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Quando la violenza sessuale diventa tortura

il dono del giorno
Ph. Ermes Galli / il dono del giorno

Abstract

Il presente contributo si prefigge l’obiettivo di sintetizzare le principali questioni emerse nella recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 32380/2021, sul reato di tortura. Con riferimento al concorso tra il citato delitto e quello di violenza sessuale, la Corte, nel richiamare la giurisprudenza CEDU (sentenza Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997), ha ribadito che “anche la violenza sessuale può assurgere a tortura” allorquando l’atto sessuale imposto alla vittima sia supportato dalla privazione della libertà, causandone “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico”.

The present contribution aims at summarizing the main issues that emerged in a recent judgment of the Corte di Cassazione, no. 32380/2021, on the crime of torture. With respect to the concurrence between the above mentioned crime and the crime of sexual violence, the Court, recalling the ECHR case law (judgment Aydin v. Turkey, September 25, 1997), reiterated that "even sexual violence may amount to torture" when the sexual act imposed on the victim is supported by the deprivation of liberty, causing "acute physical suffering or a verifiable psychological trauma".

 

1. Una premessa

A seguito di un lungo e tortuoso iter parlamentare, solo a partire dal 2017, il nostro ordinamento si è dotato di una legge – la n. 110 – la quale, con l’introduzione nel codice penale degli articoli 613 bis e 613 ter, ha delineato la disciplina del reato di tortura che, per quanto non avulsa da critiche per la contraddittorietà e la consequenziale non agevole interpretazione di alcuni passaggi in essa contenuti, offre un criterio differenziale rispetto ai reati affini – come il reato di maltrattamento, ex articolo 572 Codice Penale, e quello di violenza sessuale, ex articolo 609-bis Codice Penale – individuato nella intensità delle sofferenze inferte alla vittima.

Anche la sua collocazione sistematica all’interno del Titolo XII del Codice Penale, relativo ai delitti contro la persona, ed in particolare al Capo III che disciplina i reati contro la libertà individuale, a chiusura della sezione relativa ai delitti contro la libertà morale, lascia perplessi laddove si consideri che, sovente, la condotta portante del delitto de quo si manifesta attraverso violenze fisiche e che, pertanto, la giusta collocazione sarebbe stata tra i delitti contro l’incolumità individuale, da intendersi come integrità fisica e psichica del soggetto.

Per quanto riguarda, in particolare, le violenze e le minacce, l’uso dell’aggettivo gravi, ha suscitato non pochi dubbi interpretativi a causa della mancanza di elementi descrittivi e qualificativi ulteriori. Anche il concetto di crudeltà che l’ordinamento penale conosce solo in termini di circostanza aggravante di carattere soggettivo, abbisognava di ulteriori specificazioni, soprattutto per quelle ipotesi nelle quali non vi sono tracce visibili sul corpo.

 

2. Configurabilità del delitto di tortura nella sentenza n. 32380/2021 per l’ipotesi delle gravi sofferenze fisiche e psichiche provocate alla partner

La vicenda oggetto del provvedimento in epigrafe, si origina dall’impugnazione della sentenza con la quale la Corte territoriale confermava quella emessa dal Gup, la quale dichiarava il ricorrente colpevole dei reati a lui ascritti condannandolo – con la riduzione per il reato – alla pena di anni 6 e 8 mesi di reclusione per aver inferto, alla vittima, gravi sofferenze fisiche e psichiche.

Nello specifico al ricorrente venivano contestati:

  • il reato di cui all’articolo 572 Codice Penale, in quanto maltrattava abitualmente la fidanzata sottoponendola a continue vessazioni fisiche e psicologiche, percuotendola con “schiaffi e pugni alla testa e al volto” e costringendola alla consumazione di rapporti sessuali “a cui la vittima acconsentiva per paura di essere picchiata”; con le aggravanti di cui all’ articolo 61 n. 1 Codice Penale, per aver agito per futili motivi e n. 4 per aver agito con crudeltà verso la persona offesa;
  • il reato di cui agli articoli, 81 cpv., 609 bis, 609 ter n. 5-quater Codice Penale, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, la costringeva a compiere atti sessuali a cui la vittima non riusciva a sottrarsi a causa “delle continue e reiterate violenze fisiche subite”, con la circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto nei confronti di persona alla quale il colpevole è o è stato legato da relazione affettiva;
  • il reato di cui all’articolo 613-bis, commi primo e quarto Codice Penale, perché, con violenze e minacce gravi, “ovvero agendo con crudeltà”, provocava alla persona offesa “acute sofferenze fisiche, un verificabile trauma psichico ed una lesione personale dalla quale derivava una malattia del corpo”.

Per la parte che interessa il presente contributo, spostiamo la nostra attenzione sul secondo motivo sollevato dal ricorrente, con il quale lamenta la violazione di legge per difetto di motivazione, in relazione all’articolo 613-bis del Codice Penale, sostenendo che il suddetto delitto presuppone che la vittima sia “una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”. Nel caso di specie, dunque, mancherebbero gli elementi costitutivi necessari per l’integrazione della fattispecie incriminatrice.

