x

x

Malformazione del feto, mancata interruzione della gravidanza, danni non patrimoniali dei genitori

(Nota a Corte d’Appello di Perugia, Sentenza Sentenza 28 ottobre 2004)

Giustizia è fatta - Già ad un primo sguardo la sentenza perugina mostra di centrare, con riguardo a una vicenda umana tutt’altro che semplice, alcuni obiettivi significativi.

Il verdetto in sé appare senz’altro convincente: 300.000 euro concessi alla madre e altrettanti al padre, quale risarcimento per essere stati, l’una e l’altro, tenuti all’oscuro dal medico circa le gravi malformazione del feto (ospitato nel grembo della donna) - per non essere stati cioè messi in condizione di decidere se far luogo, o meno, a un’interruzione di gravidanza.

Si ricava subito un senso di equilibrio complessivo, dalla lettura; un’impressione di giustizia piena, nei profili dell’an come in quelli del quantum.

Che tipo di esistenza avrebbero condotto i due "genitori forzati", nel futuro, qualora non fosse stata tolta loro la libertà di scegliere? Questo la domanda di base per la corte. In generale: che significa vivere giorno e giorno dovendo accudire sotto ogni punto di vista un bambino - poi adolescente, poi giovane adulto, poi individuo maturo - gravemente handicappato?

Più in particolare: a quali "attività realizzatrici" occorrerà rinunciare in casi del genere, da parte della madre (la quale aveva/avrebbe avuto un suo progetto di vita, ben diverso e a tutto campo), e poi ad opera del padre, e ancora come coppia di coniugi? quali gli impieghi sostitutivi della giornata o della settimana, destinati a installarsi, più o meno imperiosamente, nell’agenda degli attori in giudizio?

Quali, di lì in avanti, le cose che si dovranno o non si potranno più fare o dividere, con lo stesso figlio malformato, con gli altri figli (presenti o futuri), con i restanti membri del nucleo domestico - a paragone di quanto sarebbe accaduto in mancanza dell’illecito?

Eventi e conseguenze - Fra i pregi più evidenti della decisione in commento: la finezza dogmatica, il rigore dimostrato nell’approccio alle questioni generali del danno

Si tratta, bisogna dire, di qualità nient’affatto diffuse presso i nostri tortmen - quale che sia il formante considerato: quello delle corti giudiziarie, quello degli studi professionali, quello dell’ accademia pura, quello del legislatore speciale.

Tanto più una constatazione del genere appare fondata - occorre aggiungere - quanto più a venire in gioco risultino, nelle concrete situazioni di torto, profili di danno non patrimoniale

E’ facile accorgersi come non sempre l’ imprescindibilità di un approccio "consequenzialista" appaia messa in risalto qui - comunque praticata dagli interpreti - con la necessaria fermezza.

Gli errori di percorso sono anzi di vario tipo.

Talvolta accade che l’invito (di chi parla) sia esplicitamente a guardare le cose dal punto di vista del defendant. Così ad esempio in materia di danno morale. Il ragionamento di tanti era fino a pochi anni orsono: (a) obiettivo dell’at 2059 c.c. è niente più affliggere, con una sanzione risarcitoria, qualcuno che ha violato una regola importante del sistema; (b) chiedersi se la vittima abbia sofferto tanto o poco, e quanto a lungo la cosa andrà avanti in futuro, non ha qui ragion d’essere

Talvolta invece ci si trova davanti a formulazioni che, magari inconsapevolmente, contrastano decenni di pensiero. Così ad esempio in materia di danno biologico. Basta pensare a certi passaggi della (pur pregevole) sent. 184/86 della Corte costituzionale: in particolare, al ricorso allo stilema del danno-evento quale mezzo per aggirare, con riferimento alla salute, le forche caudine dell’art. 2059 c.c. Oppure alla stessa definizione di danno biologico, quale offerta in sede legislativa, nel recente provvedimento sulle micropermanenti: formula tutta sbilanciata - di nuovo - sul tratto della "lesione del diritto", invece che su quello delle "conseguenze" pregiudizievoli.

Talora ciò che viene prospettato è, invece, un modello asimmetrico di voci di danno, ciascuna tratteggiata all’origine lungo distinti baricentri, senza un filo conduttore.

Così ad es. in tema di danno esistenziale: dov’ è alquanto deludente che nella pur meritoria 8828/2003 della Cassazione - dopo essersi rilevato che "nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione (…), il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona"; dopo aver parlato di "tutela riconosciuta al danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotai da rilevanza economica" - si concluda un po’ evasivamente (alla Ponzio Pilato): "Non sembra tuttavia proficuo ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica".

Così pure Cass. 29 luglio 2004, n. 14488, ove ci si limita a discorrere - in termini non più che formalistici - di risarcibilità per le lesioni "di specifici valori costituzionalmente protetti" .

Contro impostazioni del genere opportunamente insorge la Corte d’appello di. Perugia; sottolineando che, fintantoché si parla così, "non si dice ancora nulla del danno che occorre risarcire". Continuano sul punto i giudici umbri: "Ragionando con i concetti della responsabilità extracontrattuale si potrebbe dire che, in questo caso, l’attentato al valore dotato di tutela costituzionale - l’autodeterminazione della donna nella scelta di portare a termine la gravidanza, senz’altro riconducibile all’ambito dell’articolo 2 Cost., quale clausola generale aperta - si colloca dal versante della lesione dell’interesse giuridicamente protetto, dunque del danno-evento, ma lascia completamente in ombra le conseguenze della lesione".

La rivoluzione del danno - Impossibile interrogarsi qui compiutamente sul perché delle difficoltà - esegetiche, letterarie, semantiche - che tanti interpreti accusano oggigiorno, di fronte alle tematiche del danno non patrimoniale.

E’ probabile che i motivi profondi, sul terreno del metodo, andrebbero comunque indagati con pazienza.

Un punto appare chiaro sin d’ora: solo in parte potranno riuscire di utilità, su questo terreno, spiegazioni arieggianti alla modestia del background culturale che si riscontra in Italia - durante l’ultimo secolo e mezzo (poche opere di vasto respiro, scarso cimento teorico, bassi indici di creatività e originalità) - in merito ai concetti generali di danno.

Basti ricordare che, in Germania, la premessa storico/bibliografica è certamente di segno diverso (già a partire dalla fine dell’Ottocento); eppure anche lì il tono degli approcci e la sensibilità vittimologica, in materia di danno alla persona, sono oggi tutt’altro che soddisfacenti.

