Verità e giustizia (ancora sfuggenti, ma ora più che mai necessarie) per Giulio Regeni: prospettive di diritto internazionale
Abstract
Sei anni or sono dal tragico ritrovamento del corpo senza vita di Giulio Regeni in terra egiziana, la sua scomparsa rimane ancora un caso irrisolto. Invero, l’attività investigativa prontamente avviata dalla Procura della Repubblica di Roma, pur avendo recentemente richiesto un formale rinvio a giudizio per quattro agenti dei servizi segreti egiziani, è stata a lungo caratterizzata da difficoltà ed inesattezze. Allo stato, permangono ancora significative lacune relativamente all’identificazione degli esecutori materiale dei crimini, nonché sull’esistenza di un eventuale coinvolgimento di organi apicali de Il Cairo: aspetti, questi, sui quali soltanto l’instaurazione di una leale e piena collaborazione tra i due Stati è in grado di gettar luce. Il presente contributo intende offrire una panoramica circa gli strumenti di diritto internazionale applicabili alla vicenda, al fine di valutare se ed in quale misura l’Italia, congiuntamente ai familiari di Giulio, possa intraprendere azioni legali avverso l’Egitto, non senza prima aver accertato la responsabilità di quest’ultimo per aver commesso uno o più illeciti. Nello specifico, verrà operato un riferimento alle norme di diritto consuetudinario contenute nella Convenzione contro la tortura ed altri trattamenti inumani o degradanti approvata dalle Nazioni Unite nel 1984, nonché ai principi esistenti in materia di protezione diplomatica e trattamento degli stranieri.
In search of truth and justice for Giulio Regeni: international law perspectives.
The last 25th January 2021 marked six years since Giulio Regeni, a PhD student at the University of Cambridge, was found dead in Egypt, where he was conducting his research activities. Whilst the Public Prosecutor’s Office in Rome had promptly initiated its investigation, thus recently identifying four of the alleged perpetrators, the cooperation between the two States needs to be further enhanced, as much remains to be clarified, As a consequence of that, the present contribution is aimed at assessing, from the point of view of international law, some of the main legal questions emerging from the kidnapping, torture and death of Giulio, as well as the eventual involvement (both direct and indirect) of Egypt in the aforementioned wrongful acts. In order to do so, attention would be firstly dedicated at outlining both regimes of international law applicable to the case under consideration: that is to say, the 1984 UN Convention Against Torture, on one hand, and the general principles concerning diplomatic protection and the treatment of aliens, on the other hand. In addition, light will be casted on actions that Italy can consider to promote in order to enforce Egypt’s compliance with international obligations, not without finally assessing remedies in favour of Giulio’s relatives.
1. Introduzione
Vi sono nomi destinati a rimanere impressi a lungo nella coscienza sociale degli ordinari fruitori di notizie, catalizzando l’attenzione dei media. Quello di Giulio Regeni, dottorando di ricerca scomparso e successivamente torturato a morte in Egitto, è divenuto tristemente noto ai più, anche e soprattutto grazie agli oramai inconfondibili striscioni gialli che campeggiano nelle principali piazze italiane, la cui affissione è stata promossa da Amnesty International Italia con l’intento di ricordare che, a distanza di sei anni dall’accaduto, la verità non è ancora stata stabilita.
Il clamore mediatico giustamente suscitato dall’accaduto fa da contraltare al silenzio assordante serbato, almeno tendenzialmente, dalle autorità de Il Cairo, città in cui Giulio si trovava per svolgere la sua attività di ricerca e da cui, alle 19.41 del 25 gennaio 2016, scomparve in circostanze misteriose, facendo perdere le proprie tracce. Del giovane non si saprà più nulla fino al 3 febbraio, quando il suo corpo venne rinvenuto privo di vita e con evidenti segni di tortura. Tale drammatico ritrovamento diede inizio ad un estenuante braccio di ferro diplomatico tra Italia ed Egitto, ad oggi ancora in corso e caratterizzato da deboli luci e tante, ancora troppe, ombre.
Senza voler entrare nel merito di tale intricata vicenda, ed accantonando qualsivoglia giudizio circa l’effettività della cooperazione instaurata tra le autorità de Il Cairo e il Governo italiano, occorre verificare se ed in quale misura lo Stato egiziano debba essere ritenuto responsabile di un illecito internazionale.
