Per una vallata
Per la seconda volta, una visione dell’Italia più amata e vissuta, ma anche dell’Italia che si sta frantumando sotto i colpi di una modernità inesorabile. Per di più i luoghi sono gli stessi che accolsero l’autore bambino, e lo conquistarono alla bellezza.
La bellezza del paesaggio italiano è un venerabile luogo comune, che il primo tentativo di verifica manda subito in pezzi. Un inglese storico dell’architettura, il professor Nikolaus Pevsner, gridò sbalordito, una ventina d’anni fa, al cospetto della Roma odierna, che “in nessun paese si costruiscono edifici così brutti”. Dubito che un Bachofen tornerebbe a misurare profondità, lunghezze e vallate, ampiezze di fiumi e altezze di monti nell’Italia centrale, per trarne i canoni della bellezza paesistica; o che un Moeller van der Bruck riscriverebbe le sue settecento pagine sulla “Italienische Schonheit”. Sarebbero messi in fuga, alla prima occhiata, dall’aspetto repellente di ville, chiese, ad altre costruzioni d’ogni sorta, dalla contemplazione di quell’isterica folla di capannoni ed altri edifici industriali che si distende, come una bava schifosa, ormai indistruttibile, ai lati d’ogni strada di transito.
Non vale ripetere che l’industria vi sarà anche in Austria e negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Baviera che, pure, riescono ad evitare che sordide fabbricazioni insozzino l’aspetto complessivo del paese rovinando i suoi punti migliori. Niente da fare. Sorda a qualsiasi idea di dignità e proprietà collettiva; L’Italia privata e pubblica ha commesso, lungo gli ultimi trent’anni, il più mostruoso suicidio edilizio e paesistico che la storia umana ricordi.
Chi abbia occasione di percorrerla frequentemente, si sarà accorto che stiamo vivendo il momento di un angoscioso e nuovo trapasso. Come per un tacito appuntamento, migliaia di casolari, abitazioni rustiche, chiesette, fienili abbandonati, stanno crollando tutti insieme: hanno resistito dieci, vent’anni, ed ora si accasciano nella solitudine e nella morte. Accanto a loro, svettano gli squallidi e protervi esemplari che ne terranno il luogo.
L’interesse sollecito, il nostalgico amore, la coscienza sveglia di pochi isolati non costituiscono forze sufficienti a salvare questo patrimonio. Riescono, tutt’al più, a fissarne le immagini, prima che si dissolvano. Uno di questi è Walter Mita, che in vent’anni ha fotografato tutta la Vallata del Santerno nel suo tratto nobile, quello che dai colli sopra Imola s’inerpica, seguendo il corso tortuoso e incassato del fiume, fino alle montagne del Mugello.
La varietà del percorso, lo stringersi severo e soave allargarsi delle catane di colline, l’incanto degli scorci del fiume, che s’arricchisce di affluenti preziosi, il Rovigo, il Diaterna, l’abbondanza della vegetazione, la nobiltà e serenità dell’edilizia, rustica ed aulica, ne facevano una delle vallate più attraenti d’Italia.
Vi assicuro: né le ragioni della nascita, né quelle del nome velano il mio giudizio, anche se debbo confessare che questo paesaggio m’ha segnato a fondo, fin dalle prime passeggiate dell’infanzia. Gli debbo alcuni punti fermi della mia psiche; per un esempio solo: il fatto che se penso uno specchio d’acqua, mi viene in mente, alla maniera dei pittori olandesi italianizzanti del Seicento, una fresca polla tra le rocce d’un fiume, piuttosto che una vasta e gloriosa marina inondata dal sole di Claude. Sempre provai, e tuttora provo, in questa valle, uno strano benessere. L’edilizia toscana la penetra a fondo, non solo nel ciclopico quadrilatero rinascimentale del Palazzo di Castel del Rio, ma fin nelle torricelle di Fontanelice e nelle pievi d’intorno, e nobilita, abbellisce, infonde ritmo e volume all’architettura rustica, altrove così stereotipa e floscia in Romagna. Col passare degli anni e dopo lungo distacco, credo di aver trovato le ragioni della mia predilezione, nell’essere questa vallata commista di umori e spiriti romagnoli e fiorentini, così che io vi trovo conciliate le due metà che nel mio spirito sempre fecer baruffa tra loro, fino a che la metà toscana prese il sopravvento e tuttora lavora a distruggere quella romagnola.
Qua, tutto si placa e ritorna all’ordine. Contemplo le settecento fotografie di Walter Mita adunate nella “mostra documentaristica e paesaggistica” di Fontanelice, e nel pensier mi fingo che sia tutto vivo. E invece, è una commemorazione, ora lirica, ora indignata, di un paesaggio. Poche sono le costruzioni che non appaiano condannate, come l’elegante diga di Codrignano. Coi suoi baluardi, scale, volte e anditi, o il superbo ponte di Castel del Rio, sui due cui lati ci s’inerpica puntando al cielo.
Ha ragione Mario Praz, a dire che l’arte figurativa, cacciata dalle tele, si è rifugiata nell’obiettivo. Che poi tanto obiettivo non è, se sa essere soggettivo come qualsiasi strumento d’artista.
Walter Mita è un impiegato, e non ha forse mai preteso d’essere preso per artista. Ma la visione, il taglio, la scelta della luce, dell’ora di certe sue vedute, come quelle di Castglionelli, del Sestetto, del Castelletto di Fornione, la casa bizzarra e forte di Stignano, questa bianca e irregolare facciata di sassi, hanno unità e compattezza di toni, da farti mormorare ora Cézanne, ora Soffici, o altri.
Un giorno comporremo queste immagini in un libretto, e forse ogni vallata comporrà il suo, in memoria d’Italia bella che fu.
Da “Il Giornale”, venerdì 28 agosto 1981