Il processo penale cambia ancora: cosa prevede la nuova riforma Cartabia
Abstract
Con la c.d. ‘riforma Cartabia’ divenuta ufficialmente legge in data 23 settembre 2021, il Governo si prepara ad inaugurare una serie di interventi legislativi finalizzati ad una generale riorganizzazione del processo penale in termini di efficienza, razionalizzazione e speditezza, andando altresì ad incidere sul sistema sanzionatorio con la previsione di un significativo ampliamento dell’applicabilità delle sanzioni alternative, emendando quelle già esistenti e relegando la pena detentiva alla stregua di extrema ratio, in ossequio alle prescrizioni costituzionali. A tal proposito, il presente contributo si propone di analizzare le principali novità della novella legislativa, non prima di averne illustrato alcune premesse, prendendo le mosse dalle numerose critiche formulate dall’Unione europea e dalla Corte di Strasburgo nei confronti dell’inefficienza giudiziaria italiana.
A few days ago, the Italian Parliament has officially approved the so-called ‘Riforma Cartabia’, aimed at revising the whole criminal justice system in order to finally address the excessive lenghts of proceedings, together with a structural reorganization of the alternative penalties. Within the upcoming months, the Italian Government is called at enforcing a series of unprecedent reforms, in deference to the guidelines provided by the European Union, the observance of which constitutes a ‘condicio sine qua non’ to access the financial resources provided by the Recovey Fund and finally overcome the general economic crisis caused by the coronavirus’ infectious disease.
1. Un primo sguardo d’insieme: gli obiettivi della Riforma Cartabia tra esigenze di ‘decongestionamento’ dell’arretrato giudiziario ed ottemperanza agli obblighi comunitari
In data 23 settembre 2021 è stato definitivamente approvato dal Senato della Repubblica il disegno di legge n. S. 2353 (versione approvata con emendamenti apportati dalla Camera dei Deputati, il cui testo coordinato può essere consultato qui), recante la ‘Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa, e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti penali’.
Il provvedimento enuncia i criteri direttivi cui dovranno adeguarsi i successivi decreti legislativi di attuazione, da emanarsi entro un anno dall’entrata in vigore del medesimo disegno di legge.
Per ciò che concerne il contenuto di tale intervento legislativo, l’obiettivo generale della riforma – già esplicitato nel disegno di legge approvato nel mese di luglio – è quello di conseguire una riduzione del 25% del contenzioso penale attualmente pendente, elaborando un piano finalizzato a consentire un più celere svolgimento dei processi, altresì introducendo modifiche specifiche ai c.d. riti alternativi. Finalità, quella di deflazione, da perseguire attraverso un’importante opera di digitalizzazione in grado di garantire razionalizzazione, semplificazione e maggiore speditezza dell’attività giudiziaria. Insieme a tali misure, la delega prevede altresì la predisposizione di una disciplina organica in materia di adozione di sanzioni sostitutive, nonché di ricorso alla giustizia riparativa. Quanto a quest’ultimo aspetto, il Governo – in ossequio a quanto previsto dalla direttiva europea n. 2012/29/UE, che prevede norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato – si impegna a conferire alla vittima del reato una rinnovata centralità, favorendo altresì il percorso di riconciliazione volontaria con l’autore dell’illecito.
I progetti di riforma, sui quali il Governo ha posto la questione di fiducia, costituiscono due condizioni imprescindibili per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, c.d. PNRR.
Invero, l’Italia è stata a più riprese sollecitata dalle istituzioni dell’Unione Europea al fine di porre rimedio alla scarsa efficienza del sistema giudiziario nel suo complesso, con particolare riguardo all’eccessiva durata dei processi, in ambito tanto penale quanto civile. Infatti, parallelamente alla riforma del processo penale, è stato emanato il disegno di legge n. AS.1662, contenente un’ulteriore delega al Governo ‘per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure alternative delle controversie, misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie, nonché in materia di esecuzione forzata’, che ha già ottenuto un’ampia maggioranza in Senato, ed è attualmente in discussione alla Camera (consultabile qui).
