistica: civilisti, processualisti, psichiatri, magistrati, notai, avvocati, medici legali, psicologi, sociologi, etc.; gli elenchi sottostanti di adesioni sono tutti provvisori, aperti, e chi vuol aderire (come singolo o come ente, ordine, fondazione, gruppo, ect.) non ha che da segnalarlo a paolo.cendon@econ.units.it (335 67.45.836 - 040 36.56.80).