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Vaccino Covid e sicurezza sul lavoro

Ombre
Ph. Arbër Arapi / Ombre

“Solo un Sith ragiona per assoluti”[1]

Obi Wan Kenobi

Indice:

1. La bolla mediatica

2. I (presunti) obblighi di garanzia del datore di lavoro

3. Il problema del personale sanitario e RSA (e casi analoghi)

 

1. La bolla mediatica

In questo periodo spesso ripenso al corso di diritto costituzionale frequentato all’Università e, in particolare, agli insegnamenti sull’articolo 21 (libertà di pensiero, d’espressione e di stampa) e il valore essenziale del pluralismo giornalistico e dell’informazione. Perché prima o poi arriverà il momento di fare seriamente i conti con un sistema globale di (dis)informazione main stream, incentrato su pochissimi trust di mega-network che monopolizzano l’informazione distorcendo alla base il dibattito pubblico e la vita democratica che su di esso si basa.

Del resto è un fatto che il c.d. Quarto Potere è l’unico curiosamente (!?) non adeguatamente considerato nella riflessione storica costituzionale; oggi tale carenza mostra tutta la propria problematicità nella crisi di libertà che attanaglia il giornalismo “istituzionale” e il conseguente asservimento, diretto o mediato, degli altri tre poteri del costituzionalismo moderno (legislativo, esecutivo, giudiziario).

Il Covid-19 (ma non solo) sta dimostrando in tutta la sua portata la forza e pervasività di questo “Giornalista Collettivo”, funzionale all’affermarsi di un Pensiero Unico che regga e giustifichi speculari Governi partigiani che aspirano a imporsi come il “tutto”, in un’assolutizzazione della narrazione pubblica, della legittimazione politica e delle conseguenti, gravissime, decisioni di politica sanitaria, economica e sociale.

Di pari passo però sono emersi anche gli enormi limiti di tale manipolazione, dato che oggi solo chi non vuole vedere può continuare a vivere nella bolla mediatica del main stream; può continuare a non accorgersi quanto questa narrazione sia carente e distonica rispetto ai dati ufficiali, oltreché intrinsecamente contraddittoria, pregiudizialmente selettiva rispetto alle notizie difformi e ossessivamente orientata.

In una parola: falsa, laddove la verità consiste nell’adaequatio rei et intellectus del realismo filosofico.

E quindi, tale bolla mediatica è incentrata su: una lettura squilibrata dei report dell’Istituto Superiore di Sanità su complicanze gravi e morti per la malattia (quasi sempre ignorati, a proposito, i fattori di rischio di età e comorbidità); di contro nessuno spazio a notizie e posizioni distoniche rispetto alla narrativa main stream come nel caso, ad esempio, dell’ostracismo del Ministero su autopsie e cure alternative (chi sa della decisione del Consiglio di Stato sull’Idrossiclorochina di dicembre?) o delle contestazioni di parte del mondo scientifico su attendibilità e risultati dei test diagnostici o, ancora, del parere contrario di numerosi medici su effettiva utilità e innocuità delle mascherine (oggetto peraltro di altra recente decisione del Consiglio di Stato, nonché in questi giorni di ulteriori iniziative giudiziarie), così come, infine, della denuncia degli enormi danni psico-socio-economici cagionati dai lockdown, del tutto sproporzionati rispetto alla patologia in questione.

Solo per farsi un’idea, rimando a delle critiche ragionate e basate su dati ufficiali sull’attendibilità della “ricostruzione ufficiale” del Covid-19 che dall’inizio a oggi è stata e continua a essere fatta dal Giornalista Collettivo (qui e qui).

Si tratta di un paio di riflessioni equilibrate, condotte con competenza e metodo, che debbono fungere peraltro da meri esempi visto che, per l’appunto, si fondano su dati pubblici e istituzionali accessibili a tutti e rispetto ai quali il problema non è nemmeno posto dalla correttezza o meno dell’interpretazione che in tali critiche ne viene fatta, quanto dall’assordante e totale silenzio massmediatico che li riguarda, a definitiva riprova dell’obnubilazione de facto del pluralismo informativo.

