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Principio di non colpevolezza-innocenza presunta-diritto di partecipare al processo penale

Principio di non colpevolezza-innocenza presunta-diritto di partecipare al processo penale
Principio di non colpevolezza-innocenza presunta-diritto di partecipare al processo penale

Il commento che segue, senza alcuna pretesa di esaustività, si sofferma sugli aspetti principali della Direttiva 343, sul rafforzamento del principio della presunzione di innocenza e, analizzando quest’ultima nelle sue tante declinazioni, mira a verificarne l’effettivo rispetto come principio acquisito al patrimonio giuridico eurounitario.

 

Alcune considerazioni sulla Direttiva 2016/343/UE in tema di rafforzamento di alcuni aspetti del principio della presunzione di innocenza e sul diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali

 

di Rossella Antuoni*

 

SOMMARIO:

1. Genesi e ratio della direttiva

2. La presunzione di innocenza

3. (segue) I corollari del diritto al silenzio ed a non autoincriminarsi e del diritto di presenziare al processo penale

4. La direttiva 2016/343 nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia

5. Osservazioni conclusive

 

1. Genesi e ratio della direttiva

Preliminarmente, è bene precisare che la competenza a legiferare e a regolare i diritti delle persone indagate o accusate da parte dell’Unione europea è stata una recente conquista, intervenuta a seguito di un lungo e complesso processo [1].

In origine [2], infatti, i Trattati istitutivi della Comunità europea non prevedevano alcuna competenza in questo ambito né, in generale, prefiguravano un sistema di cooperazione giudiziaria[3]. Solamente col Trattato di Lisbona, le Istituzioni europee, sempre più consapevoli della necessità di una vera armonizzazione per il corretto funzionamento del principio del reciproco riconoscimento, seguendo la road map del programma di Stoccolma, hanno iniziato ad approvare una serie di direttive sui diritti processuali, superando anche le resistenze degli Stati membri.

Dunque, il Trattato di Lisbona[4] ha finalmente dotato l’Unione europea di una competenza espressa in materia processuale, sostituendo le decisioni quadro con le direttive, che sono diventate la principale fonte di armonizzazione dei diritti delle persone coinvolte in un processo penale nell’Unione europea.

L’articolo 82, par. 2 del TFUE riconosce, infatti, "diritti della persona nella procedura penale”, deliberando con direttive secondo il procedimento legislativo ordinario. Le istituzioni europee hanno preso sempre più consapevolezza del fatto che, per garantire un’applicazione coerente degli standard che sono contenuti negli artt. 5 e 6[5] della CEDU e negli artt. 47 e 48[6] della Carta dei diritti fondamentali, il Legislatore europeo avrebbe dovuto creare una cornice giuridica comune, per rafforzare i diritti processuali delle persone indagate o accusate, riducendo le differenze tra i distinti sistemi giudiziari e le tradizioni costituzionali di ciascuno Stato membro. L’adozione di uno statuto processuale di natura equivalente e comparabile negli Stati membri, di cui si possano avvalere sia i cittadini della UE che gli stranieri che circolino nel suo territorio, è funzionalmente orientato a raggiungere l’obiettivo dell’armonizzazione. Stabilendo un modello minimo, l’Unione cerca di favorire una regolazione e un’applicazione uniforme del diritto alla tutela giudiziaria effettiva e a un equo processo negli Stati membri, avanzando, sempre di più, nella costruzione di uno spazio europeo di giustizia penale.

In tale contesto giuridico, decisamente proteso al rafforzamento della fiducia nei sistemi di giustizia penale in uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, si sviluppa la genesi della direttiva 2016/343/UE, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo.

La direttiva segue una struttura complessa: essa si compone di 16 articoli, preceduti da 51 consideranda, che ne esplicano l’impianto contenutistico.

Approvata il 9 marzo 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea l’11 marzo 2016, la direttiva dovrà essere recepita entro l’1 aprile 2018 dagli Stati membri, i quali dovranno conformare il loro diritto interno ad essa. La direttiva de qua rappresenta uno strumento operativo concreto per dare attuazione al progetto dell’Unione europea, vocato all’accrescimento della fiducia reciproca tra gli Stati membri, attraverso il consolidamento di una cultura giudiziaria comune, ai sensi dell’art. 82, par. 2 lett b) del TFUE, che ne costituisce la base giuridica. La ratio, dichiaratamente perseguita, come precisa l’art. 1 è dare concretizzazione al progetto di rafforzamento del diritto ad un processo equo e delle garanzie delle persone indagate o imputate nei procedimenti penali, all’interno dello spazio europeo di giustizia.

