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Il contenzioso interstatale dinanzi alla Corte europea dei diritti umani quale strumento orientato alla tutela dell’interesse collettivo

in tempo di pace e di guerra: evoluzione, prassi recente e (non semplici) prospettive di armonizzazione con il diritto umanitario

Inter-State litigation before the European Court of Human Right as a re-discovered tool aimed at protecting and enforcing collective interests in both peace and war time: evaluating strengths and challenges of Article 33 ECHR in light of Strasbourg’s current practice vis-à-vis armed conflicts
Siamo (noi) la più grande tempesta
Ph. Paolo Panzacchi / Siamo (noi) la più grande tempesta

Abstract

Il presente contributo si propone di effettuare un’analisi preliminare circa il fenomeno del contenzioso interstatale in materia di diritti umani dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, il cui notevole incremento durante gli ultimi anni, oltre che a suscitare un rinnovato interesse per tale strumento di tutela, ha consentito di interrogarsi su natura giuridica, oggetto e finalità del medesimo. A tal riguardo, la prassi giurisprudenziale elaborata dai giudici di Strasburgo, benché piuttosto scarna se paragonata alla cospicua mole di ricorsi individuali di cui la Corte è regolarmente investita, offre molteplici spunti di riflessione sulle future prospettive di evoluzione della procedura interstatale, non soltanto alla luce dei principali obiettivi di tutela perseguiti dalla Convenzione, quanto soprattutto in ragione della concreta funzione che le Alte Parti contraenti hanno dimostrato di attribuire all’art. 33 CEDU: vale a dire, quella di definire controversie che, seppur implicanti l’accertamento di eventuali violazioni di diritti umani, risultano in larga misura attraversate da questioni di diritto internazionale generale ed umanitario.

The present paper is aimed at broadly exploring the recent growth of inter-State litigation before the European Court of Human Rights, an underestimated but cutting-edge instrument provided for in by the Convention in light of assessing gross human rights violations. Notwithstanding, despite the current re-discovery of Article 33 ECHR, inter-State applications’ objectives and nature need a further clarification in academia, since the basic (but, perhaps, quite sibylline) wording of the Convention does not allow to understand its rationale. To this end, after having provided a general overview of the above-mentioned mechanism, the present contribution is going to assess the major challenges of the current practice. A particular eye of attention will be dedicated to the recent trend, engaged by a number of States of Eastern Europe, to bring before the Court applications that, as far as they concern international armed conflicts, are capable of endowing Strasbourg’s judges with a dispute settlement function, that badly fits the Convention’s main purpose: that is to say, the protection of fundamental rights of individuals.

 

Sommario

1. Il ‘gigante dormiente’: cenni introduttivi circa il contenzioso interstatale in materia di diritti umani tra iniziali ritrosie da parte degli Stati ed attuale incremento dei ricorsi dinanzi alla Corte EDU

2. Origine ed evoluzione del ricorso interstatale nel sistema convenzionale: la ‘rivoluzione copernicana’ innescata dal Protocollo n. 11 e la transizione da una procedura meramente politica alla giurisdizione obbligatoria ed esclusiva della Corte

2.1. ‘Different, but the same’: aspetti procedurali e sostanziali del ricorso interstatale quali piani giustapposti (e non autonomi) da cui ricavare fisionomia e ratio dell’art. 33 CEDU.

2.2. ‘Two of a kind’: individuazione delle varie tipologie di ricorso interstatale alla prova della ‘bipartizione’ elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU

3. I fronti aperti tra procedura e sostanza: considerazioni preliminari

3.1. ‘Tertium non datur’? Categorie inedite di ricorso interstatale e tendenze evolutive in atto nella giurisprudenza di Strasburgo al di là della bipartizione ‘spielmanniana’

3.2. ‘Too little, too late’? Natura giuridica ‘sui generis’ ed effettività delle misure cautelari adottate nell’ambito di ricorsi interstatali riguardanti conflitti armati