In un primo momento, verrà operata una ricognizione della normativa di diritto internazionale applicabile alla vicenda in esame. Successivamente, si illustreranno i rimedi, tanto diplomatici (e dunque pacifici) quanto giudiziari, che lo Stato italiano può valutare di intraprendere nei confronti della controparte egiziana, nonché le azioni eventualmente esperibili dai familiari della vittima.
2. Fattispecie di illecito internazionale ascrivibili all’Egitto alla luce del quadro normativo rilevante
Anzitutto, si osserva come due sono gli apparati normativi di diritto internazionale suscettibili di trovare concreta applicazione nella vicenda in commento.
In primo luogo, vengono in rilievo le norme tradizionali che disciplinano il trattamento degli stranieri. Trattasi di disposizioni che rinvengono la propria ratio ispiratrice nell’esigenza di evitare che uno straniero che si trovi nel territorio di un determinato Stato, benché vincolato alla potestà legislativa e alla sovranità di quest’ultimo, sia sottoposto a trattamenti arbitrari suscettibili di compromettere seriamente l’integrità materiale e psico-fisica.
Nell’ipotesi in cui sia riscontrato un diniego di giustizia ai danni dello straniero, lo Stato di nazionalità di quest’ultimo può agire in protezione diplomatica, da attuarsi mediante strumenti giurisdizionali ovvero quasi-giurisdizionali, questi ultimi implicanti il ricorso a negoziati pacifici.
Parimenti significative sono le regole consuetudinarie codificate all’interno della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altri trattamenti inumani o degradanti (di seguito, CAT), siglata nel 1984 e rispetto alla quale sia l’Italia che l’Egitto sono parti contraenti, essendo vincolati al rispetto delle disposizioni ivi contenute, generalmente finalizzate a scongiurare l’impunità di quanti si rendano responsabili di tali crimini internazionali.
La Convenzione non si limita ad imporre un ‘mero’ (per quanto di assoluta rilevanza) divieto di commettere atti di tortura: al contrario, essa prevede altresì una serie di obblighi ulteriori. Questi ultimi possono avere carattere prodromico, volti a prevenire che simili condotte si realizzino nell’ambito della giurisdizione territoriale degli Stati parte: invero, essi sono chiamati a dotarsi di un adeguato apparato legislativo ed amministrativo che consenta loro di adottare tutte le misure necessarie ad impedire, e naturalmente scoraggiare determinate condotte da parte dei propri cittadini (articolo 2 CAT).
D’altro canto, sono altresì contemplati obblighi repressivi, che esigono l’esperimento di molteplici azioni volte ad indagare e reprimere eventuali violazioni. A tal proposito, viene in rilievo l’obbligo di procedere all’immediata instaurazione di un’inchiesta effettiva ed imparziale ogniqualvolta vi sia ragione di credere che un atto di tortura sia stato commesso (articolo 12 CAT), nonché l’impegno degli Stati parte a fornire reciproca cooperazione ed assistenza giudiziaria, ivi compresa la comunicazione di tutti gli elementi di prova utili a favorire l’avvio di procedimenti penali a carico dei responsabili (articolo 9 CAT).
Benché al cospetto di circostanze fattuali alquanto nebulose, che consentono di operare valutazioni di mera plausibilità e non di certezza, la dottrina pressoché unanime ravvisa l’esistenza di un illecito internazionale commesso dall’Egitto, per aver manifestamente violato la normativa di riferimento in materia di tortura ed altri trattamenti inumani, da un lato, nonché di protezione diplomatica, dall’altro.
Gli organi de Il Cairo potrebbero essere ritenuti direttamente responsabili, in ossequio a quanto previsto dall’articolo 4 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati del 2001, per i crimini posti in essere da propri organi de iure (vale a dire, qualsiasi persona o ente che rivesta tale posizione secondo il diritto interno) o da organi de facto (i quali, sebbene non qualificabili come organi de iure, dipendono dal potere di controllo di cui lo Stato dispone per indirizzarne i comportamenti). Peraltro, gli illeciti realizzati dai suddetti organi sono da attribuirsi allo Stato anche laddove essi abbiano agito ultra vires, in violazione o al di fuori di un preciso ordine.
