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Art. 572 - Maltrattamenti contro familiari e conviventi (1)

1. Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni (2).

[2. La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di persona minore degli anni quattordici] (3).

2. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi (4)

3. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

4. Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato. (4).

 

(1) Articolo così sostituito dalla lettera d) del comma 1 dell’art. 4, L. 172/2012.

(2) L’attuale trattamento edittale è stato introdotto dall’art. 9 della Legge N. 69/2019. Il precedente era da due a sei anni di reclusione.

(3) Comma abrogato dall’art. 1, comma 1-bis, DL 93/2013 convertito in L. 119/2013.

(4) Comma aggiunto dall’art. 9 della Legge N. 69/2019.

Rassegna di giurisprudenza

L’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia è costituito dal compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (Sez. 3, 6724/2018).

Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572, deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza neppure la necessità della convivenza e della coabitazione. È infatti sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali (Sez. 6, 31121/2014).

Integrano il reato di maltrattamenti in danno di una persona non solo fatti commissivi sistematicamente lesivi della sua personalità, ma anche condotte omissive connotate da una deliberata indifferenza e trascuratezza verso i suoi elementari bisogni affettivi ed esistenziali (Sez. 6, 9724/2013).

Il reato di cui all’art. 572 consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo (Sez. 1, 206/2018).

Non può configurarsi l’ipotesi aggravata di cui all’art. 572, secondo comma, ma va invece ritenuta quella di omicidio volontario di cui all’art. 575, quando la morte della vittima, sottoposta a continui maltrattamenti, sia oggetto della sfera rappresentativa e volitiva dell’agente, oltre ad essere causalmente collegata alla condotta da questi posta in essere, rappresentando l’azione consapevolmente e volontariamente indirizzata anche alla morte della vittima un salto qualitativo rispetto ai comportamenti di prevaricazione e violenza in ambito familiare, posti in essere fino a quel momento (Sez. 1, 21329/2008).

Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i delitti di percosse e minacce anche gravi, ma non quelli di lesioni, danneggiamento ed estorsione, attesa la diversa obiettività giuridica dei reati (Sez. 2, 15571/2012).

Il reato di maltrattamenti (che é, notoriamente, a forma libera) si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo; e si perfeziona allorché si realizza un minimo di tali condotte (delittuose o meno) collegate da un nesso di abitualità (Sez. 6, 43221/2013).

La fattispecie di cui all’art. 572 è pacificamente considerata un reato a condotta plurima o abituale, nel quale l’elemento materiale si concreta in una serie di fatti lesivi: ciascuna delle singole azioni rappresenta quindi un elemento della serie, al realizzarsi della quale sorge la condotta tipica. Ai fini della consumazione del reato si è affermato pertanto che il suddetto delitto si perfeziona allorché si realizza un minimo di tali condotte (delittuose o meno) collegate da un nesso di abitualità, ovvero nel momento in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti. Ciò non elimina tuttavia la struttura persistente e continuativa del reato, dotata, ad ogni effetto giuridico-penale, di natura omogenea ed unitaria: con la conseguenza che ogni successiva condotta di maltrattamenti compiuta dallo autore si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario. Invero si è sostenuto che fintanto la serie di atti delittuosi non abbia termine deve essere ravvisata l’unitarietà della condotta penalmente rilevante. In tale prospettiva, si è anche affermato in tema di prescrizione che il reato in esame, «reato di durata», mutua la disciplina della prescrizione da quella prevista per i reati permanenti: con la conseguenza che per esso il decorso del termine di prescrizione avviene dal giorno dell’ultima condotta tenuta, la quale chiude il periodo consumativo iniziatosi con la condotta che, insieme alle precedenti, forma la serie minima di rilevanza (Sez. 6, 52900/2016).

È configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (Sez. 2, 30934/2015).

Il reato di maltrattamenti persiste anche in caso di separazione legale tenuto conto del fatto che tale stato, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie in questione, la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque dipendente (Sez. 6, 282/1998).