2. ‘Fine processo mai?’: alcuni numeri riguardanti i procedimenti giudiziari in Italia, analizzati sotto la lente di Bruxelles e Strasburgo
Al fine di meglio comprendere la portata innovativa dell’intervento di riforma in commento, appare opportuno rammentare alcuni dati numerici sui processi attualmente pendenti, avendo particolare riguardo alla loro durata media e all’imponente arretrato giudiziario, ricorrente leit-motif caratterizzante la quasi totalità dei circondari di tribunale e dei distretti di Corte d’Appello, estendendosi in parte anche al giudizio di legittimità in Cassazione.
Da diversi decenni l’Italia vanta un infelice primato in materia di (mancata) celerità dei procedimenti giudiziari, attribuitole in prima battuta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, c.d. Corte EDU. A far data dal 1959 – anno di istituzione dell’organo giurisdizionale avente sede a Strasburgo –, infatti, il nostro Paese è risultato destinatario di ben 1.202 sentenze di condanna per violazione del principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 6 CEDU: trattasi di un rilievo statistico piuttosto preoccupante, soprattutto se si considera che il podio dei Paesi meno virtuosi è completato da Turchia e Grecia, con all’attivo rispettivamente 608 e 542 condanne (a conti fatti, la metà dei provvedimenti pronunciati nei confronti dell’Italia).
A ciò si aggiunga altresì la più recente opinione, certamente non esente da ulteriori censure, espressa dall’Unione europea nei confronti della funzionalità del sistema giudiziario italiano. Già in data 26 febbraio 2020, nella Relazione per paese relativa all’Italia 2020 che accompagna il documento relativo alla ‘valutazione dei progressi in materia di riforme strutturali, prevenzione e correzione degli squilibri macroeconomici e risultati degli esami approfonditi a norma del regolamento (UE) n. 1176/2011’, la Commissione europea aveva giudicato l’apparato giudiziario statale come scarsamente efficiente (p. 65). Pur riconoscendo timidi miglioramenti nell’ambito della giustizia civile, l’Unione europea non ha mancato di esprimere la propria preoccupazione per ciò che concerne il settore penale, ritenendo che la scarsa efficienza (soprattutto) in grado di appello continua ad ostacolare sensibilmente il perseguimento dei reati più gravi (p. 66). Tale documento fa il paio con la successiva raccomandazione adottata dal Consiglio lo scorso 20 luglio 2020, con cui le istituzioni comunitarie hanno ribadito come la messa a punto di un apparato giudiziario funzionale sia di fondamentale importanza per incentivare il processo di ripresa, soprattutto nel periodo immediatamente successivo all’emergenza pandemica.
Avuto riguardo al procedimento penale, i più recenti rilievi riguardanti l’attività giudiziaria del 2020 – sulla cui efficienza e speditezza, come noto, l’emergenza epidemiologica da COVID-19 ha esercitato un impatto non indifferente, dando luogo ad una stasi giudiziaria forzata e disponendo il rinvio d’ufficio delle udienze relative ai procedimenti pendenti, nonché la sospensione dei termini per il compimento di qualsiasi atto processuale – confermano quanto già rilevato dai giudici di Strasburgo. Invero, dati alla mano, il decorso del procedimento dinanzi alle Procure è di 330 giorni; per ciò che invece concerne il momento immediatamente successivo all’emanazione del decreto che dispone il giudizio, la durata media di un procedimento penale pendente di fronte al tribunale ordinario di primo grado è di 478 giorni; in grado d’appello, i tempi si allungano ulteriormente, giungendo ad una media di 1.038 giorni; 287, infine, sono i giorni necessari alla definizione del giudizio in Cassazione.
Quanto ai procedimenti penali tutt’ora pendenti, il monitoraggio della giustizia penale operato periodicamente dal Dicastero di via Arenula, aggiornato al 20 luglio 2021, restituisce un quadro tutt’altro che confortante: invero, a far data dal primo trimestre dell’anno corrente, il numero di fascicoli complessivamente pendenti in tutto il territorio nazionale, inclusi quelli di competenza del Giudice di pace e del Tribunale per i minorenni, ammonta a 1.613.244.
Da questo rapido tour d’horizon sullo stato di salute dell’attività giurisdizionale in Italia, con particolare focus sul procedimento penale, emerge un dato senz’altro incontestabile: l’obiettivo di riforma della giustizia penale in Italia non può in alcun modo prescindere dalla drastica riduzione dei tempi del processo, esigenza e al tempo stesso ‘sfida epocale’ (come commenta il Prof. Gian Luigi Gatta qui) la cui buona riuscita costituisce condizione necessaria non soltanto per accedere alle risorse economiche stanziate dalle istituzioni europee al fine di fronteggiare la crisi pandemica, ma anche e soprattutto al fine di garantire una più efficace amministrazione della giustizia.
