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Velo islamico: è maltrattamento imporlo alla moglie che vive “all’occidentale”

Lo straniero imputato di un delitto contro la persona o la famiglia non può invocare le differenze culturali e religiose per scriminare comportamenti che siano incompatibili con il diritto italiano
velo islamico
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Velo islamico: è maltrattamento imporlo alla moglie che vive “all’occidentale”


Con la sentenza n. 531 del 23 febbraio 2022 il Tribunale di Lecce si è espresso in materia di reati contro la persona e possibile riconoscimento delle c.d. scriminanti culturali, ritenendo sussistente la responsabilità di un soggetto di origini marocchine per il reato di maltrattamenti in ragione delle plurime condotte vessatorie, violente e aggressive tenute nei confronti della compagna, anch’ella di origine marocchine ma nata e cresciuta in Italia, desiderosa di vivere secondo i costumi della cultura occidentale, negando così il riconoscimento di scriminanti legate all’esercizio di un diritto correlato a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza.

Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto che i ripetuti episodi di violenze fisiche, psicologiche e verbali, perpetrate anche con l’uso di armi, sia all’interno che all’esterno delle mura domestiche e anche in presenza di altri soggetti avessero integrato il reato di maltrattamenti di cui all’articolo 572 Codice Penale, reato abituale e a dolo generico, aggravato dal fatto che la vittima era in stato di gravidanza, con conseguente condanna dello stesso a cinque anni di reclusione e al risarcimento dei danni cagionati alla compagna, persona offesa costituitasi parte civile nel procedimento penale, quantificati in misura pari a 50.000 euro, in ragione della gravità dei fatti e delle sofferenze procurate.

In particolare, il Tribunale di Lecce ha affermato che lo straniero imputato di un delitto contro la persona o la famiglia non può invocare le differenze culturali e religiose per scriminare comportamenti che siano incompatibili con il diritto italiano in quanto ha scelto di vivere in un ordinamento in cui assume centrale importanza il rispetto della vita e della dignità umana, che è anche alla base della costituzione di una società civile multietnica.

Pertanto, si legge in sentenza, “il reato in esame non può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, per ciò, particolari potestà quale capo del proprio nucleo familiare, in quanto trattasi di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali”.

Oltre a soffermarsi sulla caratterizzazione della donna vittima delle violenze oggetto di contestazione (“ha riferito di essere cittadina italiana, figlia di marocchini emigrati ed è comparsa vestita in pantaloncini con i capelli sciolti, mentre la madre portava il velo sulla testa. Aveva studiato in Italia ed era stata educata secondo i principi democratici del paese ospitante, che ormai è il suo Paese, coniugando la fede islamica della famiglia con la cultura occidentale in un equilibrio fatto di dignità e rispetto dell’altro, aiutata da genitori saggi e avveduti”), la motivazione si concentra sui comportamenti tenuti dall’imputato.

In particolare, il Tribunale afferma che: “l’imposizione del velo islamico ad una sposa nata e cresciuta in un Paese democratico è maltrattamento; strattonare la donna per strada, colpirla con calci e pugni fuori e dentro l’abitazione, umiliarla calpestando le patatine comprate è maltrattamento; tentare di colpirla con il pugnale è maltrattamento”. Più in generale, “ogni condotta di predominio violento, fisico e morale sulla propria moglie, persona libera e uguale nel diritto italiano, costituisce reato indipendentemente da quale sia il credo personale o religioso del marito”.

A nulla vale invocare la scriminante dell’esercizio di un diritto correlato a facoltà riconosciute (o anche solo tollerate) dall’ordinamento di provenienza (c.d. scriminanti culturali) in quanto “chi trasferisce la propria residenza in un Paese estero con pretese di cittadinanza, magari per affrancarsi da condizioni originarie di povertà e persecuzione, deve sapere che dovrà rispettare la legge del popolo di arrivo e non potrà in nessun modo ipotizzare di comportarsi come le leggi o gli usi e le consuetudini dello Stato di origine consentivano, tantomeno per ragioni religiose in un luogo dove è riconosciuta la libertà di culto”.

Per queste ragioni, il Tribunale Leccese, valutati i criteri di cui all’articolo 133 Codice Penale e in particolare l’intensità del dolo (“l’intensità del dolo che ha sorretto la condotta è notevole, avendo il prevenuto per un notevole lasso di tempo vessato la vittima sia sul piano psichico che su quello fisico in modo spregevole, anche mentre attendeva suo figlio”) ha comminato la pena nella misura di cui sopra, negando il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per l’assenza di elementi positivi valutabili a tal fine.

Con la sentenza in esame, il Tribunale di Lecce mostra di aderire ad un orientamento giurisprudenziale ormai dominante in materia di scriminanti culturali, in base al quale “in tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare – in linea con l’articolo 3 Cost. – la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica” (ex plurimis, Cass. n. 8986/2020, Cass. n. 14960/2015).