La Suprema Corte, nel dichiarare il motivo infondato, ha delineato i tratti essenziali della normativa internazionale fornendo importanti puntualizzazioni sulla figura del reato di tortura privata, di recente introduzione nel nostro ordinamento.

 

3. La fattispecie contenuta nell’articolo 613 bis Codice Penale

L’articolo 1 della L. n. 110 del 2017, ha inserito, tra i delitti che ledono la libertà morale dell’individuo, l’articolo 613 bis che punisce il reato di tortura – nonché il delitto di istigazione del pubblico ufficiale a commettere torture previsto dall’articolo 613 ter Codice Penale – introduzione finalizzata a colmare una inerzia legislativa di oltre tre decenni, più volte sollecitata anche dalla Corte di Strasburgo, la quale, in diverse occasioni, aveva ravvisato l’urgenza per gli Stati che ne fossero sprovvisti, tra i quali l’Italia, di adottare tutte le misure idonee ad evitare comportamenti inumani e degradanti da parte di agenti pubblici e privati.

L’articolo 2 della citata legge, ha modificato l’articolo 191 Codice Procedura Penale – prove illegittimamente acquisite – aggiungendovi il comma 2 bis, ai sensi del quale “le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e solo al fine di provocarne la responsabilità penale”.

La Convenzione Onu del 1984, promulgata con L. n. 498/1988, contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (CAT), all’articolo 2, secondo comma, stabilisce: “nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d’instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata in giustificazione della tortura”.

Allo stesso modo, l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sancisce che: “nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La nostra Costituzione, all’articolo 13, quarto comma, afferma: “È punita ogni violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà”.

Secondo il primo comma dell’articolo 613 bis Codice Penale: “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”.

La definizione, in buona sostanza, ricalca quella contenuta nella Convenzione Onu, con la differenza che il chiunque adoperato al primo comma, rimanda ad un reato comune. Parte della dottrina ha ritenuto che il configurarlo come reato comune non sia in contrasto con gli obblighi imposti dalla CAT, la quale stabilisce solo uno standard minimo, essenziale, di tutela contro la tortura, lasciando liberi gli Stati di prevedere forme più incisive in linea con il proprio ordinamento.

Tuttavia, proseguendo nella lettura, si evince che la persona offesa è colei che è affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza di qualcuno e, pertanto, in capo al reo sussisterebbe un obbligo di tutela che lo qualifica, certamente, come reato proprio. S’introduce, infatti, un’apposita aggravante per il caso in cui “i fatti sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”, con una pena alla reclusione aumentata da cinque a dodici anni.

Secondo giurisprudenza consolidata, trattasi di un delitto a geometria variabile in quanto l’ambito di operatività della norma penale ricomprende sia la tortura privata (cd impropria), sia la tortura pubblica (cd propria): quest’ultima si realizza qualora il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio che commetta il fatto tipico di cui all’articolo 613 bis, primo comma, Codice Penale, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio.

Va ricordato che prima dell’introduzione dell’articolo 613 bis, l’unica disposizione che puniva il reato di tortura, era quella di cui all’articolo 185 bis del codice penale militare di guerra, introdotto con la Legge n. 6 del 31.01.2002, il quale prevede che: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il militare che, per cause non estranee alla guerra, compie atti di tortura o altri trattamenti inumani, trasferimenti illegali, ovvero altre condotte vietategli dalle convenzioni internazionali, inclusi gli esperimenti biologici o i trattamenti medici non giustificati dallo stato di salute, in danno di prigionieri di guerra o di civili o di altre persone protette dalle convenzioni internazionali medesime, è punito con la reclusione militare da uno a cinque anni”.

 

4. La condotta

Per quanto riguarda le modalità della condotta, si fa riferimento a quelle che “comportano un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Arduo identificare le condotte omissive o quelle che cagionano un trauma a livello psichico.

In ogni caso, al primo comma dell’articolo 613 Codice Penale, si fa riferimento alle violenze o minacce ovvero all’agire con crudeltà. Riguardo quest’ultimo concetto, le Sezioni Unite lo hanno definito come “una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento ulteriore specialmente riprovevole, che deve essere oggetto di accertamento alla stregue delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo” (Sentenza n. 40615 del 23 giugno 2016).

 

5. L’evento

Come già evidenziato in precedenza, si tratta di un reato comune, a forma vincolata, potendo essere commesso solo attraverso violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà. E’ reato di evento in quanto si richiede il compimento di acute sofferenze fisiche od anche un verificabile trauma psichico.

È reato abituale improprio – solo per alcune modalità della condotta, vale a dire per le violenze e le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sé reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime – essendo richiesta la reiterazione della condotta.