4. Osservazioni conclusive

 

Summary

1. Introduction: the recent rise in inter-State litigation before the ECtHR as a no-return point concerning human rights’ practice

2. Evolution of inter-State applications within the Convention’s structure: the so-called ‘Copernican revolution’ created by Protocol No. 11 and the ‘sliding shift’ from an elective to a compulsory jurisdiction’s mechanism

2.1. ‘Different, but the same’: procedural and substantial aspects of inter-State applications as intertwined (and yet, not separated) plans serving at better understanding the rationale of Article 33 ECHR

2.2. ‘Two of a kind’: fundamental typologies of inter-State applications as progressively elaborated by the Court’s practic

3. Inter-State applications’ open fronts between procedure and substance: a preliminary recognition

3.1. ‘Tertium non datur’? Up-to-date inter-State applications’ categories as emerging from the Court’s recent practice scrutinized by former ECtHR’s president Dean Spielmann

3.2. ‘Too little, too late’? Testing the effectiveness of ‘unusual’ kind of interim measures granted by the Court in inter-State procedures concerning armed conflicts.

4. Conclusion

 

1. Il ‘gigante dormiente’: cenni introduttivi circa il contenzioso interstatale in materia di diritti umani tra iniziali ritrosie da parte degli Stati ed attuale incremento dei ricorsi dinanzi alla Corte EDU

La tutela dei diritti fondamentali, così come elaborata dal diritto internazionale a partire dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’immediato dopoguerra, si è sviluppata sull’imprescindibile premessa secondo cui, di regola, è solo e soltanto l’individuo a beneficiare delle norme poste a salvaguardia di diritti umani, essendone il principale fruitore. Ciò si pone in evidente contrasto con la concezione tradizionale (o, per meglio dire, ‘westphaliana’) del diritto internazionale, le cui categorie concettuali si sono sviluppate sul presupposto che i destinatari naturali delle sue previsioni siano gli Stati, enti territoriali politicamente organizzati.

Tale schema teorico è rimasto, almeno in un primo momento, sostanzialmente immutato anche con riferimento alle disposizioni che prevedevano situazioni vantaggiose in favore di individui o gruppi. Invero, in considerazione dell’assetto Stato-centrico che per lungo tempo ha caratterizzato la struttura dell’ordinamento internazionale, gli individui, lungi dall’essere tutelati in prima persona, erano considerati quali meri beneficiari indiretti di tali norme, dal momento che queste ultime erano destinate a generare situazioni giuridiche soggettive, siano esse attive o passive, soltanto nei confronti degli Stati.

Tuttavia, come sopra anticipato, a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo lo schema caratterizzante il diritto internazionale classico è stato progressivamente scardinato, soprattutto per ciò che concerne il ruolo attribuito agli individui: i medesimi, infatti, assurgono finalmente al rango di veri e propri soggetti giuridici, nei confronti dei quali l’apparato normativo internazionale prevede, accanto all’osservanza di specifiche condotte (censurandone, per l’effetto, l’eventuale inottemperanza), l’attribuzione di una particolare categoria di diritti, definiti ‘umani’ nella misura in cui essi costituiscono prerogativa assoluta di ciascun individuo[1].

Nel giro di pochi decenni, al mutamento di paradigma poc’anzi descritto ha fatto seguito una proliferazione di trattati internazionali in materia di diritti umani, aventi natura settoriale (si veda, a titolo esemplificativo, la Convenzione sul genocidio), universale (emblematici, in tal senso, sono i due Patti delle Nazioni Unite del 1966 concernenti rispettivamente i diritti civili e politici e i diritti economici, sociali e culturali) o regionale (su tutti, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui modello ha poi ispirato la successiva Convenzione americana dei diritti dell’uomo, nonché la più recente Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli).