Di contro, il risultato di una tale, gravissima, distorsione informativa è chiaro: l’assoggettamento della popolazione a uno stato di fatto mentale, in cui tutto è ridotto a pochi termini, tanto semplicistici quanto assoluti.

Il Covid è una malattia catastrofica, un assoluto epocale, per la quale non esistono valide cure e che quindi non si è potuto far altro che contenere con doverosi lockdown, mascherine, isolamento e didattica a distanza, nell’attesa della produzione dell’unico, vero rimedio, il vaccino (peraltro da declinare al plurale, perché le diverse tipologie di vaccini in produzione a oggi sono numerose), rispetto al quale, peraltro, naturalmente non è lecita alcuna seria riserva.

Insomma, sia chiaro, in discussione non è la malattia in quanto tale e chi nel periodo l’ha clinicamente affrontata (da sanitario e/o paziente) magari con risultati drammatici, quanto invece la narrazione “ufficiale” che di questa ha fatto il sistema informativo, quest’ultimo ormai ridotto da cane da guardia della democrazia contro il potere, secondo una nota definizione, a cane da pastore per il gregge del potere.

 

2. I (presunti) obblighi di garanzia del datore di lavoro

È in tale contesto generale che nelle ultime settimane diversi esperti di diritto sono intervenuti su vari temi, tra cui quello del mondo del lavoro.

Purtroppo mio malgrado ho dovuto constatare che in molti casi tali contributi si sono limitati ad avallare acriticamente la narrazione della bolla mediatica, facendo così anzitutto venire a mancare nella riflessione quelli che ritengo debbano essere gli apporti primari del pensiero giuridico, vale a dire una valutazione dei fatti fondata su proporzionalità e ragionevolezza. Criteri che, peraltro, fungerebbero da naturali antidoti alla vulgata pandemica e ai suoi slogan costituiti da ossimorici riduzionismi assolutistici.

I risultati a mio parere sono davvero sconfortati, giungendosi in situazioni estreme a prospettazioni giuridiche incomprensibili che non tengono conto del significato pacifico delle norme, a partire da quelle costituzionali.

In una precedente riflessione ho affrontato la questione della insussistenza, a legislazione vigente, di asseriti poteri del datore di lavoro di imposizione al lavoratore della vaccinazione anti-Covid, per immediato contrasto con i diritti costituzionali sanciti dall’articolo 32 della Carta.

Qualche considerazione la dedico ora a quelle tesi che, dal momento della legale dichiarazione di epidemia, si sono succedute per sostenere in rapporto alle misure anti-contagio da Covid l’assoggettamento di tutti i datori di lavoro al dovere di garanzia dell’articolo 2087 c.c. e agli obblighi di salute e sicurezza previsti dal Decreto Legislativo 81/2008 (Testo Unico per la sicurezza sul lavoro, abbreviato TUS).

La questione di per sé appare in realtà molto semplice: il Covid per la stragrande maggioranza delle aziende non rappresenta un rischio intrinseco all’attività lavorativa, nemmeno nella forma della mera connessione, essendo infatti un rischio generale sociale. E, pertanto, il pretendere di ricondurre la tutela anti-Covid nell’àmbito del TUS rappresenta un’evidente distorsione estensiva della norma frutto di scorretta esegesi.

I fautori di tale posizione individuano a proprio sostegno riferimenti testuali come quello offerto dall’articolo 28, comma 1 del TUS, il quale nell’indicare “l’oggetto della valutazione dei rischi” a cui è tenuto il datore di lavoro si riferisce semplicemente a “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari…”.

Per chi conosce un minimo la normativa in parola, tuttavia, è scontato come in questo caso l’aggettivo “tutti” non vada ovviamente interpretato in modo assoluto ma relativo ai soli rischi lavorativi.

Depongono in questo senso anzitutto ulteriori argomenti letterali desumibili dalle definizioni contenute nell’articolo 2 TUS con riferimento a:

lett. l), «servizio di prevenzione e protezione dai rischi»;

lett. m), «sorveglianza sanitaria»;

lett. n), «prevenzione»;

laddove in ciascuna di esse si specifica sempre che i rischi sono quelli “professionali”.