Più proficua casomai un’altra strada: quella che fa capo alla tradizionale inclinazione del tortman, di qualsiasi ambiente, a difendere anzitutto se stesso - a non far trasparire i suoi disagi nel cogliere la natura dei bisogni emergenti, presso i tribunali, nel percepire il senso delle scoperte dottrinarie che si affacciano.

Inclinazione dunque - per una generazione tutta legata a un certo modo di ragionare, amante delle geometrie consolidate - a osteggiare ogni materiale irriducibile alla purezza di quegli standard. Propensione, secondo i casi, a sbarrare al nuovo la porta della cittadella aquiliana; oppure tentativo di purgare ogni dato inedito delle sue frange meno canoniche, facendone una cosa differente, omologa al linguaggio di sempre

Si spiegano così l’eleganza e il fervore con cui ci si è prodigati, da parte della nostra dottrina, a partire degli anni ’60, nelle varie discussioni sull’ingiustizia del danno, sulla causalità giuridica, sulle varie forme della colpevolezza, sui destini prossimi della responsabilità oggettiva. Nessun serio rischio questa o quella neolettura introduceva, al di là dei clamori retorici, rispetto agli equilibri precedenti; il panorama di fondo, il sistema dei riferimenti tecnico/formali restavano - per la sintassi dell’ordinamento - comunque i medesimi.

Nessun imbarazzo possibile.

Tutt’altro lo scenario minacciato dall’irrompere giurisprudenziale dei "nuovi danni" non patrimoniali (biologico, psichico, esistenziale). A entrare in gioco qui è la creatura umana, con tutta la sua complessità - relazionale, avventurosa, politica, esplorativa. Le parole d’ordine sono subito diverse, dapprima presso i cultori delle scienze sociali, poi per l’ operatore del diritto.

Ecco moltiplicarsi allora nelle istruttorie (volendo usare le parole della sentenza in commento) i rimandi all’ "esistenza concreta", alla "vita quotidiana", a "una radicale trasformazione delle prospettive". Sempre più l’accento si sposta sui "rovesciamenti forzati dell’agenda", sul "condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore", sugli "ovvi sacrifici che ne conseguono".

C’è anzi il pericolo (questo sì oscuro, trasversale) che i nuovi soffi antropologici non rimangano circoscritti entro la cerchia nominale del danno; che dilaghino, presto o tardi, verso le altre componenti della fattispecie aquiliana, magari oltre la soglia dell’illecito - contagiando ogni settore del diritto privato: famiglia, lavoro, diritti della personalità, contratti, malpractice medica, processo, ambiente, e cos’ì via.

Si tratta di danno esistenziale - Del tutto condivisibili (merita aggiungere) i profili di inquadramento tecnico del danno non patrimoniale, quali emergono dalla sentenza perugina.

Così, in particolare, quanto alla scelta della Corte umbra di ricondurre il nocciolo delle ripercussioni lamentate dai genitori, a seguito della nascita indesiderata, sotto l’egida (prevalente) del danno esistenziale

Seguiamo il percorso argomentativo dei giudici

(a) Un primo passaggio, di tipo generale, è quello riguardante le sofferenze di tipo interno.

Osserva al riguardo la pronuncia: fatti come quelli all’origine della causa sono tali da provocare, normalmente, un certo dolore presso le vittime. Non si tratterà magari dei risvolti più diffusi, laceranti; ma un danno morale soggettivo difficilmente può essere assente del tutto, in circostanze simili. E come tale occorre risarcirlo.

(b) Seguono le considerazioni relative al danno biologico.

Rileva il collegio, a tale proposito, come non siano mancate in passato pronunce favorevoli a concedere ai genitori, dinanzi alla nascita di un bambino handicappato, il risarcimento di una posta siffatta.

Viene sottolineato trattarsi però di episodi da non ripetere.

Ciò non soltanto, si lascia intendere, con riferimento ai profili di ordine prettamente fisico (difficili da prospettare in situazioni del genere); pure in ordine ai riflessi lesivi di carattere psichico la conclusione è destinata, tendenzialmente, a non variare.

In effetti: l’eventualità di un genitore in grado di dimostrare di aver risentito compromissioni, più o meno profonde, alla propria salute mentale - a seguito di una nascita non desiderata, sia pur di un figlio malformato - deve ritenersi non proprio frequentissima. E tanto dicono i repertori di giurisprudenza, nonché i trattati di medicina legale, non solamente in Italia.

(c) Il punto è che inquadramenti simili, si prosegue, traggono origine quasi tutti da una palese forzatura di principio; loro presupposto era "un’idea di salute, e quindi di danno biologico, particolarmente dilatata, tale da ricomprendere quelle perdite che non la salute impegnano, ma le conseguenze relazionali della lesione"; il che al giorno d’oggi, con le più attente nomenclature affermatesi ex lege Aquilia, non ha più (si lascia intendere) ragion d’essere.

(d) Con la nascita indesiderata ci si trova dinanzi, in verità, a "un caso paradigmatico di lesione di un interesse che non determina un prevalente danno morale o biologico, peraltro sempre possibile, ma impone al danneggiato di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore (quanto si voglia nobilitata dalla dedizione al congiunto svantaggiato, ma peggiore, tanto che nessuno si augurerebbe di avere un figlio senza gambe piuttosto che con) di quella che avrebbe altrimenti condotto".

(e) Nessun senso rispetto a tutto ciò - una volta riconosciuto "che la nascita indesiderata incide massicciamente su altri aspetti dell’esistenza, diversi dalla sofferenza e dalla salute" - avrebbe tuttavia proseguire come fa Cass. 10 maggio 2002, n. 6735), ossia evidenziare che uno dei danni che si producono "attiene agli effetti non patrimoniali della diminuita vita di relazione":. Il punto - rilevano i giudici umbri - è che "il ricorso al rispolverato danno alla vita di relazione sembra tutt’altro che appagante, per quanto siffatta figura è ampiamente superata dall’elaborazione giurisprudenziale degli ultimi due decenni".

(f) Maglio riconoscere piuttosto - come ha fatto già ragguardevole giurisprudenza di merito - che "le conseguenze personali della mancata interruzione volontaria della gravidanza costituiscono, per la parte più rilevante, un caso tipico di danno esistenziale, nel senso in cui l’espressione si è andata man mano precisando in giurisprudenza (…) dottrina: ossia come ostacolo allo svolgimento di attività realizzatrici della persona, per utilizzare la nota espressione della Corte costituzionale".

