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30 anni fa scompariva l’Unione Sovietica: bilancio di un trentennio

Vladimir Putin with SergeyLavrov
Vladimir Putin with SergeyLavrov

È una gelida giornata di fine autunno – o di inizio inverno, secondo il calendario russo. Lo scenario è particolarmente suggestivo: nella spettacolare foresta di Belaveža, macchia verde che separa Bielorussia e Polonia, tre capi di Stato si incontrano in una spaziosa gosdača (letteralmente “dača di Stato”) a Viskuli. I politici in questione sono il presidente russo Boris El’cin, quello ucraino Leonid Kravčuk e il capo di Stato bielorusso Stanislaŭ Šuškevič. Quello che si apprestano a firmare non è un documento di poco conto: è allo stesso tempo la constatazione del decesso e il testamento dell’Unione Sovietica, che da quel giorno “cessa di esistere come soggetto di diritto internazionale e come realtà geopolitica”. Con effetto praticamente immediato[1]. Al suo posto, per così dire, viene fondata la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), che dell’URSS diventa un surrogato assai annacquato. Niente più ordini dal PCUS, niente più posizione sull’attenti quando “govorit Moskva” (“parla Mosca”), niente più centralismo democratico alla sovietica.

Convitato di pietra del vertice di Belaveža è proprio il segretario generale del PCUS, Michail Gorbačëv, che ne viene tenuto all’oscuro. Qualcuno dei partecipanti teme infatti che da un momento all’altro la gosdača venga accerchiata dai militari fedeli al PCUS e che le tre delegazioni nazionali vengano messe in gattabuia per sedizione. Timori che però si rivelano infondati, perché l’URSS non è più quella di una volta, quando non si faceva troppi problemi a mandare l’Armata rossa a sedare nel sangue la primavera di Praga, o prima ancora a contrastare gli studenti ungheresi. Ormai sul c.d. secondo mondo imperversa il “vento del cambiamento” – come ebbero a chiamarlo gli Scorpions in un celebre brano del 1990 (riferito alla caduta del muro di Berlino dell’anno prima).

Un vento che aveva iniziato a soffiare proprio con l’elezione a segretario di Gorbačëv nel 1985, e quindi proseguito con il ritiro sovietico nella debacle afghana, la caduta del Muro in Germania Est, e il proliferare di dichiarazioni di sovranità dai Baltici all’Azerbaigian. L’URSS è il malato politico ed economico d’Europa, e la medicina scelta da Gorbačëv consiste nelle ormai celebri glasnost’ (trasparenza) e perestrojka (rinnovamento), sperando che il riformismo funga da panacea. Col senno di poi, non sarà così. Il segretario sovietico cerca quantomeno di metterci una pezza con un nuovo trattato dell’unione che lasci più autonomia alle repubbliche sorelle sovietiche, ma quest’ultimo disperato tentativo naufraga inesorabilmente con il putsch di agosto. Diversi burocrati e alti ranghi militari nostalgici dell’URSS dei tempi d’oro tentano infatti il tutto per tutto inscenando nell’agosto 1991 un golpe che possa frenare il declino sovietico, ma ci vogliono appena tre giorni prima che le loro speranze si infrangano sulla resistenza di El’cin, esercito e popolazione (oltre a Gorbačëv).

Tra le vittime (metaforiche) del colpo di Stato non ci sono solo i propositori, ma anche Gorbačëv stesso, la cui carriera politica è ormai bella che finita[2]. Al momento dell’accordo di Belaveža, Gorbačëv ha quindi perso gran parte della sua autorità e autorevolezza – mentre davanti al suo antagonista El’cin si spiana la strada verso lo scettro di “nuovo padrone della Russia”. Poco importa che lo sia solo della Russia e non più dell’impero. Due settimane dopo Belaveža, questa volta nella città kazaka di Alma-Ata (oggi Almaty), altre otto repubbliche (ex-)sovietiche entrano nella CSI – ma non gli Stati baltici, il cui sguardo è ormai diretto all’Occidente e all’Europa.

La struttura giuridica dell’impero che aveva tenuto sotto scacco Washington per mezzo secolo finisce così per disgregarsi in poco più di due settimane (8-25 dicembre 1991). Il resto è storia: per El’cin si sarebbe rivelata una carriera di oneri più che di onori[3]. L’economia russa si sarebbe confermata piena di problemi strutturali che il presidente avrebbe cercato di risolvere con una terapia d’urto post-traumatica, fatta di privatizzazioni, liberismo e laissez-faire – finendo per aggravare la situazione (ma non per gli oligarchi, che avrebbero fatto incetta di interi pezzi di Stato). Nel 1999 sarebbe infine iniziata l’era contemporanea, quella della presidenza Putin, per i russi “uomo della provvidenza” capace di far tornare la Russia agli antichi fasti, sfruttando anche il ripido aumento dei prezzi del gas naturale di cui Mosca abbondava.

Putin che, come affermato nel 2005, ritiene non casualmente la caduta dell’URSS come “la più grande catastrofe geopolitica del secolo”. Sta di fatto che uno spazio post-sovietico omogeneo non esiste quasi più: alcuni hanno mantenuto un rapporto di collaborazione e amicizia reciproca con la “madre Russia”. Tra questi la Bielorussia di Lukašėnka, inizialmente intimorito da Mosca ma che ha dovuto rassegnarsi al cospetto del Cremlino con il cappello in mano nell’estate del 2020 per evitare di venire rovesciato in patria. Rapporti di collaborazione con Mosca riguardano inoltre l’Armenia e l’Asia centrale. Non mancano però le “sorelle coltelli”, che, chi prima chi dopo, ha preso a considerare Russia come nemico giurato. Si parla soprattutto della Georgia – in cui il sentimento anti-russo ha raggiunto l’apice nella guerra-lampo del 2008 – ma anche dell’Ucraina del post-Evromaidan. C’è anche chi, come l’Azerbaigian, è finito da una sfera d’influenza a un’altra (Turchia)[4].

Trent’anni dopo la fine dell’URSS, e dopo una drammatica serie di conflitti (Cecenia, Nagorno-Karabakh, Georgia, Donbass – solo per menzionare i più celebri), il secondo mondo è davvero cambiato.

 

[1] Dina Newman, “How Three Men Signed the USSR's Death Warrant,” BBC, 24 dicembre 2016, https://www.bbc.com/news/magazine-38416657.

[2] Francis X. Clines, “End of the Soviet Union; Gorbachev, Last Soviet Leader, Resigns; U.S. Recognizes Republics' Independence,” New York Times, 26 dicembre 1991, https://www.nytimes.com/1991/12/26/world/end-soviet-union-gorbachev-last-soviet-leader-resigns-us-recognizes-republics.html.

[3] Interessante è la narrazione che ne fa l’ex premier Gajdar: Egor Gajdar, Collapse of an Empire: Lessons for Modern Russia (Brookings Institution Press: Washington D.C., 2010).

[4] Cfr. Helena Rytövuori-Apunen, Power and Conflict in Russia’s Borderlands: the Post-Soviet Geopolitics of Dispute Resolution (Londra: Bloomsbury, 2019).