Oltre a ricomprendere al proprio interno un’elencazione piuttosto esauriente di diritti fondamentali, la quasi totalità di tali convenzioni prevede altresì strumenti di controllo, aventi natura giurisdizionale o quasi-giurisdizionale, cui l’individuo può ricorrere al fine di chiedere ed ottenere la tutela dei propri diritti in seguito ad eventuali violazioni poste in essere dallo Stato. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui i trattati prevedano una facoltà di ricorso direttamente in capo a soggetti privati che lamentano una violazione di diritti umani a proprio danno, lo Stato di appartenenza dell’individuo non svolge, almeno generalmente, alcuna funzione attiva dal punto di vista giurisdizionale, essendo tutt’al più relegato al ruolo di soggetto convenuto, ovvero effettuando interventi in qualità di terzo nell’ambito di procedimenti individuali[2].

A tal proposito, giova rammentare in questa sede che la porzione più significativa del contenzioso attualmente pendente innanzi ai suddetti organismi di controllo è costituita proprio dai ricorsi individuali. Nel tempo, quest’ultimo rimedio – vero e proprio centro nevralgico sul cui fondamento è imperniato ciascun sistema integrato di tutela convenzionale in materia di diritti umani[3] – ha visto progressivamente accrescere la propria importanza, tanto da acquisire un’assoluta rilevanza nell’impianto delle tutele attivabili.

Tuttavia, l’assenza di una prassi sistematica riguardante il contenzioso interstatale nel campo dei diritti umani non deve ingannare circa l’effettiva previsione, all’interno di moltissimi trattati internazionali di settore, di procedure di ricorso direttamente azionabili dagli Stati al fine di deferire all’attenzione dell’organo preposto al monitoraggio delle disposizioni convenzionali qualsiasi inosservanza delle medesime che sia imputabile ad un'altra Parte contraente.

Volendo approfondire le ragioni della tradizionale ‘ritrosia’ da parte degli Stati a promuovere simili controversie, in dottrina si sono avvicendate le ipotesi più eterogenee.

Alcuni autori, ad esempio, giustificano il generale disinteresse nei riguardi del contenzioso interstatale sull’assunto per cui i meccanismi di tutela posti a presidio dei diritti umani – e in particolar modo gli organi quasi-giurisdizionali di controllo – siano in realtà scarsamente effettivi, soprattutto se paragonati ai tradizionali strumenti diplomatici, nonché parecchio dispendiosi in termini di costi processuali e ricerca dei necessari elementi di prova[4]. Altri studiosi, invece, motivano detta riluttanza in considerazione dell’elevato grado di politicizzazione insito nelle controversie interstatali in materia di diritti umani, rendendole di fatto poco ‘accattivanti’ in quanto potenzialmente idonee a pregiudicare non soltanto gli interessi degli Stati coinvolti nella lite, ma anche e soprattutto la salvaguardia dello status quo caratterizzante le relazioni internazionali, finalizzato al mantenimento della pace[5].  

Ciò posto, occorre tuttavia rilevare come, da circa un decennio a questa parte, la prassi internazionale ha assistito ad un vero e proprio incremento del contenzioso interstatale in materia di diritti umani, in controtendenza rispetto alla sostanziale ‘paralisi’ sopra descritta. Palcoscenico d’elezione di tale exploit è stato senz’altro lo spazio giuridico europeo, nel cui contesto emerge l’operato della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti, Corte o Corte EDU), supremo organo giurisdizionale istituito nel 1959 dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di seguito, anche CEDU), con la specifica funzione di monitorare ed assicurare l’applicazione ed il rispetto delle norme poste a presidio dei diritti umani nell’ambito dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa.