Concorre inoltre la stessa ratio legis del TUS, illuminata dalle ragioni storico-sociali alla base della sua adozione, vale a dire le Direttive comunitarie degli anni ‘89/’90 sulla prevenzione dei rischi professionali. Inizialmente recepite nell’Ordinamento interno con il Decreto Legislativo 626/1994, il loro principio ispiratore di fondo è quello per cui l’attore economico che trae utilità dall’utilizzo del lavoro altrui deve farsi carico dei rischi connessi all’attività lavorativa, anzitutto investendo costantemente in prevenzione una misura adeguata dei proventi ingenerati da tale utilità.

Infine, soccorre anche un’interpretazione costituzionalmente attenta a rispettare l’equilibrato contemperamento della libertà di intrapresa economica (articolo 41 Cost.) con il diritto alla salute (articolo 32), giacché il Diritto vive, per l’appunto, di ponderati equilibri e mai di decontestualizzati assoluti.

E così è lecito assoggettare l’imprenditore/datore di lavoro all’obbligo di garantire un adeguato sistema di salvaguardia della salute in azienda nei limiti in cui il rischio da prevenire sia effettivamente collegato e commisurato all’attività lavorativa svolta. Altrimenti il pericolo è quello di introdurre una forma tanto occulta quanto ingiusta di responsabilità oggettiva in danno all’impresa (la quale in sostanza si ritroverebbe a rispondere per il solo e semplice “sinistro”, di fatto assolvendo a una funzione di indennizzo assicurativo invece che di risarcimento datoriale).

Che non si possa ragionevolmente giungere a conclusioni diverse è confermato anche da chi svolge professionalmente l’incarico di RSPP, come ho avuto modo di apprezzare scorrendo i commenti di svariati tecnici al fondo di un articolo on-line in cui si sostiene la tesi qui contestata dell’applicabilità della normativa TUS alle misure anti-contagio.

Come si può apprezzare, sono numerosi gli interventi in totale disaccordo con tale prospettazione, motivati dalla constatazione che quello da contagio Covid nella generalità dei casi rappresenta un rischio generico sociale che, pertanto, a norma del TUS semplicemente esula dal novero dei “rischi specifici professionali” (derivanti cioè dalle particolari condizioni dell’attività lavorativa svolta e/o dell’apparato produttivo dell’azienda), non rilevando neppure nella residua forma del c.d. “rischio generico aggravato” (comune a tutti i cittadini ma che ha una maggiore probabilità di verificarsi o di produrre un maggior danno in ragione dell’attività lavorativa svolta).

Nemmeno penso si possa ritenere che le misure anti-contagio, una volta appurato che non rientrano nei rischi professionali rilevanti per il TUS, vadano ascritte ai doveri di tutela gravanti sul datore ex articolo 2087 c.c. (e di cui gli adempimenti del Decreto Legislativo 81/08 hanno natura di specificazioni tecnico-giuridiche).

E infatti, seppur la disposizione codicistica rappresenti una clausola generale di contenuto aperto ai progressi dell’esperienza e della tecnica e di automatica recezione alle misure in conseguenza individuate, resta il fatto che anche in tal caso ciò è valevole e resta circoscritto ai soli rischi lavorativi, ovvero che attengono (come scritto nella norma) all’esercizio dell’impresa.

Il Covid-19, lo si ribadisce, esula da tale tipologia di rischi perché il contagio di per sé non riguarda l’organizzazione lavorativa in quanto tale (salvo quanto si dirà oltre per particolari àmbiti), dato che il contesto aziendale viene in rilievo non tanto per l’attività ivi svolta quanto perché costituisce una mera occasione di aggregazione sociale (esattamente come ogni altro luogo di incontro tra persone).