(g) Più precisamente: la nascita indesiderata è tale da determinare "una radicale trasformazione delle prospettive di vita dei genitori, i quali si trovano esposti a dover misurare (non i propri specifici "valori costituzionalmente protetti", ma) la propria vita quotidiana, l’esistenza concreta, con le prevalenti esigenze della figlia, con tutti gli ovvi sacrifici che ne conseguono: le conseguenze della lesione del diritto di autodeterminazione nella scelta procreativa, allora, finiscono per consistere proprio nei "rovesciamenti forzati dell’agenda" di cui parte della dottrina discorre nel prospettare la definizione di danno esistenziale".

Voci contrarie, spesso altezzose - Sorprendenti allora, rispetto a indicazioni così puntuali, battute come quelle che si ritrovano presso Cass. 29 luglio 2004, n. 14488 (riportate a un certo punto nella motivazione perugina), secondo cui non "non esiste la categoria del cosiddetto danno esistenziale, essendo invece risarcibili le lesioni di specifici valori costituzionalmente protetti".

Difficile immaginare da dove accenti simili - lasciati cadere un po’ dall’alto, senza corredi argomentativi di sorta - possano mai sortire.

I timori di chi suppone che, attraverso il danno esistenziale, si verrebbe a dare ascolto a qualsiasi umano disappunto? Sono proprio gli esistenzialisti a chiarire, in verità, perché così non potrebbe mai essere: mettendo in luce come il fatto del convenuto dovrà, in ogni caso, essere contra ius; sottolineando che le attività colpite nella vittima, e per le quali si reclama tutela, non potranno non vantare il crisma della meritevolezza.

Sensibilità per i bisogni del mercato, attenzione verso la categoria degli assicuratori? Si fa fatica a pensare a dei magistrati schiacciati, più di tanto, sugli allarmismi economici (non sempre innocenti) di alcune compagnie private. Messa in guardia contro le sirene tentatrici del danno in re ipsa? S’è già visto come nessuno abbia difeso la categoria del danno-conseguenza - i doveri della severità sul terreno probatorio - più energicamente degli esistenzialisti.

Nostalgie verso un’impostazione tipizzante degli illeciti, rilanci dell’antigiuridicità come cuore - necessario e sufficiente - della fattispecie? I "no" e i "si" più equilibrati appaiono, ancora una volta, quelli pronunciati dai sostenitori delle nuove linee protettive. Vale a dire:

(i) non basta disquisire di posizioni soggettive, parlando di torto extracontrattuale; ci si adagia così sulla componente nominale dell’ingiustizia, che è però tutt’altra cosa dal danno; quest’ultimo (realtà del mondo, faktisch) non può non esserci nella responsabilità civile; automatizzare il risarcimento significa niente più che dare il via a qualche spirale inflattiva, presso i tribunali, oppure alle commisurazioni irrisorie;

(ii) proclamazioni di diritti a parte, a spiccare nella Costituzione è - in primo luogo - il piano delle "attività realizzatrici" della persona: le prerogative formali contano, soprattutto, quali sfondi lungo cui avviene il disegno ciò che ogni creatura vorrebbe fare, essere al mondo; il danno esistenziale altro non fa, tecnicamente, che trasporre il rigoglio di quegli orizzonti sul terreno dell’illecito;

(iii) l’approdo a una categoria lineare riflette, anche in diritto, la propensione di ciascun individuo a pensare unitariamente se stesso; soprattutto alla responsabilità civile, chiamata a governare una casistica pressoché infinita, si addicono le indicazioni statutarie a vasto raggio - le sole capaci di scongiurare vuoti di salvaguardia, per le vittime, oppure rischi di duplicazione risarcitoria.

Difficile, come si vede, trovare alle orgogliose perentorietà di Cass. 29 luglio 2004, n. 14488, giustificazioni razionali, attendibili.

E poiché non sembra questa la sede per congetture d’altro genere (sconcerto dinanzi a un mondo che avanza troppo in fretta? ostentazione di immunità critico/istituzionale, gusto per gli esercizi verbali dell’autorità o della gerarchia), non resta che il richiamo alla sobrietà con cui i giudici perugini chiudono, alfine, l’incidente: "Qui la S.C. (a differenza del giudice delle leggi, che aveva seguito la strada della prudenza) si cimenta in un’affermazione tanto netta quanto immotivata: ad essa, perciò, non può attribuirsi alcun decisivo peso, sicché non v’è ostacolo a dissentirne".

La sofferenza e il risarcimento - Circa il significato che la riparazione del) danno morale è venuta assumendo, al giorno d’ oggi, è possibile osservare in generale.

(a) Troppo spesso si ragiona, in dottrina, come se fra angoscia umana e mondo della responsabilità civile ogni interfaccia fosse chiara, assodata per sempre; trattasi invece di relazioni alquanto complesse, mai abbastanza indagate nella loro essenza - tanto più negli ultimi tempi, a tener conto degli spostamenti di campo operati da Cass. 8828/2003.

(b) Fra i singoli sub-statuti del male non sempre, in giurisprudenza, si distingue adeguatamente. Basta pensare ai vissuti di chi si veda - rispettivamente - colpito da un lutto, oppure rimanga handicappato, resti sfigurato in seguito a un incidente, subisca una violenza sessuale, finisca calunniato, venga incarcerato ingiustamente, subisca maltrattamenti in famiglia, etc. Difficile non vedere come le ricadute interiori tenderanno a differenziarsi, qui, sotto ogni punto di vista (intensità del colpo iniziale, pervasività del dolore, effetti collaterali delle ansie, etc.).

(c) Non sempre i patemi d’animo corrispondono a qualcosa di transeunte, destinato a scomparire nel tempo, oppure a convertirsi in una perdita della ragione. Spesso - come attestano concordemente le scienze "psi" (dappertutto e in ogni tempo) - accade invece il contrario: fitte interne che non diminuiscono, strazi che addirittura crescono col tempo, pene dello spirito che non trascolorano in cadute psichiche, traumi che mutano restando però come spine del cuore;

(d) Anche gli intrecci di tipo funzionale (a seconda della personalità della vittima, del tipo di bene messo in causa, della dolosità o colposità della condotta, etc.) sono destinati a variare profondamente, nel risarcimento del danno morale. Qui prevarrà - tra le indicazioni del sistema - il motivo della reintegrazione, della soddisfazione per la vittima; là piuttosto quello della recriminazione, del castigo per l’autore; là magari quello della prevenzione dei torti futuri: là ancora entreranno in gioco combinazioni più articolate, poliedriche, secondo le necessità del caso.

(e) "Sentire" e "fare" costituiscono, nella esperienza dell’essere umano, momenti inconfondibili tra loro. Ogni tanto accade che un giudice riconosca di aver contabilizzato sul terreno del primo materiali appartenenti, invece, al secondo. Ecco gli spazi del danno esistenziale dilatarsi, allora, a scapito di quelli del danno morale soggettivo, senza che il volume del risarcimento aumenti necessariamente.