Accanto al tradizionale strumento del ricorso individuale, disciplinato ex art. 34 CEDU, l’art. 33 CEDU prevede infatti la facoltà, in capo a ciascuna Alta Parte contraente, di adire la Corte mediante ricorso interstatale al fine di denunciare l’eventuale inosservanza di uno o più obblighi convenzionali da parte di un altro Stato membro. Per fornire un’idea dell’attivismo della Corte sul ‘fronte’ interstatale, parrebbe opportuno richiamare in questa sede un dato quantitativo: se, a far data dal 1956 e fino ai primi anni duemila, le procedure di ricorso interstatale sottoposte all’attenzione della Commissione europea dei diritti umani, prima, e della Corte EDU, poi, sono state esattamente dodici in quasi quarant’anni di attività, negli ultimi quattordici anni – e, dunque, considerando un più breve lasso di tempo – tale numero è significativamente aumentato, potendosi contare ben sedici contenziosi avviati dagli Stati a partire dal 2007. Di essi, due sono stati già definiti mediante sentenza di merito, cinque interessati da decisioni di ammissibilità ovvero cancellati dall’elenco ed infine nove di essi che attendono di essere ancora esaminati. Un ulteriore elemento di interesse è costituito dal fatto che, dei sedici ricorsi interstatali recentemente avviati, dieci di essi (più della metà) sono stati introdotti soltanto negli ultimi tre anni, a riprova dell’attuale ed effettiva inversione di tendenza rispetto al passato[6].

Operate tali necessarie premesse, il presente contributo intende ricostruire, mediante l’ausilio della giurisprudenza di Strasburgo, l’attuale disciplina dei ricorsi interstatali dinanzi alla Corte EDU.

In particolare, l’analisi sarà dapprima rivolta ad una ricognizione di quelli che, ad oggi, sembrano essere i capisaldi dell’istituto, rispetto ai quali la medesima Corte si è più volte espressa lasciando spazio a ben pochi dubbi (tuttavia, significativi). Proprio con riferimento a questi ultimi, nonché alle lacune sistemiche, in un secondo momento l’indagine riguarderà alcuni tra i profili, sostanziali e procedurali, che allo stato parrebbero essere maggiormente problematici: tra gli altri, l’opportunità di profilare ulteriori categorie di ricorso accanto a quelle già individuate dalla Corte alla luce della recente espansione del contenzioso interstatale sul versante dei conflitti armati internazionali, nonché la valutazione, sotto il profilo dell’effettività, delle inedite tipologie di misure cautelari ‘generali’ adottate nell’ambito dei ricorsi attualmente pendenti o definiti di recente dalla Corte.

 

2. Origine ed evoluzione del ricorso interstatale nel sistema convenzionale: la ‘rivoluzione copernicana’ innescata dal Protocollo n. 11 e la transizione da una procedura meramente politica alla giurisdizione obbligatoria ed esclusiva della Corte

L’art. 33 CEDU, rubricato ‘Ricorsi interstatali’, prevede un non meglio specificato diritto, attribuito in capo a ciascuna Alta Parte contraente, di deferire alla Corte qualunque inosservanza (nel testo originale, «any alleged breach») delle disposizioni della Convenzione e dei suoi Protocolli che essa ritenga possa essere imputata ad un’altra Alta Parte contraente. Ad una prima occhiata, l’assai generico dato letterale della norma non sembra fornire particolari indicazioni circa la natura giuridica e la finalità dello strumento interstatale: anzi, laddove paragonato alla puntuale formulazione dell’art. 34 CEDU, recante la disciplina dei ricorsi individuali (che circoscrive la facoltà di adire la Corte in favore di persone fisiche o giuridiche che lamentino di essere vittime di eventuali violazioni), l’art. 33 CEDU sembra quasi una norma in ‘bianco’ il cui contenuto, pur progressivamente enucleato dalla giurisprudenza della Corte, appare ancora oggi in fase di costruzione, non essendo compiutamente definito[7]. Tuttavia, sin dalla sua introduzione all’interno dell’architettura della Convenzione, il ricorso interstatale di cui all’art. 33 CEDU ha contribuito a tracciare una significativa linea di demarcazione rispetto alle altre procedure di risoluzione delle controversie internazionali, e ciò per un duplice ordine di motivazioni.