Qualora gli atti di tortura non fossero da attribuirsi ad individui riconducibili all’apparato di governo ma, come pure è stato ventilato, a soggetti privati facenti parte di gang criminali e squadre d’assalto, l’Egitto potrebbe parimenti essere considerato responsabile per aver mancato di prevenire la violazione dei divieti sanciti dalla Convenzione.
Secondo quanto emerso dalle indagini condotte dalla Procura di Roma, parrebbe che le attività di Giulio Regeni fossero costantemente monitorate da alcuni agenti sotto copertura facenti capo alla National Security Agency, servizio segreto dell’Egitto. Dunque, quanto meno presumibilmente, i vertici governativi potevano avere contezza dell’esistenza di un pericolo concreto di atti violenti ai danni del giovane ricercatore, essendo altresì edotti circa il generale modus operandi in materia di arresti, detenzioni ed esecuzioni arbitrarie, comprovato dall’elevato numero di sparizioni forzate.
Ulteriore condotta rilevante ai fini della responsabilità dell’Egitto è rappresentata dall’obbligo, per lo Stato territoriale, di perseguire e reprimere eventuali atti di tortura, avviando un’inchiesta immediata, effettiva ed imparziale. Pur potendosi ravvisare alcuni (per la verità, deboli) tentativi di cooperazione investigativa tra Italia ed Egitto, il nostro Governo non ha mancato di palesare il proprio disappunto circa l’effettività e la lealtà della collaborazione fornita sinora dalle autorità de Il Cairo, soprattutto in relazione alla ritrosia di indagare e processare i responsabili, sul presupposto di una presunta inesistenza di elementi probatori incontrovertibili.
Per ciò che concerne siffatta violazione, potrebbe porsi un ulteriore problema – la cui analisi sembra, per la verità, ancora prematura nella vicenda in esame ma comunque pertinente –, relativo all’adempimento dell’obbligo di ‘aut dedere, aut iudicare’: quest’ultimo costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento internazionale, implicante il dovere dello Stato nel quale si trova il presunto autore del reato di estradarlo allo Stato richiedente o, in alternativa, di sottoporlo alle proprie autorità giurisdizionali competenti per l’esercizio dell’azione penale.
Da ultimo, si osserva come la cooperazione prescritta dall’articolo 9 CAT, sebbene non radicalmente nulla, non può allo stato essere ritenuta soddisfacente, evidenziando plurime carenze e contraddizioni. Occorre precisare che, allo stato, i rapporti diplomatici tra l’Italia e l’Egitto non risultano essere suggellati da uno specifico accordo bilaterale che imponga un obbligo di cooperazione in materia; nondimeno, pur essendo indubitabile che l’esistenza di un tale strumento sia idonea ad agevolare notevolmente il coordinamento delle rispettive autorità giurisdizionali, il carattere vincolante di tale condotta trae le sue origini dal dato letterale della Convenzione.
3. Gli strumenti diplomatici e giurisdizionali a disposizione dell’Italia e dei familiari della vittima
Ritenendo dimostrata l’esistenza di un illecito attribuibile all’Egitto in via diretta o indiretta, l’Italia sarebbe legittimata, in qualità di Stato ‘specialmente leso’, ad agire al fine di accertarne la responsabilità internazionale.
Per ciò che concerne il crimine di tortura, l’articolo 30 CAT disciplina un iter processuale piuttosto elaborato, che consta di tre fasi distinte: in primo luogo, occorre procedere con un tentativo di negoziazione; in mancanza di accordo, la controversia dev’essere sottoposta ad arbitrato, a richiesta di uno degli Stati interessati; qualora nei sei mesi seguenti le parti non siano giunte ad un’intesa riguardante l’organizzazione dell’arbitrato, una di esse può sottoporre la controversia alla Corte internazionale di giustizia. Quale che sia la strada, diplomatica o contenziosa, che l’Italia ritiene opportuno intraprendere, il nostro Governo può esigere non soltanto l’adempimento dell’obbligo di condurre un’indagine effettiva ed imparziale da parte dell’Egitto, ma anche il risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla famiglia Regeni.