E invero la malattia in parola rappresenta, dal punto di vista legale, un’emergenza sanitaria di carattere generale, a fronte della quale Governo e Enti istituzionali hanno dettato delle regole di precauzione valevoli per le organizzazioni lavorative al pari di ogni altro contesto di socializzazione (tra quelli di cui non sia stata disposta la chiusura). Ne consegue che lo spazio di naturale collocazione dogmatica di tali prescrizioni di salute pubblica andrà individuato, invece che nell’articolo 2087 c.c. o nel TUS, in quanto generalmente disposto dall’articolo 1374 c.c. (“Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge”) ovviamente per effetto di applicazione adeguatrice a un tipico contratto di durata qual è quello di lavoro.

C’è chi contesta la correttezza di tale ricostruzione affermando che l’articolo 42 del D.L. 18/2020 ha qualificato per Legge il rischio di infezione da Covid-19 come rischio da infortunio sul lavoro, per cui se ne dovrebbe conseguire quale necessario corollario la qualificazione di tale rischio come rischio professionale di cui il datore di lavoro debba rispondere ai sensi e per gli effetti del TUS.

L’obiezione tuttavia è palesemente errata, dato che l’iniziativa legislativa in questione è stata ispirata esclusivamente da finalità di assicurazione sociale, ovvero per ampliare la copertura INAIL a tutti i lavoratori che dovessero sfortunatamente contrarre il virus con decorso pregiudizievole. Ne esula completamente, pertanto, un’integrazione dei doveri di prevenzione del datore di lavoro, esattamente come non rientra tra essi il tradizionale danno in itinere.

E che la questione vada pacificamente inquadrata in tal modo risulta anche dalla Circolare INAIL n. 22 del 20 maggio 2020, con la quale l’Ente assistenziale ha specificamente chiarito che “la scelta operata con il citato articolo 42 è stata quella dell’esclusione totale di qualsiasi incidenza degli infortuni da COVID-19 in occasione di lavoro sulla misura del premio pagato dal singolo datore di lavoro, ciò in quanto tali eventi sono stati a priori ritenuti frutto di fattori di rischio non direttamente e pienamente controllabili dal datore di lavoro al pari degli infortuni in itinere.

 

3. Il problema del personale sanitario e RSA (e casi analoghi)

Discorso diverso deve essere fatto per tutti quei luoghi di lavoro nei quali, per il tipo di attività svolta, effettivamente si presenti uno specifico rischio professionale di infezione da agente biologico quali corsie ospedaliere e RSA (e attività equiparabili o analoghe).

In tali situazioni non v’è dubbio che trovino applicazione per il rischio da contagio le disposizioni del TUS (come sempre avvenuto anche prima del Covid), dovendo anzi la Valutazione del Rischio contemplare anche quella legata alla presenza, appunto, di agenti biologici, come previsto dalle disposizioni speciali contenute nel Titolo X “Esposizione ad agenti biologici”.

Altrettanto pacifico, tuttavia, che sulla base di tale presupposto non si può equiparare, come taluni fanno ostentando elevato sprezzo del ridicolo, la vaccinazione a ogni altro DPI al fine di invocarne l’obbligatorietà per i dipendenti.

L’idea è bizzarra non solo per basilari ragioni di buon senso (come già ho scritto, non appare ragionevole equiparare la somministrazione di un preparato medico potenzialmente foriero di rischi, per quanto ritenuti remoti, con ogni altro dispositivo di protezione, dato che guanti in lattice e occhiali di protezione non sono intrusivi rispetto alla dimensione biologica del corpo del lavoratore) ma anche perché contraddice apertamente la stessa definizione normativa di DPI (articolo 74 TUS: “Ai fini del presente decreto si intende per dispositivo di protezione individuale…qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro”).

Allo stesso modo non ha senso invocare il dovere previsto dall’articolo 20 TUS (“Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni…”) visto che è palese come la norma vada interpretata in modo armonico rispetto a un diritto costituzionalmente tutelato quale quello dell’articolo 32 Cost., il quale chiaramente pone come regola la libertà di scelta per i trattamenti sanitari, superabile esclusivamente per mezzo di Legge (la quale a sua volta non può in ogni caso oltrepassare i limiti imposti dal rispetto della persona umana).

