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Rifiuto del vaccino: licenziamento del dipendente?

Primavera
Ph. Stefania Fiorenza / Primavera

Desidero condividere una riflessione sulle sconcertanti affermazioni che con sempre maggiore frequenza pongono in contrapposizione le misure sanitarie da alcuni ritenute di necessaria adozione con il rispetto dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione, proponendo la prevalenza delle prime a discapito dei secondi.

Si veda ad esempio la presa di posizione del famoso virologo Burioni che su Twitter, in risposta alle obiezioni di altri utenti circa l’incostituzionalità di condizionare fondamentali diritti come quello di voto o di cura alla vaccinazione, ha scritto tranchantIl coronavirus, della Costituzione scritta bene, se ne frega altamente”.

Mi preoccupa, poi, che alla voce dei vari medici, giornalisti, attori e cantanti del main stream compattamente riuniti sotto la monolitica convinzione dell’imposizione vaccinale a qualsiasi costo, con una certa sorpresa si stiano rapidamente aggiungendo anche quelle di vari e insigni giuristi.

Il Prof. Pietro Ichino ad esempio, eminente giuslavorista autore di numerose pubblicazioni su diverse delle quali mi sono personalmente ritrovato a studiare ai tempi dell’Università, a fine dicembre (per la precisione il 29, ovvero il giorno successivo al sopra riportato tweet di Burioni), in una nota intervista ha affermato senza mezzi termini il diritto/dovere del datore di lavoro di licenziare il dipendente che rifiuti la vaccinazione anti-Covid.

Il concetto è stato poi ripreso e sviluppato pochi giorni dopo dallo stesso Professore in un approfondito scritto pubblicato nel suo blog personale. Data la lunghezza dello scritto, mi limito qui a riferirmi alle parti che mi hanno particolarmente colpito e, confesso, inquietato.

Anzitutto il Professore fonda la propria tesi della licenziabilità del lavoratore obiettore vaccinale (o, quantomeno, della sua sospensione per inidoneità) su una presunta situazione epidemiologica che non tiene conto dell’ampio dibattito in corso nel mondo scientifico tanto in relazione alla malattia che alle vaccinazioni che dovrebbero debellarla. Una narrazione, a dire il vero, aderente a quanto costantemente veicolato dai media main stream, a sentire i quali il Covid colpirebbe in egual modo e misura tutta la popolazione e non vi sarebbero alternative ai lockdown governativi se non, appunto, la vaccinazione.

E invece, come risulta da più fonti estranee al main stream, tutti i punti di tale semplicistica versione risultano contestati da una parte rilevante della comunità medico-scientifica.

Per quanto riguarda l’epidemia in sé considerata il Dott. Gulisano su la Nuova Bussola Quotidiana ci ha ricordato che i proponenti la Dichiarazione di Great Barrington hanno contestato le politiche di lockdown indicando in alternativa una strategia di Protezione Focalizzata (Focused Protection) basata sul presupposto che dal punto di vista epidemiologico la maggior parte delle persone, e quindi dei lavoratori, rientrano nella categoria a basso rischio e quindi potrebbero “vivere normalmente la loro vita e costruire l’immunità al virus attraverso l’infezione naturale, proteggendo al meglio coloro che sono a più alto rischio”.

Sul versante vaccinazione, invece, in questa fase non si possono dare per scontate (come ho l’impressione riferisca il Prof. Ichino) né l’efficacia né la sicurezza dei prodotti vaccinali appena resi disponibili, dato che la stessa immissione in commercio ha ricevuto un’autorizzazione condizionata all’effettuazione di ulteriori studi con scadenza programmata tra 2 anni. Ciò senza contare che in diversi stanno esprimendo dubbi di efficacia, come ad esempio Peter Doshi del BMJ o la Fondazione GIMBE (da sempre favorevole alle politiche di lockdown rigoroso) che tramite il proprio Presidente parla di “incognite legate all’efficacia del vaccino soprattutto in termini di riduzione dei quadri severi di malattia e di trasmissione del virus”.

Premessi questi distinguo, sul piano prettamente giuridico il ragionamento del Prof. Ichino, ricondotto a estrema sintesi e con le approssimazioni del caso, è il seguente: seppur l’articolo 32 della Costituzione riconosce alla sola Legge la prerogativa di imporre trattamenti sanitari quale sarebbe la vaccinazione obbligatoria, il datore di lavoro in quanto a capo dell’impresa è comunque tenuto all’obbligo di garanzia stabilito dall’articolo 2087 del Codice Civile. Quest’ultima è una norma, come si suol dire, a contenuto aperto e non precostituito, in quanto sancisce in generale il dovere del datore di lavoro di adottare tutte le misure che, secondo l’esperienza e la tecnica, si rivelano di volta in volta necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro.

Data la situazione in essere, prosegue il Professore, il vaccino rappresenta l’unico strumento in grado, in base alla scienza, di garantire il più possibile dall’infezione Covid sui luoghi di lavoro, per cui i datori di lavoro sarebbero tenuti, in base a questo ragionamento, a richiedere la vaccinazione ai propri subordinati e altresì a estromettere dal contesto lavorativo (tramite licenziamento o sospensione per inidoneità) coloro tra questi che si rifiutassero senza un comprovato impedimento personale di natura medico-sanitaria. Ai lavoratori, scrive inoltre Ichino, sarebbe preclusa l’obiezione alla vaccinazione basata sulla preoccupazione per possibili effetti indesiderati, così come non è loro concesso di sindacare sull’adottabilità o meno di tutti gli altri dispositivi di sicurezza.