(f) Ciò che il danno morale venga perdendo in competenze (con il secolarizzarsi di qualche voce negativa), acquista di solito in cristallinità. E sempre più ci si accorge allora come, là dove una sofferenza umana esista davvero, non si potrà non darle "riparazione integrale" - senza atteggiamenti di ordine commiseratorio, da parte dell’ordinamento, né frazionamenti rispetto a indicatori di tipo medico-legale, o ad altre soglie aritmetiche di riferimento.

Il danno morale nella sentenza perugina - Assai puntuali comunque, in relazione ai dolori patiti da genitori nella vicenda perugina (quanto cioè all’attribuzione agli sfortunati attori di 30.000 euro a ciascuno, a titolo di danno morale), gli argomenti fatti valere nella sentenza.

- sottolineano opportunamente i giudici: "Nel caso di specie, è certamente da considerare un’acuta sofferenza concentrata successivamente all’ecografia del 28 febbraio 1990, sofferenza resa ancora più viva dalla circostanza che, dopo l’ecografia del 5 gennaio, i genitori non potevano paventare una diagnosi così sfavorevole quale quella poi correttamente formulata";

- donde poi la fondata conclusione: "Tale sofferenza è sicuramente proseguita, ragionando secondo un criterio di normalità, fino alla nascita ed anche dopo, fin tanto che - come è nella natura delle cose, salvo che il dolore non vada come si suol dire ad incistarsi, finendo per trasformarsi in vera e propria patologia psichica - i genitori non hanno accettato l’accaduto, ponendosi nella prospettiva di farvi fronte".

Danno esistenziale e profili di quantificazione - Del tutto congruo (resta infine da aggiungere) il percorso seguito dalla corte perugina per la determinazione del quantum, sul terreno del danno esistenziale - dovuto a ciascuno dei genitori.

(i) Così, in primo luogo, a proposito delle osservazioni circa la riconducibilità del d. biologico e del d. esistenziale sotto il medesimo ceppo "antropologico"

Nessun dubbio, rimarcano i giudici, trattarsi nell’un caso e nell’altro di attività realizzatrici spezzate (con la sola differenza del tipo di bene colpito a monte: là un tratto del corpo o della mente, qua un posizione soggettiva d’altro genere). Niente di più semplice, dunque, che ricercare i parametri di commisurazione, ai fini dell’esistenziale, là dove quelle poste figurano da tempo valutate/indicizzate, ossia sul terreno del danno biologico.

(ii) Così per quanto riguarda, in secondo luogo, le osservazioni (della corte) circa la maggior insidiosità - agli effetti di uno sconvolgimento delle attività quotidiane - dei torti che ineriscano all’universo della salute, psichica o fisica, piuttosto che non di quelli relativi ad altri momenti della persona.

Un dato questo - si sottolinea nella pronuncia umbra - di sicuro rilevo anche sul terreno della nascita indesiderata.

Opportunamente precisa, al riguardo, la motivazione come "Il danno esistenziale (…) va ritenuto sicuramente meno grave di un simile danno biologico, dal momento che quest’ultimo avrebbe integralmente precluso qualsiasi attività della persona, mentre il pregiudizio in termini di deterioramento della qualità della vita derivante dalla nascita indesiderata è senz’altro più contenuto, poiché i genitori conservano un ampio margine di "realizzazione", pur deteriorato in conseguenza dell’evento verificatosi" .

Rilievo ripreso e approfondito subito sotto, con riferimento alla situazione dei genitori del figlio malformato. Al cui proposito i giudici rilevano che "se si pensa ad una empirica suddivisione delle attività della persona in più aree - ad esempio: a) attività biologico-sussistenziali (muoversi, mangiare ecc.); b) affetti, sesso, famiglia, figli; c) lavoro; d) arte, scuola, scienza, cultura; e) svago, sport, vacanze, tempo libero - è facile osservare che, con riguardo alla coppia Utrio Lanfaloni-Angelini, nessuna compromissione si è avuta con riguardo alla sfera sub a, imponente è stata la compromissione con riguardo alla sfera sub b, senz’altro rilevante è stata la compromissione concernente le altre sfere, non foss’altro che per il minor tempo disponibile allo scopo, dovendo i genitori occuparsi in misura superiore alla norma della bambina".

(iii) Così, infine, per quanto concerne le osservazioni circa il protrarsi delle compromissioni esistenziali, nel futuro vicino e lontano delle vittime.

Difficile non concordare, anche qui, con il passaggio della decisione umbra in cui si legge: " per quanto riguarda la permanenza del danno, la corte stima che esso sia destinato ad affievolirsi, ma - ragionando per via presuntiva - non a scomparire: si è detto che la bambina potrà inserirsi nel mondo del lavoro, ma sembra difficile pronosticare che essa potrà affrancarsi integralmente dalla dipendenza dai genitori e, dunque, affrancare questi ultimi da ogni impegno nei suoi confronti".

Giudicare senza preconcetti - Tirando allora le fila del discorso:

(I) per lo studioso di diritto civile, e ancor più per il giudice della responsabilità, la scelta di chiudere gli occhi dinanzi alla realtà è quasi sempre rovinosa - soprattutto trattandosi di crinali ad alto tasso di movimento, quali sempre più appaiono quelli del danno alla persona;

(II) ove mancasse, oggigiorno, la possibilità di far capo allo strumento del danno esistenziale, le ipotesi di compromissione alle "attività realizzatrici" dell’individuo, non discendenti da attentati all’integrità fisiopsichico, incontrerebbero serie difficoltà di udienza sul terreno risarcitorio;

(III) le letture arroccate intorno al mero dato dell’antigiuridicità, e disinteressate al piano dei contraccolpi negativi per la vittima, finiscono per calpestare il significato stesso della presenza dell’illecito extracontrattuale nel diritto privato - disarmando l’interprete sotto il profilo tecnico e minacciando vuoti preoccupanti di giustizia;

(IV) difficile pensare, come anche la sentenza umbra insegna, che la convivenza fra danno "morale" e danno "esistenziale" finirà tanto presto in Italia - magari con qualche travaso interno di materiali, senza tuttavia episodi di sopraffazione o di vera concorrenza fra i due lemmi;

(V) il crescente riguardo per il profili della quantificazione, secondo i moduli utilizzati anche nell’esempio perugino, appare destinato a esaltare giorno per giorno - al banco di prova del giudizio - l’identità morfologica fra danno "biologico" e "danno esistenziale", avvicinando verosimilmente il momento in cui i due lemmi verranno a fondersi entro un’unica categoria.