C’è, infine, chi si basa su quanto previsto dall’articolo 279 TUS per sostenere comunque l’obbligatorietà della vaccinazione (previa valutazione del medico competente), ritenendo che al rifiuto del lavoratore in assenza di specifiche controindicazioni debba conseguire la dichiarazione di inidoneità con sospensione da lavoro e retribuzione (e comunque previa valutazione di mutamento di mansioni) se non, addirittura, il licenziamento per giustificato motivo (soggettivo o oggettivo, ancora se ne discute).

Tuttavia anche tale prospettazione appare pretestuosa per una serie di motivi.

Anzitutto per ragioni di sistema, in quanto surrettiziamente diretta a eludere la già menzionata riserva di Legge dell’articolo 32 Cost., dato che la Legge che andasse a imporre l’obbligo dovrebbe necessariamente essere specifica e non ridursi a una clausola di valenza generale.

Poi perché anche in questo caso viene direttamente contraddetta la lettera della norma, dato che il comma 2 alla lett. a) dell’articolo 279 TUS prevede come dovere eventuale del datore di lavoro (su conforme parere del M.C.) “la [mera] messa a disposizione di vaccini efficaci…”, per cui appare evidente come la stessa norma in tali specifiche ipotesi attribuisca al dipendete la facoltà di aderire o meno alla vaccinazione proposta.

L’invocare, poi, il giudizio di inidoneità ex articolo 41 TUS evocato dalla seguente lettera b), appare francamente animato più da un movente sanzionatorio che da effettive ragioni di prevenzione rispettose della ponderata applicazione dell’istituto in questione.

E infatti a tale imposizione si deve obiettare:

  1. repetita iuvant, introduce una surrettizia compromissione di un diritto costituzionalmente garantito, riducendo di fatto la vaccinazione a un trattamento medico che può essere imposto dal datore di lavoro
  2. si basa su un errore logico, in quanto equipara indebitamente la mancanza di vaccinazione immunizzante alla sussistenza di una controindicazione sanitaria (articolo 41, co. 2, lett. a) TUS), in tal modo equiparando lo stato di lavoratori perfettamente sani (ancorché non immunizzati) a quello di soggetti malati (ad esempio, gli immunodepressi), con l’ulteriore conseguenza di ridurre il rischio specifico oggetto della sorveglianza sanitaria a un mero rischio generico e astratto;
  3. ancora, introduce una vera e propria discriminazione tra lavoratori che fanno la scelta legittima di sottoporsi alla somministrazione vaccinale (magari cedendo a pressioni datoriali) e quelli che compiono l’altrettanto legittima scelta opposta. Discriminazione ingiusta e quindi illecita, perché attiene anzitutto a personali scelte lato sensu terapeutiche;
  4. infine, si basa su una decisione di riduzione del rischio che in fondo appare arbitraria e irragionevole se limitata al solo Covid e non a tutte le malattie infettive per le quali esiste il vaccino.

Tanto per intenderci, l’allegato XLVI al TUS riporta l’elenco degli agenti biologici classificati per categoria. Tra questi, sono 13 i batteri a oggi elencati per i quali è previsto un vaccino efficace disponibile e ben 25 sono i virus (tra cui il SARS-CoV-2 di recente introduzione).

Domando: perché a legislazione vigente si dovrebbe obbligatoriamente vaccinare per il Covid (che in una scala che va da 1, più basso, a 4, è stato qualificato al livello 3,) e non anche per tutti gli altri o, perlomeno, per quelli di gravità pari o superiore? Rilevo che i batteri Salmonella paratyphi A, B, C, ad esempio, sono di livello 2, mentre il Virus dell’epatite B e il Virus della sindrome di immunodeficienza umana (AIDS), sono anch’essi tra quelli classificati a livello 3.

Già preciso che di tutte queste obiezioni quest’ultima è quella che meno preferisco in quanto, seppur presenti la sua dignità argomentativa, so bene che si presta a essere capovolta dagli assolutisti della vaccinazione che ben vedrebbero con favore l’imposizione dell’obbligo per ogni e qualsivoglia malattia possibile.