Quanto all’individuazione, oltre che di una facoltà, di un esplicito dovere dell’Italia di intervenire in protezione diplomatica al fine di tutelare un proprio cittadino maltrattato all’estero, si sottolinea come, il diritto internazionale tende ad escludere un obbligo di tal genere. Invero, l’articolo 19 del Progetto di articoli sulla protezione diplomatica approvato nel 2006 dispone che lo Stato “dovrebbe dare la dovuta considerazione alla possibilità di esercitare la protezione diplomatica nell’ipotesi in cui si sia verificata un’offesa significativa”. Tuttavia, in sede di commenti al Progetto, il Governo italiano ha suggerito l’introduzione di una disposizione maggiormente vincolante, suscettibile di sancire un vero e proprio obbligo dello Stato di agire a tutela di un proprio cittadino offeso all’estero, e ciò in particolare quando la lesione derivi da atti di tortura od altri trattamenti inumani o degradanti. Stante tale presa di posizione, ci si aspetterebbe che l’Italia prestasse fede alle proprie dichiarazioni, attuando tutti gli strumenti previsti dal diritto internazionale.
I rimedi sopra enunciati esigono un’iniziativa intrapresa dall’Italia, non riconoscendo alcuna legittimazione diretta in capo alla famiglia Regeni. Quest’ultima, benché già attivamente coinvolta nell’avanzamento delle indagini condotte dalla Procura di Roma, potrebbe tutelare i propri diritti innanzi ai giudici interni, promuovendo un’azione civile contro l’Egitto per ottenere un ristoro dei danni morali, nonché altre forme di riparazione.
Ad onor del vero, tale opzione presenta alcune criticità: non è chiaro, infatti, a quale titolo si possa avanzare la pretesa risarcitoria, non potendosi ancora distinguere se l’illecito in questione derivi dall’atto di tortura in sé e per sé considerato, o piuttosto dall’inosservanza dell’obbligo di indagare e perseguire tali condotte. Oltre a ciò, molteplici sono le problematiche procedurali astrattamente configurabili: a titolo di esempio, basti pensare alla regola del ‘forum actoris’ che, secondo quanto statuito dall’articolo 5, n. 3 della Convenzione di Bruxelles del 1968, prevede la competenza, in materia di delitti o quasi-delitti, del giudice del luogo in cui si è verificato l’evento dannoso, che difficilmente si presta ad interpretazioni estensive.
Infine, non è da escludersi l’ipotesi di un’azione promossa dai familiari del giovane ricercatore avverso lo Stato italiano, per non aver quest’ultimo manifestato la propria intenzione di agire in protezione diplomatica. Trattasi di un’eventualità non del tutto remota, in quanto corroborata dalla nota sentenza n. 238/2014 Corte Cost., laddove si prevede che la tutela dei principi fondamentali della Costituzione – in particolare, la salvaguardia dei diritti umani ex articolo 2 Cost e dell’accesso alla giustizia ex articolo 24 Cost. – ammette la disapplicazione delle norme sovranazionali che dovessero porsi in contrasto con i medesimi.
4. Considerazioni conclusive
Il combinato disposto delle norme consuetudinarie sul divieto di tortura e delle disposizioni in materia di trattamento degli stranieri poc’anzi illustrato costituisce un solido strumento di tutela, cui l’Italia può (ed anzi, deve) far riferimento al fine di salvaguardare le ragioni dei propri cittadini oltre ai confini territoriali.
A tal proposito, l’indignazione morale e il dolore per le violenze subite dal giovane ricercatore e dai suoi familiari deve fungere da monito affinché lo Stato pretenda con forza l’accertamento dei fatti, accantonando i timori relativi ad eventuali rappresaglie di natura economica da parte dell’Egitto.
È giunta l’ora di agire per dare piena attuazione allo slogan ‘Verità per Giulio Regeni’. Soltanto così, infatti, l’Italia potrà fregiarsi di aver reso giustizia alla dignità umana, onorando i propri ideali di impegno internazionale ed evitando che tali drammatiche situazioni (si pensi, ad esempio, alla macroscopica violazione di diritti umani a danno di Patrick Zaki, attualmente detenuto in custodia cautelare presso un carcere egiziano) si risolvano in tragici epiloghi.