Anzitutto, in contrasto con l’omologa procedura individuale e diversamente dalla maggior parte dei meccanismi di controllo istituiti dagli altri trattati in materia di diritti umani, il ricorso interstatale si connota per la sua natura obbligatoria[8]. Invero, già secondo quanto inizialmente previsto dall’art. 24 del previgente testo della Convenzione in vigore sino al 1998, tutte le Alte Parti contraenti erano assoggettate alla competenza dell'organo incaricato di conoscere di tali ricorsi, senza che fosse necessaria un’esplicita dichiarazione separata di accettazione.

Nondimeno, le presunte violazioni lamentate dagli Stati erano accertate dalla Commissione EDU senza che quest’ultima potesse pronunciare decisioni vincolanti, ‘limitandosi’ a redigere un rapporto avente natura confidenziale indirizzato al Comitato dei Ministri, organo decisionale del Consiglio d’Europa. Ai sensi del previgente art. 31 CEDU, era tale organo esecutivo che aveva il potere di conferire efficacia giuridica obbligatoria alle raccomandazioni contenute nel suddetto rapporto, potendo eventualmente deciderne la pubblicazione. Stante il ruolo di assoluta preminenza riconosciuto dalla Convenzione al Comitato dei Ministri, lo svolgimento della fase giurisdizionale dinanzi alla Corte era meramente eventuale, ponendosi quale alternativa (quasi mai percorsa) rispetto alla procedura ‘politica’ sopra descritta. Inoltre, l’avvio del procedimento contenzioso era subordinato alla previa accettazione, da parte dello Stato convenuto, della giurisdizione della Corte (testo originario dell’art. 45 CEDU), nonché all’iniziativa intrapresa da uno dei soggetti legittimati a proporre il ricorso ai sensi del previgente art. 48 CEDU: vale a dire, la Commissione, lo Stato di nazionalità della vittima, ovvero uno degli altri Stati parti della controversia.

Tale assetto strutturale è sopravvissuto sino al 1998, anno di entrata in vigore del Protocollo n. 11 finalizzato ad una radicale ristrutturazione del meccanismo di controllo istituito dalla Convenzione. Invero, sebbene in dottrina si siano avvicendate voci discordanti in merito all’opportunità di sottoporre le controversie interstatali – notoriamente caratterizzate da un elevato livello di politicizzazione – ad una corte composta da giudici il cui ruolo esige un grado di imparzialità che trascende la dimensione delle relazioni tra Stati[9], tale Protocollo ha costituito un importante inteso conferire centralità alla Corte europea dei diritti dell’uomo, elevandola ad organo giurisdizionale permanente ed attribuendo alla medesima competenza obbligatoria ed esclusiva in materia di ricorsi individuali ed interstatali. Per l’effetto, ferma restando la facoltà, per gli Stati in controversia, di addivenire ad una composizione amichevole della lite (art. 39 CEDU), un’Alta Parte contraente che intenda azionare la procedura di cui all’art. 33 CEDU dinanzi alla Corte, una volta superato il giudizio di ricevibilità ed ammissibilità del ricorso, potrà vedere la propria causa decisa nel merito mediante sentenza vincolante ai sensi dell’art. 46 CEDU.

 

2.1. ‘Different, but the same’: aspetti procedurali e sostanziali del ricorso interstatale quali piani giustapposti (e non autonomi) da cui ricavare fisionomia e ratio dell’art. 33 CEDU

Secondo quanto emerge dal Preambolo della Convenzione, il raggiungimento della precipua finalità che anima l’azione del Consiglio d’Europa (vale a dire, la realizzazione di un’unione più stretta tra i suoi membri) passa necessariamente attraverso la salvaguardia e lo sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In questo senso, mediante la firma e la successiva ratifica della Convenzione, gli Stati europei si sono formalmente impegnati ad adempiere agli obblighi ritenuti necessari al fine di assicurare la garanzia collettiva dei diritti enunciati nella Convenzione medesima e riconosciuti dalle Alte Parti contraenti in favore di ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione.