Quanto fin qui scritto solo per restare sul piano dei principi giuridici e delle disposizioni di Legge vigenti e dimostrare come l’ideologia pandemico-vaccinista naturalmente conduca (sebbene a volte in perfetta buona fede) anche a stravolgere e distorcere senso e contenuto di norme che, sebbene scritte poco più di dieci anni fa, incredibilmente si rivelano oggi ancora ispirate a quei valori autenticamente democratici e umani che nel momento attuale rischiamo di perdere rapidamente.

È abbastanza chiaro peraltro come una simile involuzione, mossa a monte da istanze più politiche che giuridiche, conduca al pericolo di convincere i responsabili di aziende e cooperative della necessità e opportunità di minacciare, vessare e discriminare i lavoratori che abbiano una legittima posizione di esitazione vaccinale, col rischio di ingenerare sofferenze e danni da stress-lavoro correlato e così ledere quella stessa salute che si intendeva proteggere con la vaccinazione. La perfetta e paradossale eterogenesi dei fini.

Ma stiamo comunque ancora solo parlando della punta dell’iceberg della questione, considerati gli attuali problemi di incertezza relativi a efficacia e sicurezza dei vaccini anti-Covid dichiarati dalle stesse aziende produttrici, che per ragioni di spazio non possono essere ora ripresi. Tornerò comunque sull’argomento, in un prossimo scritto dedicato all’altra questione di grande attualità, ovvero il secondo braccio del movimento a tenaglia fatto contemporaneamente scattare dalla Bolla massmediatica: oltre a intimorire i sanitari e dipendenti di RSA perché si vaccinino, infatti, il manistream sta dando ampio risalto a dichiarazioni di medici superstar della televisione e Ordini professionali che invocano la radiazione dei colleghi sanitari che osino esprimere dubbi circa correttezza e opportunità di come si sta procedendo, in una riedizione ampliata e perfezionata di quanto già vissuto nel 2017.

Tornando alla conclusione di questa riflessione, contrariamente alle volontà del Giornalista Collettivo sta emergendo sempre più chiaramente come sia stato un madornale errore l’aver politicamente trattato il Covid come un male assoluto, ovvero in modo decontestualizzato e senza criteri di proporzione, dato che il conto dei giganteschi costi sociali, economici e anche sanitari sta iniziando a presentarsi nella sua interezza. Allo stesso modo assolutizzare anche uno degli strumenti che auspicabilmente dovrebbe aiutarci a sconfiggere definitivamente la malattia, finendo per sacrificare sull’altare della sua obbligatorietà ogni altra ragionevole considerazione sanitaria e giuridica, rischia di aggiungere a quelli già sofferti ulteriori danni in termini di vita sociale e civile, nonché di salute.

Per fortuna un’importante e autorevole istituzione come l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa si è da pochissimo espressa con un’articolata risoluzione in cui, in modo equilibrato, oltre a riconoscere i vaccini come un bene pubblico globale, ne scongiura in ogni caso l’obbligatorietà in quanto lesiva degli intangibili diritti umani (Giornalista Collettivo, te ne sei accorto?).

È tuttavia essenziale comprendere che tutti gli aspetti di una situazione così delicata come quella che stiamo socialmente vivendo (malattia, sua diffusione; danni che ha prodotto e anche quelli derivati dalle sciagurate politiche per contrastarla; mezzi di prevenzione) non possono essere affrontati ragionando per inaccettabili assoluti. Procedere in questo modo, infatti, conduce a leggere la realtà in modo contrario a verità e, quindi, a risultati sostanzialmente controproducenti.

 

[1] La citazione è tratta dal film «Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith».

In lingua originale la frase è la seguente “Only a Sith deals in absolutes”.

Dato che ritengo la versione italiana (“Solo un Sith vive di assoluti”) fuorviante sul piano etico/esistenziale, ho personalmente preferito tradurla come riportato nell’apoftegma sopra formulato.