La giurisprudenza di legittimità ha qualificato il reato solo come eventualmente abituale e ciò in quanto la reiterazione nel tempo di violenze o minacce gravi non è richiesta laddove l’agente abbia agito con crudeltà, ovvero ove il fatto comportasse un “trattamento disumano e degradante per la dignità della persona”.

Il dolo richiesto è quello generico, non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria, di cui all’articolo 1 della Convenzione Onu del 1984 che ammette la forma del dolo eventuale. Infine, il fatto di reato deve essere commesso attraverso più condotte oppure, quando è richiesta la commissione di un’unica condotta per l’integrazione della fattispecie, ad essa deve far seguito anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona, oltre agli eventi tipici, quali le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico.

 

6. Le conclusioni della Corte di Cassazione

Tornando alla sentenza oggetto del presente approfondimento, in essa la Corte adotta una interpretazione estensiva della fattispecie, fornendo delucidazioni sia sulla tortura privata, sia sul concorso fra due fattispecie, per certi versi, affini quali il reato di maltrattamenti, ex articolo 572 Codice Penale, e la violenza sessuale, ex articolo 609-bis Codice Penale Come già evidenziato in apertura del presente scritto, il ricorrente, con i tre motivi sollevati, lamentava l’inconfigurabilità del delitto di tortura per mancanza degli elementi costitutivi necessari per l’integrazione della fattispecie incriminatrice.

Al contrario, gli ermellini, sulla base dei dettagliati elementi forniti dalla vittima, hanno ritenuto sussistente il reato di tortura privata, di cui ai commi primo e quarto dell’articolo 613 bis in quanto l’uomo, con violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, aveva cagionato alla donna, privata della libertà personale perché, in più occasioni, da lui chiusa in casa contro la sua volontà, acute sofferenze fisiche oltre ad un trauma psichico ed una lesione personale dalla quale si era originata una malattia del corpo.

Si legge in sentenza: “la privazione della libertà personale non deve consistere necessariamente in una forma di detenzione, potendo, in conformità all’interesse giuridicamente tutelato dall’incriminazione, risolversi in una limitazione della libertà di movimento”.

Nel caso di specie, a parere della Cassazione, si realizza anche un concorso con altri reati, in particolare con quello di maltrattamenti, per l’integrazione del quale possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti in senso stretto. Al contrario, per la configurabilità del reato di tortura, dovranno prendersi in considerazione solo fatti che di per sé costituiscono reato (violenza privata, minacce, percosse, lesioni) e che si caratterizzano per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche ed un verificabile trauma psichico. Pertanto, “ciascuno dei singoli atti, che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti”.

La Corte specifica che il bene giuridico tutelato dall’incriminazione, abbia un contenuto ulteriore, “consistendo la tortura nell’inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico dell’essere umano che la patisce, cosicché la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell’arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una res oggetto di accanimento”.

Con riferimento all’affinità con il reato di atti persecutori, ex articolo 612 bis Codice Penale, la Corte ha evidenziato che in entrambe le ipotesi, gli eventi previsti richiamano un turbamento che si produce nella sfera psicologica del soggetto passivo, vale a dire il verificabile trauma psichico da una parte e il perdurante e grave stato di ansia o di paura dall’altra.

Infine, la sofferenza fisica e psichica inflitta alla vittima è solo un aspetto del reato, in quanto il contenuto peculiare della fattispecie consiste nell’oltraggio alla dignità umana che rappresenta il collante tra il reato di tortura pubblica e il reato di tortura privata e che si realizza con il totale asservimento della persona “e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili”. Per quanto riguarda, infine, il diniego della concessione delle attenuanti generiche operato dalla Corte d’appello, nella decisione è stato censurato il comportamento dell’imputato che non ha manifestato alcuna forma di ravvedimento, con ciò sottolineando la particolare odiosità della condotta e la reiterazione, nel corso della durata della relazione con la donna, di innumerevoli episodi di violenza.

Nel giungere a questa conclusione, si è attenuta ai principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità, ai sensi dei quali, “ nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione” (Ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19.03.2014).

Per quanto riguarda l’irrogazione di una pena base in misura superiore al minimo edittale, la Corte distrettuale ha chiarito che la scelta operata dal primo Giudice, è stata giustificata sulla base della gravità dei fatti compiuti, “desunta dalla particolare efferatezza della condotta e dal grado di pressione psicologica sulla vittima, nonché dalla ripetizione nel tempo delle condotte di minaccia e violenza”.

I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo articolo 613 bis Codice Penale, in Diritto Penale Contemporaneo, 31 luglio 2017.

F. S. Cassibba, Brevi riflessioni sull’inutilizzabilità delle dichiarazioni estorte con tortura ai sensi del nuovo articolo 191 comma 2 bis Codice Procedura Penale”in Diritto Penale Contemporaneo, n. 4/2018.

A. Pugiotto, Una legge sulla tortura, non contro la tortura, (Riflessioni costituzionali suggerite dalla l. n. 110 del 2017), in Quaderni costituzionali, fascicolo 2, 2018.