A ben vedere, dunque, l’interesse che parrebbe animare ciascun Stato contraente coincide solo ed esclusivamente con la tutela dei diritti umani. A rigore di logica, dunque, lo strumento procedurale interstatale non può in alcun modo essere utilizzato per sottoporre all’attenzione della Corte EDU eventuali violazioni di interessi particolari rispetto ai quali lo Stato pretende di essere titolare diretto ed esclusivo[10]. Ciò si pone in netto contrasto con il funzionamento del modello della protezione diplomatica[11], che fino a quel momento aveva presidiato qualsiasi azione intrapresa dallo Stato a tutela di un proprio cittadino nell’eventualità in cui quest’ultimo avesse subito un illecito del quale un altro Stato si sia reso responsabile.

Secondo l’impostazione classica del diritto internazionale generale, già sopra enunciata, l’individuo non vanta mai un interesse proprio, essendo relegato al ruolo di mero beneficiario dell’azione internazionale eventualmente intrapresa in suo favore dallo Stato di cittadinanza.

Un tale mutamento di paradigma aveva trovato immediato riscontro già nelle prime decisioni pronunciate dalla Commissione EDU: a partire dal caso Austria c. Italia[12], nonché come altresì ribadito in occasione della controversia Irlanda c. Regno Unito[13], i giudici di Strasburgo hanno statuito che il ricorso interstatale di cui all’art. 33 CEDU (così come anche la procedura prevista dal previgente art. 24 della Convenzione) rappresenta un rimedio animato da una ‘ratio’ diametralmente opposta rispetto a quella caratterizzante i tradizionali meccanismi di risoluzione delle controversie tra Stati, ponendo al centro della tutela solo ed esclusivamente l’individuo, da intendersi quale persona fisica o giuridica cui la Convenzione attribuisce la titolarità dei diritti fondamentali.

Da ciò deriva che gli obblighi cui le Alte Parti contraenti hanno dichiarato di voler aderire – lungi dall’instaurare una ‘trama’ di vincoli giuridici in forza dei quali uno Stato è tenuto ad adottare determinate condotte vis-à-vis ciascuno degli altri Stati parte di un trattato, ovvero nei confronti dell’intera comunità internazionale, come accade per la gran parte degli accordi multilaterali – sono destinati ad instaurare un regime obiettivo volto ad assicurare un certo status giuridico in capo a singoli individui presenti in una determinata area territoriale.

Peraltro, da tale natura oggettiva del ricorso interstatale discende, quale conseguenza procedurale, l’assenza di qualsivoglia condizione di ‘reciprocità’ al fine di azionare il meccanismo di ricorso ex art. 33 CEDU, che dunque non dev’essere inteso come rimedio strumentale all’instaurazione di un contenzioso ‘meramente’ bilaterale: ciò è vero al punto tale che, secondo quanto statuito dalla Commissione EDU mediante la già citata decisione resa in Austria c. Italia[14], un ricorso interstatale può essere avviato da uno Stato anche con riferimento ad accadimenti verificatisi prima ancora che il ricorrente accedesse formalmente alla Convenzione.

Ancora, in occasione del ricorso promosso congiuntamente da Francia, Norvegia, Danimarca, Svezia e Paesi Bassi avverso la Turchia nel contesto delle presunte violazioni di diritti umani avvenute durante il regime militare vigente intorno agli anni ’80 – divenuto successivamente oggetto di composizione amichevole tra le parti in causa –, la Commissione EDU evidenziò come a ciascun Stato parte viene riconosciuta la facoltà di convenire dinanzi alla Corte un altro Stato contraente che si sia reso responsabile di aver violato una disposizione rispetto alla quale lo Stato ricorrente abbia apposto una riserva, non essendone dunque vincolato[15]. Tale regime obiettivo di tutela soffre una deroga soltanto nell’ipotesi in cui uno Stato che non sia parte della Convenzione intenda adire la Corte EDU mediante ricorso, sia esso individuale ovvero interstatale: è quanto emerge dalla decisione con cui, in data 29 ottobre 2020, i giudici di Strasburgo hanno dichiarato inammissibile il ricorso interstatale promosso dalla Repubblica Democratica del Congo nei confronti del Belgio[16].