3. La riforma del processo penale: analisi dei contenuti e principali modifiche
Ad una prima lettura, il disegno di legge approvato in via definitiva dai due rami del Parlamento appare senz’altro piuttosto articolato, incidendo sull’intero sistema penale con diverse novità che si possono analizzare mediante quattro principali chiavi di lettura, che si muovono a cavallo tra una generale riforma del processo penale e una revisione dell’apparato sanzionatorio, sul cui sfondo campeggia la pressante necessità di deflazione del contenzioso penale, minimo comune denominatore della novella legislativa.
Partendo da quest’ultimo punto, e come in parte già anticipato, il principale proposito che permea la nuova normativa risiede in una significativa spinta per la digitalizzazione del processo penale; invero, se nell’ambito civile la diffusione del processo telematico è pressoché definitiva, nel procedimento penale l’implementazione della tecnologia è un fenomeno abbastanza recente, timidamente ‘sdoganato’ in concomitanza con la pandemia. Prendendo le mosse da tale apertura, dunque, la legge delega ha prontamente colto la palla al balzo per accelerare ulteriormente la transizione digitale dell’amministrazione della giustizia.
Ciò posto, un primo fil rouge riguarda una serie di provvedimenti finalizzati ad evitare che il procedimento approdi in dibattimento, nell’ottica di diminuire il numero di controversie che vengono definite all’esito del giudizio. A titolo meramente esemplificativo, appare opportuno menzionare, tra gli altri:
- una sostanziale modifica della disciplina inerente alle c.d. condizioni di procedibilità, ampliando il novero dei reati perseguibili a querela di parte (ad es., si prevede la querela per ulteriori specifici reati contro la persona e contro il patrimonio, individuati tra quelli puniti con pena detentiva non superiori nel minimo a due anni);
- l’espansione del campo applicativo dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131bis c.p., mediante la previsione – in luogo della previgente pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni – del nuovo limite edittale della pena detentiva non superiore nel massimo a due anni, sola o congiunta con la pena pecuniaria; inoltre, si delega il Governo ad ampliare, sulla base di evidenze empirico-criminologiche o per ragioni di coerenza sistemica, il catalogo delle ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 131-bis, co.2 c.p., l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità (come, ad es., nel caso dei reati di violenza contro le donne di cui alla Convenzione di Istanbul); infine, viene conferito rilievo alla condotta susseguente al reato, al fine di valutare la c.d. particolare tenuità dell’offesa;
- una maggiore responsabilizzazione del pubblico ministero nella scelta di esercitare l’azione penale;
- la modifica della regola di giudizio per l’udienza preliminare, limitandone la previsione a reati di particolare gravità, estendendo parallelamente le ipotesi di citazione diretta a giudizio;
- il rafforzamento dei riti alternativi, con l’introduzione di ulteriori benefici per l’imputato per ciò che concerne le possibilità di riduzione della pena inflitta e l’applicabilità delle pene accessorie;
- i criteri di priorità dell’azione penale, al fine di garantirne un efficace ed uniforme esercizio in ottemperanza a criteri generali indicati con legge dal Parlamento;
- l’introduzione di una c.d. ‘udienza-filtro’ dinanzi al tribunale monocratico.
Un secondo profilo – quello senz’altro più corposo – è invece dedicato all’introduzione di misure atte a fornire rimedi per l’irragionevole durata del procedimento penale. Tra queste, si segnalano le nuove disposizioni in materia di durata massima delle indagini preliminari, accompagnate da un meccanismo di messa in mora del Pubblico Ministero che dovesse ritardare la decisione sulla formulazione dell’accusa: invero, in caso di prolungata stasi del fascicolo nell’ufficio della procura, è previsto l’intervento del giudice per le indagini preliminari, al fine di indurre il PM ad assumere le proprie decisioni.