Giustizia è fatta - Già ad un primo sguardo la sentenza perugina mostra di centrare, con riguardo a una vicenda umana tutt’altro che semplice, alcuni obiettivi significativi.

Il verdetto in sé appare senz’altro convincente: 300.000 euro concessi alla madre e altrettanti al padre, quale risarcimento per essere stati, l’una e l’altro, tenuti all’oscuro dal medico circa le gravi malformazione del feto (ospitato nel grembo della donna) - per non essere stati cioè messi in condizione di decidere se far luogo, o meno, a un’interruzione di gravidanza.

Si ricava subito un senso di equilibrio complessivo, dalla lettura; un’impressione di giustizia piena, nei profili dell’an come in quelli del quantum.

Che tipo di esistenza avrebbero condotto i due "genitori forzati", nel futuro, qualora non fosse stata tolta loro la libertà di scegliere? Questo la domanda di base per la corte. In generale: che significa vivere giorno e giorno dovendo accudire sotto ogni punto di vista un bambino - poi adolescente, poi giovane adulto, poi individuo maturo - gravemente handicappato?

Più in particolare: a quali "attività realizzatrici" occorrerà rinunciare in casi del genere, da parte della madre (la quale aveva/avrebbe avuto un suo progetto di vita, ben diverso e a tutto campo), e poi ad opera del padre, e ancora come coppia di coniugi? quali gli impieghi sostitutivi della giornata o della settimana, destinati a installarsi, più o meno imperiosamente, nell’agenda degli attori in giudizio?

Quali, di lì in avanti, le cose che si dovranno o non si potranno più fare o dividere, con lo stesso figlio malformato, con gli altri figli (presenti o futuri), con i restanti membri del nucleo domestico - a paragone di quanto sarebbe accaduto in mancanza dell’illecito?

Eventi e conseguenze - Fra i pregi più evidenti della decisione in commento: la finezza dogmatica, il rigore dimostrato nell’approccio alle questioni generali del danno

Si tratta, bisogna dire, di qualità nient’affatto diffuse presso i nostri tortmen - quale che sia il formante considerato: quello delle corti giudiziarie, quello degli studi professionali, quello dell’ accademia pura, quello del legislatore speciale.

Tanto più una constatazione del genere appare fondata - occorre aggiungere - quanto più a venire in gioco risultino, nelle concrete situazioni di torto, profili di danno non patrimoniale

E’ facile accorgersi come non sempre l’ imprescindibilità di un approccio "consequenzialista" appaia messa in risalto qui - comunque praticata dagli interpreti - con la necessaria fermezza.

Gli errori di percorso sono anzi di vario tipo.

Talvolta accade che l’invito (di chi parla) sia esplicitamente a guardare le cose dal punto di vista del defendant. Così ad esempio in materia di danno morale. Il ragionamento di tanti era fino a pochi anni orsono: (a) obiettivo dell’at 2059 c.c. è niente più affliggere, con una sanzione risarcitoria, qualcuno che ha violato una regola importante del sistema; (b) chiedersi se la vittima abbia sofferto tanto o poco, e quanto a lungo la cosa andrà avanti in futuro, non ha qui ragion d’essere

Talvolta invece ci si trova davanti a formulazioni che, magari inconsapevolmente, contrastano decenni di pensiero. Così ad esempio in materia di danno biologico. Basta pensare a certi passaggi della (pur pregevole) sent. 184/86 della Corte costituzionale: in particolare, al ricorso allo stilema del danno-evento quale mezzo per aggirare, con riferimento alla salute, le forche caudine dell’art. 2059 c.c. Oppure alla stessa definizione di danno biologico, quale offerta in sede legislativa, nel recente provvedimento sulle micropermanenti: formula tutta sbilanciata - di nuovo - sul tratto della "lesione del diritto", invece che su quello delle "conseguenze" pregiudizievoli.

Talora ciò che viene prospettato è, invece, un modello asimmetrico di voci di danno, ciascuna tratteggiata all’origine lungo distinti baricentri, senza un filo conduttore.

Così ad es. in tema di danno esistenziale: dov’ è alquanto deludente che nella pur meritoria 8828/2003 della Cassazione - dopo essersi rilevato che "nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione (…), il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona"; dopo aver parlato di "tutela riconosciuta al danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotai da rilevanza economica" - si concluda un po’ evasivamente (alla Ponzio Pilato): "Non sembra tuttavia proficuo ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica".

Così pure Cass. 29 luglio 2004, n. 14488, ove ci si limita a discorrere - in termini non più che formalistici - di risarcibilità per le lesioni "di specifici valori costituzionalmente protetti" .

Contro impostazioni del genere opportunamente insorge la Corte d’appello di. Perugia; sottolineando che, fintantoché si parla così, "non si dice ancora nulla del danno che occorre risarcire". Continuano sul punto i giudici umbri: "Ragionando con i concetti della responsabilità extracontrattuale si potrebbe dire che, in questo caso, l’attentato al valore dotato di tutela costituzionale - l’autodeterminazione della donna nella scelta di portare a termine la gravidanza, senz’altro riconducibile all’ambito dell’articolo 2 Cost., quale clausola generale aperta - si colloca dal versante della lesione dell’interesse giuridicamente protetto, dunque del danno-evento, ma lascia completamente in ombra le conseguenze della lesione".

La rivoluzione del danno - Impossibile interrogarsi qui compiutamente sul perché delle difficoltà - esegetiche, letterarie, semantiche - che tanti interpreti accusano oggigiorno, di fronte alle tematiche del danno non patrimoniale.

E’ probabile che i motivi profondi, sul terreno del metodo, andrebbero comunque indagati con pazienza.

Un punto appare chiaro sin d’ora: solo in parte potranno riuscire di utilità, su questo terreno, spiegazioni arieggianti alla modestia del background culturale che si riscontra in Italia - durante l’ultimo secolo e mezzo (poche opere di vasto respiro, scarso cimento teorico, bassi indici di creatività e originalità) - in merito ai concetti generali di danno.

Basti ricordare che, in Germania, la premessa storico/bibliografica è certamente di segno diverso (già a partire dalla fine dell’Ottocento); eppure anche lì il tono degli approcci e la sensibilità vittimologica, in materia di danno alla persona, sono oggi tutt’altro che soddisfacenti.

Più proficua casomai un’altra strada: quella che fa capo alla tradizionale inclinazione del tortman, di qualsiasi ambiente, a difendere anzitutto se stesso - a non far trasparire i suoi disagi nel cogliere la natura dei bisogni emergenti, presso i tribunali, nel percepire il senso delle scoperte dottrinarie che si affacciano.