Il consorzio familiare, inteso come nucleo di persone legate da relazioni di reciproco rispetto ed assistenza, sopravviva alla cessazione della convivenza e, financo, alla separazione. Tale interpretazione resiste alla novella che ha interessato l’art. 612-bis che, nel prevedere una forma aggravata del reato di atti persecutori ove questi siano rivolti nei confronti del coniuge separato, genera un concorso apparente di norme con il reato previsto dall’art. 572 ogni volta che, come nel caso di specie, gli atti di maltrattamento sono rivolti nei confronti del coniuge separato; conflitto da risolversi facendo ricorso al principio di specialità espressamente richiamato dalla clausola di sussidiarietà contenuta nell’incipit dell’art. 612-bis (Sez. 2, 39337/2016).Non è configurabile il rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di sequestro di persona, giacché si tratta di figure di reato dirette a tutelare beni diversi e poi, l’uno, è integrato dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico-fisici ai danni di persone di famiglia o conviventi e, l’altro, da quella di privare taluno della libertà personale. Il disvalore penale dell’art. 572 è ravvisato nella reiterata aggressione all’altrui personalità, che subisce gli effetti negativi di un regime di vita in cui le sofferenze, i triboli, le lesioni dell’integrità fisica o psichica debbono essere ripercossi sulla personalità della vittima, incidendo negativamente sui valori fondamentali propri della dignità e della condizione umana. Il dolo di questo reato è unitario e programmatico, nel senso che funge da elemento unificatore della pluralità dei vari atti lesivi della personalità della vittima e si concretizza nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va, via via, realizzando o confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in un’attività illecita, posta in essere già altre volte. Diversamente, per la realizzazione del reato di sequestro di persona, non occorre che la privazione della libertà sia attuata in modo da rendere assolutamente impossibile il recupero della libertà della vittima mediante autoliberazione: è sufficiente invero, che il soggetto passivo, non possa, anche in considerazione delle sue limitate capacità di reazione, superare con immediatezza, da sè medesimo, l’ostacolo posto alla sua libertà di movimento (Sez. 1, 206/2018).

La diagnosi differenziale tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di estorsione deve essere effettuata sulla base della valutazione della direzione soggettiva della minaccia e della violenza; queste nel delitto di maltrattamenti sono funzionali alla prostrazione psicologica e fisica della vittima, mentre nel delitto di estorsione sono dirette all’abbattimento delle sue facoltà volitive, e dunque alla costrizione della stessa per ottenere un profitto ingiusto, con altrui danno. Peraltro il reato di maltrattamenti in famiglia si connota per la serialità delle condotte aggressive, che non è elemento costitutivo del delitto di estorsione, e si perfeziona con l’ottenimento di un profitto ingiusto da parte dell’autore del reato (Sez. 2, 40257/2017).

Il reato di lesioni non può essere mai assorbito dal delitto di cui all’art. 572, ed infatti la diversa obiettività giuridica dei reati fonda la ragione per la quale il delitto di lesioni personali può solo concorrere con quello di maltrattamenti in famiglia, ma non può mai ritenersi assorbito da esso (Sez. 2, 15571/2013).

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p., l’esistenza in una casa di cura e ricovero per anziani di un generalizzato clima di sopraffazione e violenza nei confronti degli assistiti non esime dalla rigorosa individuazione dei distinti autori delle varie condotte, in quanto il carattere personale della responsabilità penale impedisce che il singolo addetto, in mancanza di addebiti puntuali che lo riguardano, possa essere chiamato a rispondere, sia pure in forma concorsuale, del contesto in sé considerato, anche nel caso in cui da tale contesto egli tragga vantaggio (Sez. 6, 43649/2019).

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto "mobbing") possono giungere ad integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia laddove il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto tale caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Sez. 6, 13428/2021).

Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto attivo si trovi in una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura parafamiliare (Sez. 6, 24642/2014).

L’art. 408, comma 3-bis CPP dispone che “per i delitti commessi con violenza alla persona, l’avviso della richiesta di archiviazione è in ogni caso notificato, a cura del pubblico ministero, alla persona offesa”.

La norma in esame fa riferimento ai soli delitti dolosi: detta interpretazione restrittiva è avallata dalle Sezioni unite, che hanno chiarito come la disposizione in esame si applichi anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572, in quanto l’espressione “violenza alla persona” deve essere intesa alla luce del concetto di “violenza di genere”, risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario (SU, 10959/2016). Deve dunque trattarsi di fatti reato che si siano manifestati, in concreto, con atti intenzionali di violenza verso la persona, sia essa fisica, sia morale o psicologica (Sez. 2, 30302/2016), restando certamente esclusi i delitti di natura colposa, per loro natura non intenzionali (Sez. 4, 23137/2017).