Sempre con riferimento alla durata delle indagini preliminari, la riforma Cartabia ha previsto un’organica revisione dei termini massimi: nello specifico, sei mesi per le contravvenzioni; un anno per la generalità dei delitti; un anno e sei mesi per i procedimenti penali relativi ai delitti più gravi, quali ad es. associazioni di tipo mafioso, terrorismo e traffico di stupefacenti su larga scala. Tuttavia, la principale novità riguarda la possibilità di proroga, ammessa una sola volta e per un periodo di tempo non superiore a sei mesi, allorquando ciò sia reso necessario per via della complessità delle indagini da svolgere. Al termine delle indagini medesime, dunque, il pubblico ministero dovrà decidere tempestivamente se esercitare l’azione penale, laddove ne ricorrano i presupposti, ovvero richiedere l’archiviazione, quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non consentono una ragionevole previsione di condanna. In ipotesi di mancato esercizio dell’azione penale, l’indagato ha facoltà di prendere visione degli atti di causa, prevedendosi una discovery a suo vantaggio.
Una terza direttrice annovera al proprio interno diverse riforme volte a ridurre notevolmente l’impiego della pena carceraria, favorendo una rivitalizzazione della pena pecuniaria e delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, introdotte dalla legge n. 689/1981 ed individuate nella semilibertà, nella detenzione domiciliare, nel lavoro di pubblica utilità e nella pena pecuniaria. Le nuove pene sostitutive, applicabili entro il limite di quattro anni di pena detentiva inflitta, saranno direttamente applicate dal giudice competente a conoscere il merito, evitando così la situazione di limbo che riguarda i c.d. ‘liberi sospesi’ che, in attesa della pronuncia del magistrato di sorveglianza, non possono né vedersi applicata la pena detentiva, né tantomeno iniziare a scontare la pena alternativa.
Infine, senz’altro meritevole d’attenzione è un quarto filone di riforme, incentrato su una riorganizzazione della c.d. giustizia riparativa e su un ampliamento della definizione di ‘vittime di reato’. Anzitutto, si prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero ed informato della vittima e del reo, previa valutazione del giudice circa l’utilità della riconciliazione; corollari di tale innovazione sono la ritrattabilità del consenso, la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma e la loro inutilizzabilità nel procedimento penale. Quanto alle possibili risultanze dei programmi di giustizia riparativa, si considera che l’esito positivo dei medesimi possa essere valutato nell’ambito del processo penale e della successiva fase esecutiva, mentre la mancata riuscita non produce effetti negativi né per l’autore del reato, né tantomeno per la vittima.
Per ciò che concerne la nozione di ‘vittima di reato’, viene per la prima volta introdotta una definizione giuridica, per tale dovendosi intendere qualsiasi persona fisica che abbia subito un danno – sia esso fisico, mentale o emotivo –, ovvero perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato. La delega prevede inoltre che venga considerata vittima del reato anche il familiare di una persona il cui decesso è stato cagionato dal reato, e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona.
4. Le norme d’immediata applicazione: il nuovo istituto dell’improcedibilità e le c.d. misure antiviolenza
Uno degli elementi centrali della riforma è senz’altro rappresentato dalle disposizioni destinate ad entrare in vigore da subito, senza che vi sia la necessità di emanare decreti legislativi di attuazione.
In primo luogo, viene in rilievo l’assoluta novità dell’improcedibilità, istituto di nuovo conio funzionale al bilanciamento del sostanziale blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sulla scorta di quanto già previsto dalla c.d. legge Bonafede, nonché ad assicurare il rispetto dei termini di durata dei giudizi d’impugnazione. Vengono introdotti limiti predeterminati di durata per il grado di appello e di Cassazione, rispettivamente di due anni ed un anno; nel caso di mancata osservanza dei medesimi, il procedimento sarà qualificato come ‘improcedibile’. Trattasi, tuttavia, di un meccanismo scevro da qualsiasi automatismo, dal momento che il giudice potrà sempre ritenere necessaria una o più proroghe del termine, anche oltre i limiti di durata massima, per ciò che concerne reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, associazione mafiosa e scambio elettorale politico-mafioso, violenza sessuale aggravata e traffico di stupefacenti, quando il procedimento sia caratterizzato da un elevato grado di complessità. Inoltre, per i delitti aggravati dal metodo mafioso ex art. 416bis.1 c.p., possono essere concesse proroghe fino ad un massimo di tre anni in appello e un anno e sei mesi in Cassazione; in tali ipotesi, pertanto, la durata massima del giudizio di secondo grado è di cinque anni, mentre il giudizio di legittimità può giungere ad un massimo di due anni e sei mesi. Per tutte le altre categorie di reati, è possibile disporre un’unica proroga, della durata di un anno per il procedimento di appello e di sei mesi per il giudizio in Cassazione.