Senonché in aggiunta a quanto sopra detto circa la contingente inesistenza di un consenso scientifico sull’efficacia degli attuali vaccini a scongiurare infezione e trasmissione del virus, mi viene immediatamente da obiettare che non appare ragionevole equiparare la somministrazione di un preparato medico potenzialmente foriero di rischi, per quanto ritenuti remoti, con ogni altro dispositivo di protezione, dato che scarpe antinfortunistiche e maschere per saldatura non sono intrusive rispetto alla dimensione biologica del corpo del lavoratore.

Risalendo, poi, al piano di principio, mi pare che il ragionamento sia scorretto perché capovolge il giusto rapporto dei termini in questione: non è che l’articolo 2087 Codice Civile imponga e legittimi il datore di lavoro ad adottare tout court tutti i ritrovati della scienza e della tecnica (ammessa e non concessa la loro utilità e necessità), ma solo quelli compatibili con i limiti imposti proprio dalla Costituzione, che è norma di rango superiore. Per cui se l’articolo 32 della Carta pone la riserva di Legge per i trattamenti sanitari obbligatori (peraltro comunque con l’invalicabile limite del rispetto della persona umana), non appare ammissibile cercare di “eludere” l’ostacolo per altra via.

D’altra parte mi sembrano diversi in questo periodo a proporre ragionamenti analoghi a quelli del Professore, da un lato riconoscendo che l’articolo 32 impedisce di obbligare alla vaccinazione ma nel contempo proponendo di vietare agli obiettori vaccinali l’accesso a luoghi pubblici, mezzi di trasporto o altre attività essenziali come, appunto, quella lavorativa. Senonché anche queste seconde sono espressione di diritti fondamentali costituzionalmente tutelati, per cui risulta contraddittorio oltre che paradossale riconoscere la possibilità di esercitare un diritto costituzionale a patto di sacrificare completamente gli altri.

Tuttavia è forse sulla base di questa logica che il Prof. Ichino conclude la sua riflessione con la considerazione che di tutto il discorso più mi ha impressionato e che merita di essere riportata letteralmente: “…questo modo di interpretare e applicare l’articolo 32 Cost. in riferimento all’obbligo di vaccinazione contro il Covid-19 mi sembra il solo che possa logicamente conciliarsi con il modo in cui la stessa norma costituzionale è stata pacificamente interpretata e applicata nell’arco di tutto l’ultimo anno e fino a oggi. In funzione del contrasto alla pandemia, nel corso del 2020, abbiamo sopportato a più riprese senza colpo ferire una sorta di “trattamento sanitario obbligatorio” che ha comportato una limitazione dei nostri diritti costituzionali di libera circolazione, di associazione, di manifestazione del pensiero, e altri ancora, in una misura senza precedenti nella storia del Paese; tutto ciò non per legge, ma per disposizione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Abbiamo accettato questo vero e proprio cataclisma giuridico-costituzionale perché ci siamo resi conto che era un modo ragionevole, in quanto proporzionato all’enormità della minaccia a cui la collettività era esposta, per far fronte a quella minaccia. Così stando le cose, come si può ragionevolmente considerare illegittimo (addirittura contrario alla Costituzione) il comportamento di un datore di lavoro che, nell’esercizio di un potere/dovere attribuitogli dal contratto, recepisce le indicazioni provenienti dalla comunità scientifica circa l’utilità della vaccinazione come misura di protezione individuale e collettiva nell’azienda, richiedendo ai propri dipendenti di sottoporvisi?”.

Sono parole che mi lasciano particolarmente perplesso.

Anzitutto anche in questo caso devo dissentire dalla narrazione del Professore, dato che in questi mesi sono varie e autorevoli le voci di medici e giuristi che si sono levate contro la legittimità costituzionale delle norme adottate, DPCM compresi (ricordo gli interventi dell’AMPAS, del Comitato Rodotà e della Camera Penale di Trieste, solo per citarne alcuni), ovviamente nel quasi più totale silenzio dei soliti media main stream. Per cui non credo proprio esistano tutto questo consenso e accettazione sulla costituzionalità delle politiche di gestione del Covid.

Ma ciò che ancor più mi sconcerta è che mi pare come il Professore sostenga dal punto di vista giuridico la legittimità di una sorta di interpretazione abrogatrice del dettato costituzionale, a fronte di una pur grave situazione emergenziale (a mio avviso tutta ancora da comprendere nelle sue proporzioni e cause effettive).

Una simile presa di posizione, tuttavia, credo contrasti apertamente con le ragioni storiche e giuridiche che hanno portato all’affermazione nelle democrazie liberali proprio delle Costituzioni così dette rigide (come la nostra), le quali per assicurare l’effettiva garanzia dei diritti inviolabili in esse sancite a fronte di contingenti momenti di crisi (è nell’emergenza, infatti, che sempre si è cercato di comprimere i diritti fondamentali) hanno posto quale limite invalicabile quello di particolari procedure di revisione costituzionale (nel nostro caso l’articolo 138 Cost., il quale non è comunque utilizzabile per cambiare l’irriformabile Prima parte della Carta che contempla, appunto, i diritti fondamentali).

Concludo con una riflessione personale di carattere generale. In questi mesi di Covid-19 si è rafforzata in me la sensazione che tra le tante problematiche connesse ci stia anche iniziando a sfuggire il senso della nostra storia e dei fondamenti etico-giuridici che da essa derivano. Per ripartire veramente è necessario recuperarne a pieno il senso e non, invece, seguire l’apparentemente più facile deriva di considerare una Costituzione di tipo personalistico com’è quella italiana uno scomodo ostacolo al bene nostro e della collettività.