Inclinazione dunque - per una generazione tutta legata a un certo modo di ragionare, amante delle geometrie consolidate - a osteggiare ogni materiale irriducibile alla purezza di quegli standard. Propensione, secondo i casi, a sbarrare al nuovo la porta della cittadella aquiliana; oppure tentativo di purgare ogni dato inedito delle sue frange meno canoniche, facendone una cosa differente, omologa al linguaggio di sempre

Si spiegano così l’eleganza e il fervore con cui ci si è prodigati, da parte della nostra dottrina, a partire degli anni ’60, nelle varie discussioni sull’ingiustizia del danno, sulla causalità giuridica, sulle varie forme della colpevolezza, sui destini prossimi della responsabilità oggettiva. Nessun serio rischio questa o quella neolettura introduceva, al di là dei clamori retorici, rispetto agli equilibri precedenti; il panorama di fondo, il sistema dei riferimenti tecnico/formali restavano - per la sintassi dell’ordinamento - comunque i medesimi.

Nessun imbarazzo possibile.

Tutt’altro lo scenario minacciato dall’irrompere giurisprudenziale dei "nuovi danni" non patrimoniali (biologico, psichico, esistenziale). A entrare in gioco qui è la creatura umana, con tutta la sua complessità - relazionale, avventurosa, politica, esplorativa. Le parole d’ordine sono subito diverse, dapprima presso i cultori delle scienze sociali, poi per l’ operatore del diritto.

Ecco moltiplicarsi allora nelle istruttorie (volendo usare le parole della sentenza in commento) i rimandi all’ "esistenza concreta", alla "vita quotidiana", a "una radicale trasformazione delle prospettive". Sempre più l’accento si sposta sui "rovesciamenti forzati dell’agenda", sul "condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore", sugli "ovvi sacrifici che ne conseguono".

C’è anzi il pericolo (questo sì oscuro, trasversale) che i nuovi soffi antropologici non rimangano circoscritti entro la cerchia nominale del danno; che dilaghino, presto o tardi, verso le altre componenti della fattispecie aquiliana, magari oltre la soglia dell’illecito - contagiando ogni settore del diritto privato: famiglia, lavoro, diritti della personalità, contratti, malpractice medica, processo, ambiente, e cos’ì via.

Si tratta di danno esistenziale - Del tutto condivisibili (merita aggiungere) i profili di inquadramento tecnico del danno non patrimoniale, quali emergono dalla sentenza perugina.

Così, in particolare, quanto alla scelta della Corte umbra di ricondurre il nocciolo delle ripercussioni lamentate dai genitori, a seguito della nascita indesiderata, sotto l’egida (prevalente) del danno esistenziale

Seguiamo il percorso argomentativo dei giudici

(a) Un primo passaggio, di tipo generale, è quello riguardante le sofferenze di tipo interno.

Osserva al riguardo la pronuncia: fatti come quelli all’origine della causa sono tali da provocare, normalmente, un certo dolore presso le vittime. Non si tratterà magari dei risvolti più diffusi, laceranti; ma un danno morale soggettivo difficilmente può essere assente del tutto, in circostanze simili. E come tale occorre risarcirlo.

(b) Seguono le considerazioni relative al danno biologico.

Rileva il collegio, a tale proposito, come non siano mancate in passato pronunce favorevoli a concedere ai genitori, dinanzi alla nascita di un bambino handicappato, il risarcimento di una posta siffatta.

Viene sottolineato trattarsi però di episodi da non ripetere.

Ciò non soltanto, si lascia intendere, con riferimento ai profili di ordine prettamente fisico (difficili da prospettare in situazioni del genere); pure in ordine ai riflessi lesivi di carattere psichico la conclusione è destinata, tendenzialmente, a non variare.

In effetti: l’eventualità di un genitore in grado di dimostrare di aver risentito compromissioni, più o meno profonde, alla propria salute mentale - a seguito di una nascita non desiderata, sia pur di un figlio malformato - deve ritenersi non proprio frequentissima. E tanto dicono i repertori di giurisprudenza, nonché i trattati di medicina legale, non solamente in Italia.

(c) Il punto è che inquadramenti simili, si prosegue, traggono origine quasi tutti da una palese forzatura di principio; loro presupposto era "un’idea di salute, e quindi di danno biologico, particolarmente dilatata, tale da ricomprendere quelle perdite che non la salute impegnano, ma le conseguenze relazionali della lesione"; il che al giorno d’oggi, con le più attente nomenclature affermatesi ex lege Aquilia, non ha più (si lascia intendere) ragion d’essere.

(d) Con la nascita indesiderata ci si trova dinanzi, in verità, a "un caso paradigmatico di lesione di un interesse che non determina un prevalente danno morale o biologico, peraltro sempre possibile, ma impone al danneggiato di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore (quanto si voglia nobilitata dalla dedizione al congiunto svantaggiato, ma peggiore, tanto che nessuno si augurerebbe di avere un figlio senza gambe piuttosto che con) di quella che avrebbe altrimenti condotto".

(e) Nessun senso rispetto a tutto ciò - una volta riconosciuto "che la nascita indesiderata incide massicciamente su altri aspetti dell’esistenza, diversi dalla sofferenza e dalla salute" - avrebbe tuttavia proseguire come fa Cass. 10 maggio 2002, n. 6735), ossia evidenziare che uno dei danni che si producono "attiene agli effetti non patrimoniali della diminuita vita di relazione":. Il punto - rilevano i giudici umbri - è che "il ricorso al rispolverato danno alla vita di relazione sembra tutt’altro che appagante, per quanto siffatta figura è ampiamente superata dall’elaborazione giurisprudenziale degli ultimi due decenni".

(f) Maglio riconoscere piuttosto - come ha fatto già ragguardevole giurisprudenza di merito - che "le conseguenze personali della mancata interruzione volontaria della gravidanza costituiscono, per la parte più rilevante, un caso tipico di danno esistenziale, nel senso in cui l’espressione si è andata man mano precisando in giurisprudenza (…) dottrina: ossia come ostacolo allo svolgimento di attività realizzatrici della persona, per utilizzare la nota espressione della Corte costituzionale".

(g) Più precisamente: la nascita indesiderata è tale da determinare "una radicale trasformazione delle prospettive di vita dei genitori, i quali si trovano esposti a dover misurare (non i propri specifici "valori costituzionalmente protetti", ma) la propria vita quotidiana, l’esistenza concreta, con le prevalenti esigenze della figlia, con tutti gli ovvi sacrifici che ne conseguono: le conseguenze della lesione del diritto di autodeterminazione nella scelta procreativa, allora, finiscono per consistere proprio nei "rovesciamenti forzati dell’agenda" di cui parte della dottrina discorre nel prospettare la definizione di danno esistenziale".