L’introduzione delle nuove previsioni in materia di improcedibilità si accompagna ad una disposizione transitoria, che ne circoscrive l’applicazione ai reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020; per tali procedimenti, inoltre, qualora l’impugnazione venga proposta entro la fine del 2024, i processi potranno durare al massimo tre anni in appello ed un anno e mezzo in Cassazione.
I termini di durata massima dei giudizi di impugnazione non sono applicabili ai procedimenti riguardanti delitti puniti con la pena dell’ergastolo ovvero nelle ipotesi in cui l’imputato vi rinuncia; inoltre, viene previsto un regime speciale per ciò che concerne delitti di mafia e terrorismo.
A chiusura delle novità inerenti all’improcedibilità, viene prevista una sospensione dei termini di durata massima del procedimento, con effetto per la generalità degli imputati, nelle stesse ipotesi in cui l’ordinamento contempla una causa di sospensione della prescrizione del reato. Inoltre, nel corso del giudizio di appello è prevista la sospensione del procedimento per il tempo necessario alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, anche se in tal caso il periodo di sospensione tra un’udienza e quella successiva non può eccedere i sessanta giorni.
Infine, per ciò che concerne i casi di irreperibilità dell’imputato, si prevede una sospensione dei termini quando sia necessario procedere a nuove ricerche funzionali alla notifica del decreto di citazione a giudizio.
Un secondo gruppo di disposizioni d’immediata operatività attiene invece alle c.d. misure antiviolenza, già sopra brevemente menzionate. Anzitutto, è stato previsto un ampliamento del catalogo di delitti per i quali si dispone l’arresto in flagranza, inserendovi la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Accanto a tali norme, entrano subito in vigore le previsioni che estendono il regime di protezione delle vittime di violenza domestica e di genere anche al tentativo di reato (ad es. in caso di stalking, maltrattamenti in famiglia, atti sessuali con minori), nonché alle vittime di tentato omicidio. Trattasi, in buona sostanza, delle misure di tutela già contenute nel c.d. Codice Rosso (legge del 19 luglio 2019, n. 69), finalizzate a consentire una contrazione dei tempi di svolgimento delle indagini, agevolando una più rapida comunicazione nei confronti della vittima e intensificando le garanzie di tutela di quest’ultima in ipotesi di sospensione condizionale della pena.
5. Cosa aspettarsi nel prossimo futuro dalla riforma Cartabia: prospettive di breve e lungo termine
Volendo prospettare una conclusione che tenga conto delle difficili condizioni politiche – determinate da una maggioranza di governo piuttosto eterogenea e con visioni diametralmente opposte sulla giustizia penale –, nonché in considerazione delle tempistiche assai stringenti imposte da Bruxelles, sembrerebbe decisamente prematuro (e, soprattutto, pretenzioso) esprimere una valutazione univoca sulla riforma in commento. Tuttavia, occorre riconoscere che tale disegno di legge ha correttamente individuato gran parte delle lacune caratterizzanti tanto il processo penale, quanto l’annessa macchina punitiva statale, prevedendo interventi – tecnologici e non – capaci di innescare un sensibile cambio di rotta rispetto all’endemica lungaggine del sistema giudiziario italiano. In ogni caso, saranno i mesi e gli anni a venire a rivelare le potenziali migliorie previste dalla riforma Cartabia: come già accennato, infatti, trattasi di una legge delega con cui il Governo è chiamato ad attuare, entro un anno dalla sua entrata in vigore, per mezzo di uno o più decreti legislativi, fatta eccezione per le disposizioni già vincolanti.
Per questa volta, dunque, occorre lasciare da parte l’adagio gattopardiano ‘se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi’: il processo penale deve invece poter cambiare, adattandosi ai tempi ed ottemperando alle esigenze di salvaguardia della giustizia, cartina di tornasole di qualsiasi Stato che possa dirsi fondato sul diritto. L’inefficiente status quo non può durare ancora: il monito dell’Unione Europea non può rimanere inascoltato, e la ripresa post-pandemica deve necessariamente passare per il crocevia dell’amministrazione della giustizia.