Appare chiaro, dunque, come sia proprio la dimensione individuale a permeare l’intero assetto della Convenzione: di conseguenza, alla luce di quanto appena rilevato, il meccanismo di ricorso interstatale disciplinato ex art. 33 CEDU sembrerebbe potersi posizionare sul medesimo piano dell’omologo individuale, rappresentando uno strumento ‘alternativo’ rispetto al quale gli individui si pongono sempre come destinatari ultimi della tutela.

Ciò posto, ci si potrebbe ragionevolmente attendere che, almeno da un punto di vista procedurale, i due meccanismi di ricorso siano disciplinati in maniera uniforme, essendo subordinati alle medesime condizioni di ricevibilità. Tuttavia, in maniera piuttosto singolare, ciò non accade, anche se – come si vedrà a breve – alcune recenti decisioni della Corte EDU hanno tentato di apportare un correttivo a tale incoerenza strutturale. Anzitutto, come già accennato, il dato letterale dell’art. 33 CEDU conferisce a ciascuno Stato il diritto di ricorrere dinanzi alla Corte mediante ricorso interstatale ogniqualvolta sia riscontrabile la presunta violazione di una o più disposizioni della Convenzione.

Tale requisito, per la verità abbastanza sommario, deve necessariamente essere posto in correlazione con quanto previsto ex art. 35 CEDU, recante previsioni destinate a regolare le condizioni di ricevibilità dei ricorsi. Trattasi, a ben vedere, di una norma ‘scomponibile’ in due blocchi separati. Invero, il par. 1 appare connotato da un taglio più generale, essendo ugualmente applicabile a ricorsi tanto individuali quanto interstatali e prevedendo le due regole del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, da un lato, nonché del periodo di sei mesi dall’adozione della decisione definitiva di diritto interno.

Quanto al previo esaurimento delle vie di ricorso interne, nell’ambito della procedura di ricorso interstatale la Corte EDU provvede ad accertare tale requisito verificando se gli individui nel cui interesse lo Stato propone la propria azione potessero effettivamente – e dunque non soltanto ‘in teoria’ – avvalersi di rimedi idonei a garantire loro una qualche forma di risarcimento, ovvero non fossero in grado di adire le autorità giudiziarie interne a causa di particolari circostanze concrete[17].

Ancora, tale regola soffre un’ulteriore eccezione laddove si sia in presenza di una c.d. ‘administrative practice’[18]: quest’ultima consiste in una situazione continua derivante da violazioni, compiute dallo Stato direttamente ovvero in suo nome, che rendono impossibile o privo di effettiva utilità qualsivoglia tentativo di instaurare procedimenti interni, ed in forza delle quali gli individui ‘concerned’ divengono automaticamente vittime, purché la situazione sia adeguamente corroborata prima facie da elementi probatori a ciò idonei[19]. Diversamente, i successivi par. 2 e 3 dell’art. 35 CEDU recano al proprio interno specifiche previsioni la cui operatività è esplicitamente circoscritta alla procedura individuale, disciplinata ex art. 34 CEDU. Peraltro, con riferimento a quest’ultima, la Convenzione prevede che tale tipologia di ricorso possa esser legittimamente azionato soltanto da una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga di esser vittima di una violazione, posta in essere da una delle Alte Parti contraenti, dei diritti nella Convenzione o nei suoi Protocolli. A ben vedere, dunque, il ricorso interstatale sembrerebbe beneficiare, quantomeno ad una prima occhiata, di condizioni di ricevibilità ben più vantaggiose e meno stringenti rispetto alla procedura individuale: circostanza, questa, che dovrebbe – almeno ‘sulla carta’ – giustificare un uso ben più frequente del meccanismo di cui all’art. 33 CEDU il quale, nonostante la recente riscoperta, sconta ancora un certo ritardo rispetto al gran numero di ricorsi individuali di cui la Corte viene regolarmente investita (non senza destare qualche preoccupazione, in più di un autore, per ciò che riguarda lo standard di efficienza e di gestione del contenzioso[20]).