Voci contrarie, spesso altezzose - Sorprendenti allora, rispetto a indicazioni così puntuali, battute come quelle che si ritrovano presso Cass. 29 luglio 2004, n. 14488 (riportate a un certo punto nella motivazione perugina), secondo cui non "non esiste la categoria del cosiddetto danno esistenziale, essendo invece risarcibili le lesioni di specifici valori costituzionalmente protetti".

Difficile immaginare da dove accenti simili - lasciati cadere un po’ dall’alto, senza corredi argomentativi di sorta - possano mai sortire.

I timori di chi suppone che, attraverso il danno esistenziale, si verrebbe a dare ascolto a qualsiasi umano disappunto? Sono proprio gli esistenzialisti a chiarire, in verità, perché così non potrebbe mai essere: mettendo in luce come il fatto del convenuto dovrà, in ogni caso, essere contra ius; sottolineando che le attività colpite nella vittima, e per le quali si reclama tutela, non potranno non vantare il crisma della meritevolezza.

Sensibilità per i bisogni del mercato, attenzione verso la categoria degli assicuratori? Si fa fatica a pensare a dei magistrati schiacciati, più di tanto, sugli allarmismi economici (non sempre innocenti) di alcune compagnie private. Messa in guardia contro le sirene tentatrici del danno in re ipsa? S’è già visto come nessuno abbia difeso la categoria del danno-conseguenza - i doveri della severità sul terreno probatorio - più energicamente degli esistenzialisti.

Nostalgie verso un’impostazione tipizzante degli illeciti, rilanci dell’antigiuridicità come cuore - necessario e sufficiente - della fattispecie? I "no" e i "si" più equilibrati appaiono, ancora una volta, quelli pronunciati dai sostenitori delle nuove linee protettive. Vale a dire:

(i) non basta disquisire di posizioni soggettive, parlando di torto extracontrattuale; ci si adagia così sulla componente nominale dell’ingiustizia, che è però tutt’altra cosa dal danno; quest’ultimo (realtà del mondo, faktisch) non può non esserci nella responsabilità civile; automatizzare il risarcimento significa niente più che dare il via a qualche spirale inflattiva, presso i tribunali, oppure alle commisurazioni irrisorie;

(ii) proclamazioni di diritti a parte, a spiccare nella Costituzione è - in primo luogo - il piano delle "attività realizzatrici" della persona: le prerogative formali contano, soprattutto, quali sfondi lungo cui avviene il disegno ciò che ogni creatura vorrebbe fare, essere al mondo; il danno esistenziale altro non fa, tecnicamente, che trasporre il rigoglio di quegli orizzonti sul terreno dell’illecito;

(iii) l’approdo a una categoria lineare riflette, anche in diritto, la propensione di ciascun individuo a pensare unitariamente se stesso; soprattutto alla responsabilità civile, chiamata a governare una casistica pressoché infinita, si addicono le indicazioni statutarie a vasto raggio - le sole capaci di scongiurare vuoti di salvaguardia, per le vittime, oppure rischi di duplicazione risarcitoria.

Difficile, come si vede, trovare alle orgogliose perentorietà di Cass. 29 luglio 2004, n. 14488, giustificazioni razionali, attendibili.

E poiché non sembra questa la sede per congetture d’altro genere (sconcerto dinanzi a un mondo che avanza troppo in fretta? ostentazione di immunità critico/istituzionale, gusto per gli esercizi verbali dell’autorità o della gerarchia), non resta che il richiamo alla sobrietà con cui i giudici perugini chiudono, alfine, l’incidente: "Qui la S.C. (a differenza del giudice delle leggi, che aveva seguito la strada della prudenza) si cimenta in un’affermazione tanto netta quanto immotivata: ad essa, perciò, non può attribuirsi alcun decisivo peso, sicché non v’è ostacolo a dissentirne".

La sofferenza e il risarcimento - Circa il significato che la riparazione del) danno morale è venuta assumendo, al giorno d’ oggi, è possibile osservare in generale.

(a) Troppo spesso si ragiona, in dottrina, come se fra angoscia umana e mondo della responsabilità civile ogni interfaccia fosse chiara, assodata per sempre; trattasi invece di relazioni alquanto complesse, mai abbastanza indagate nella loro essenza - tanto più negli ultimi tempi, a tener conto degli spostamenti di campo operati da Cass. 8828/2003.

(b) Fra i singoli sub-statuti del male non sempre, in giurisprudenza, si distingue adeguatamente. Basta pensare ai vissuti di chi si veda - rispettivamente - colpito da un lutto, oppure rimanga handicappato, resti sfigurato in seguito a un incidente, subisca una violenza sessuale, finisca calunniato, venga incarcerato ingiustamente, subisca maltrattamenti in famiglia, etc. Difficile non vedere come le ricadute interiori tenderanno a differenziarsi, qui, sotto ogni punto di vista (intensità del colpo iniziale, pervasività del dolore, effetti collaterali delle ansie, etc.).

(c) Non sempre i patemi d’animo corrispondono a qualcosa di transeunte, destinato a scomparire nel tempo, oppure a convertirsi in una perdita della ragione. Spesso - come attestano concordemente le scienze "psi" (dappertutto e in ogni tempo) - accade invece il contrario: fitte interne che non diminuiscono, strazi che addirittura crescono col tempo, pene dello spirito che non trascolorano in cadute psichiche, traumi che mutano restando però come spine del cuore;

(d) Anche gli intrecci di tipo funzionale (a seconda della personalità della vittima, del tipo di bene messo in causa, della dolosità o colposità della condotta, etc.) sono destinati a variare profondamente, nel risarcimento del danno morale. Qui prevarrà - tra le indicazioni del sistema - il motivo della reintegrazione, della soddisfazione per la vittima; là piuttosto quello della recriminazione, del castigo per l’autore; là magari quello della prevenzione dei torti futuri: là ancora entreranno in gioco combinazioni più articolate, poliedriche, secondo le necessità del caso.

(e) "Sentire" e "fare" costituiscono, nella esperienza dell’essere umano, momenti inconfondibili tra loro. Ogni tanto accade che un giudice riconosca di aver contabilizzato sul terreno del primo materiali appartenenti, invece, al secondo. Ecco gli spazi del danno esistenziale dilatarsi, allora, a scapito di quelli del danno morale soggettivo, senza che il volume del risarcimento aumenti necessariamente.