Nondimeno, l’apparente trattamento ‘di favore’ riservato dalla Convenzione alla ricevibilità dei ricorsi interstatali è stato recentemente fatto oggetto di chiarimenti da parte della Corte. Quest’ultima, in occasione della decisione con cui ha ritenuto opportuno declinare la propria giurisdizione nell’ambito della controversia Slovenia c. Croazia[21], ha enunciato il principio generale secondo cui uno Stato non possa adire la Corte mediante il meccanismo di ricorso interstatale disciplinato ex art. 33 CEDU per ottenere la tutela di prerogative eventualmente esistenti in capo ad un’entità giuridica che, non essendo ricompresa nel novero dei soggetti cui l’art. 34 CEDU attribuisce in via esclusiva la legittimazione ad avviare la procedura individuale – persone fisiche o giuridiche, organizzazioni non governative, gruppi di privati –, non può dirsi titolare di diritti in forza della Convenzione. Dunque, pur trattandosi di due tipologie di ricorso presidiate da regole procedurali che differiscono tra loro in maniera piuttosto evidente, i giudici di Strasburgo hanno evidenziato, in maniera piuttosto inedita rispetto alla pregressa giurisprudenza riguardante i ricorsi interstatali, l’esistenza di una c.d. «direct systemic correlation» tra i due meccanismi di ricorso, interstatale ed individuale, previsti dalla Convezione. La Corte, tuttavia, ha enucleato tale interdipendenza tra gli artt. 33 e 34 CEDU conferendo una notevole ‘vis attractiva’ alla disciplina prevista per l’attivazione della procedura individuale, operandone un’applicazione estensiva che, trasponendo un requisito procedurale specificamente previsto per la procedura individuale ad un meccanismo di ricorso differente[22], oltrepassa il dato letterale della Convenzione. Ad avviso della Corte, il ragionamento poc’anzi illustrato è funzionale a contrastare un utilizzo pretestuoso del meccanismo di ricorso interstatale, evitando che il medesimo venga azionato abusivamente dagli Stati al fine di ampliare arbitrariamente il novero dei soggetti cui la Convenzione riconosce la titolarità di diritti umani e libertà fondamentali; ciò, infatti, si porrebbe in netta contraddizione con l’intrinseca finalità della medesima, espressa dallo storico dictum statuito in Cipro c. Turchia, a tenore del quale «[…] it is the individual, and not the State, who is directly or indirectly harmed and primarily injured by a violation of Convention rights»[23].

Ciò premesso, si evince dunque che il meccanismo di ricorso interstatale, sebbene disciplinato dall’art. 33 CEDU in termini assolutamente generali, sia stato successivamente ‘plasmato’ dalla giurisprudenza di Strasburgo ad immagine e somiglianza del rimedio individuale, rappresentando un alternativo strumento di tutela (an ‘additional pathway’, come si legge nel Draft Report[24] elaborato dal c.d. Steering Committee costituito in seno al Consiglio d’Europa, i cui lavori sono attualmente finalizzati all’implementazione di tecniche che consentano il coordinamento tra ricorsi individuali ed interstatali nonché, più in generale, un’ottimizzazione del carico pendente relativo a questi ultimi) a vantaggio dell’individuo, assoluto titolare dei diritti sanciti dalla Convenzione e, per l’effetto, beneficiario diretto della funzione aggiudicatrice della Corte EDU, anche laddove ad agire sia lo Stato.

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