(f) Ciò che il danno morale venga perdendo in competenze (con il secolarizzarsi di qualche voce negativa), acquista di solito in cristallinità. E sempre più ci si accorge allora come, là dove una sofferenza umana esista davvero, non si potrà non darle "riparazione integrale" - senza atteggiamenti di ordine commiseratorio, da parte dell’ordinamento, né frazionamenti rispetto a indicatori di tipo medico-legale, o ad altre soglie aritmetiche di riferimento.

Il danno morale nella sentenza perugina - Assai puntuali comunque, in relazione ai dolori patiti da genitori nella vicenda perugina (quanto cioè all’attribuzione agli sfortunati attori di 30.000 euro a ciascuno, a titolo di danno morale), gli argomenti fatti valere nella sentenza.

- sottolineano opportunamente i giudici: "Nel caso di specie, è certamente da considerare un’acuta sofferenza concentrata successivamente all’ecografia del 28 febbraio 1990, sofferenza resa ancora più viva dalla circostanza che, dopo l’ecografia del 5 gennaio, i genitori non potevano paventare una diagnosi così sfavorevole quale quella poi correttamente formulata";

- donde poi la fondata conclusione: "Tale sofferenza è sicuramente proseguita, ragionando secondo un criterio di normalità, fino alla nascita ed anche dopo, fin tanto che - come è nella natura delle cose, salvo che il dolore non vada come si suol dire ad incistarsi, finendo per trasformarsi in vera e propria patologia psichica - i genitori non hanno accettato l’accaduto, ponendosi nella prospettiva di farvi fronte".

Danno esistenziale e profili di quantificazione - Del tutto congruo (resta infine da aggiungere) il percorso seguito dalla corte perugina per la determinazione del quantum, sul terreno del danno esistenziale - dovuto a ciascuno dei genitori.

(i) Così, in primo luogo, a proposito delle osservazioni circa la riconducibilità del d. biologico e del d. esistenziale sotto il medesimo ceppo "antropologico"

Nessun dubbio, rimarcano i giudici, trattarsi nell’un caso e nell’altro di attività realizzatrici spezzate (con la sola differenza del tipo di bene colpito a monte: là un tratto del corpo o della mente, qua un posizione soggettiva d’altro genere). Niente di più semplice, dunque, che ricercare i parametri di commisurazione, ai fini dell’esistenziale, là dove quelle poste figurano da tempo valutate/indicizzate, ossia sul terreno del danno biologico.

(ii) Così per quanto riguarda, in secondo luogo, le osservazioni (della corte) circa la maggior insidiosità - agli effetti di uno sconvolgimento delle attività quotidiane - dei torti che ineriscano all’universo della salute, psichica o fisica, piuttosto che non di quelli relativi ad altri momenti della persona.

Un dato questo - si sottolinea nella pronuncia umbra - di sicuro rilevo anche sul terreno della nascita indesiderata.

Opportunamente precisa, al riguardo, la motivazione come "Il danno esistenziale (…) va ritenuto sicuramente meno grave di un simile danno biologico, dal momento che quest’ultimo avrebbe integralmente precluso qualsiasi attività della persona, mentre il pregiudizio in termini di deterioramento della qualità della vita derivante dalla nascita indesiderata è senz’altro più contenuto, poiché i genitori conservano un ampio margine di "realizzazione", pur deteriorato in conseguenza dell’evento verificatosi" .

Rilievo ripreso e approfondito subito sotto, con riferimento alla situazione dei genitori del figlio malformato. Al cui proposito i giudici rilevano che "se si pensa ad una empirica suddivisione delle attività della persona in più aree - ad esempio: a) attività biologico-sussistenziali (muoversi, mangiare ecc.); b) affetti, sesso, famiglia, figli; c) lavoro; d) arte, scuola, scienza, cultura; e) svago, sport, vacanze, tempo libero - è facile osservare che, con riguardo alla coppia Utrio Lanfaloni-Angelini, nessuna compromissione si è avuta con riguardo alla sfera sub a, imponente è stata la compromissione con riguardo alla sfera sub b, senz’altro rilevante è stata la compromissione concernente le altre sfere, non foss’altro che per il minor tempo disponibile allo scopo, dovendo i genitori occuparsi in misura superiore alla norma della bambina".

(iii) Così, infine, per quanto concerne le osservazioni circa il protrarsi delle compromissioni esistenziali, nel futuro vicino e lontano delle vittime.

Difficile non concordare, anche qui, con il passaggio della decisione umbra in cui si legge: " per quanto riguarda la permanenza del danno, la corte stima che esso sia destinato ad affievolirsi, ma - ragionando per via presuntiva - non a scomparire: si è detto che la bambina potrà inserirsi nel mondo del lavoro, ma sembra difficile pronosticare che essa potrà affrancarsi integralmente dalla dipendenza dai genitori e, dunque, affrancare questi ultimi da ogni impegno nei suoi confronti".

Giudicare senza preconcetti - Tirando allora le fila del discorso:

(I) per lo studioso di diritto civile, e ancor più per il giudice della responsabilità, la scelta di chiudere gli occhi dinanzi alla realtà è quasi sempre rovinosa - soprattutto trattandosi di crinali ad alto tasso di movimento, quali sempre più appaiono quelli del danno alla persona;

(II) ove mancasse, oggigiorno, la possibilità di far capo allo strumento del danno esistenziale, le ipotesi di compromissione alle "attività realizzatrici" dell’individuo, non discendenti da attentati all’integrità fisiopsichico, incontrerebbero serie difficoltà di udienza sul terreno risarcitorio;

(III) le letture arroccate intorno al mero dato dell’antigiuridicità, e disinteressate al piano dei contraccolpi negativi per la vittima, finiscono per calpestare il significato stesso della presenza dell’illecito extracontrattuale nel diritto privato - disarmando l’interprete sotto il profilo tecnico e minacciando vuoti preoccupanti di giustizia;

(IV) difficile pensare, come anche la sentenza umbra insegna, che la convivenza fra danno "morale" e danno "esistenziale" finirà tanto presto in Italia - magari con qualche travaso interno di materiali, senza tuttavia episodi di sopraffazione o di vera concorrenza fra i due lemmi;

(V) il crescente riguardo per il profili della quantificazione, secondo i moduli utilizzati anche nell’esempio perugino, appare destinato a esaltare giorno per giorno - al banco di prova del giudizio - l’identità morfologica fra danno "biologico" e "danno esistenziale", avvicinando verosimilmente il momento in cui i due lemmi verranno a fondersi entro un’unica categoria.