L’architettura ultima e definitiva della direttiva è frutto di un compromesso[7], preceduta da vivaci dibattiti sviluppatisi intorno alla esatta portata di talune disposizioni della direttiva. In particolare, due sono le disposizioni che hanno generato contrasti: in primo luogo, quella relativa all’ambito di applicazione, che, nel testo finale, risulta limitato ai soli procedimenti penali, come intesi dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ad esclusione, dunque, dei procedimenti civili e amministrativi, inclusi quelli aventi carattere sanzionatorio, come i procedimenti in materia di concorrenza, commercio, servizi finanziari, circolazione stradale, fiscalità o maggiorazioni d’imposta; in secondo luogo, la disposizione relativa all’ambito di applicazione ratione personae. Anche qui il dibattito è stato alimentato in merito alla sua applicabilità alle anche alle persone giuridiche: ebbene, il testo definitivo ne limita, invece, l’applicabilità alle sole persone fisiche. La ratio, ben espressa dal considerandum n. 13[8], deriva dal fatto che i diritti derivanti dalla presunzione di innocenza non sorgono in capo alle persone giuridiche allo stesso modo rispetto a quanto accade per le persone fisiche. Nonostante i lodevoli intenti, i primi commenti relativi alla direttiva tendono al deludente.

È stato sostenuto che, nonostante l’evocazione di argomenti che hanno il massimo rilievo nei diritti processuali interni, la conformazione del prodotto legislativo risulta, in realtà, inadeguata, poiché “composta di canoni che volano basso, arrivando solo in certi punti a sfiorare la sostanza dell’intitolazione eroica”.

Risulta, al contempo, inappagante rispetto al Libro verde sulla presunzione di innocenza del 4 aprile 2016, che la Commissione delle Comunità europee aveva distribuito attraverso gli Stati membri e che ne rappresenta, in qualche modo, il moto d’origine e, parimenti, inappagante rispetto al Programma di Stoccolma, punto 2,4, sui diritti della persona nei procedimenti penali, ove il Consiglio invitava la Commissione europea ad “esaminare ulteriori aspetti dei diritti procedurali minimi di indagati e imputati e valutare se sia necessario affrontare altre questioni, ad esempio, la presunzione di innocenza, per promuovere una migliore cooperazione nel settore”.

Ad avviso di chi scrive, si apprezza l’intento che ha mosso la direttiva, nel voler rafforzare e consolidare il principio della presunzione di innocenza, che costituisce il fulcro ineliminabile per ogni diritto processuale penale di tipo liberale e garantista e che dovrebbe avere acquisito carattere di dogma scolpito negli ordinamenti di tutti gli Stati membri.

 

2. La presunzione di innocenza

Poiché il fulcro della direttiva, che qui si commenta, è il principio della presunzione di innocenza, pare d’uopo contestualizzare, seppur brevemente, la stessa.

La presunzione di innocenza è contenuta nella CEDU e negli altri atti convenzionali, che il nostro ordinamento ha stipulato. E la si declina in diversi modi: sia come regola di trattamento, dal momento che il soggetto va trattato sempre come innocente; sia come regola probatoria, posto che, attraverso di essa, si distribuisce l’onere della prova tra le parti: se il cittadino si presume innocente, non può incombere su di lui l’onere di dimostrare di esserlo, ma, viceversa, sulla pubblica accusa incomberà l’onere della prova contraria. Infine, si atteggia come regola di giudizio, in quanto al giudice si impone di assolvere, se non sia stata dimostrata dall’accusa la responsabilità dell’imputato, in ordine al reato ascrittogli, al di là di ogni ragionevole dubbio[9].

Per come costruito, nelle disposizioni della direttiva, il principio della presunzione di innocenza è assicurato fino a quando non sia stata legalmente provata la colpevolezza[10]. L’ampiezza del sintagma [11] sembrerebbe legittimare gli Stati membri a scegliere moduli processuali che anticipano la soglia di cessazione della presunzione di innocenza al momento della pronuncia della sentenza di primo grado. La formula è assolutamente identica a quella prevista dall’art. 6, par. 2 CEDU, in relazione al quale la giurisprudenza non esclude la compatibilità di forme di esecutività della sentenza di primo grado, anche in pendenza del giudizio di impugnazione[12].

Questa regola appartiene già ad alcuni ordinamenti anglosassoni, per i quali la sentenza di condanna di primo grado risulta immediatamente esecutiva[13]. Infatti, nei sistemi processuali penali di tali paesi, le impugnazioni sono scarsamente praticate. L’appello, al contrario di quanto avviene nel nostro ordinamento, risulta avere limiti molto rigorosi e viene scoraggiato dal fatto che la condanna di primo grado è immediatamente esecutiva e che il giudizio di appello può concludersi anche con una pena più grave e, inoltre, dal fatto che il tempo di carcerazione decorso durante la celebrazione dell’appello non può essere deducibile dalla corrispondente pena detentiva comminata con la sentenza di condanna. Infine, il giudice può imporre notevoli oneri economici a carico dell’appellante, peraltro assicurandoli con specifiche garanzie patrimoniali. Chiaramente, sono condizioni che fungono da notevole deterrente e, dunque, hanno interesse a ricorrere in appello solo i condannati a pena detentiva di una certa gravità, per i quali il rischio di aggravamento è insignificante. Diversamente, nel nostro ordinamento giuridico, la presunzione di innocenza si atteggia come presunzione di non colpevolezza: si tratta di un principio sicuramente politico, ma che assurge a dignità costituzionale per rafforzare i valori della persona e i suoi inviolabili diritti[14]. Esso sembra avere decisamente portata più ampia rispetto alla presunzione di innocenza come descritta nella direttiva, nel senso che l’imputato viene considerato non colpevole fino a quando non vi sia una sentenza che accerti l’esistenza del fatto-reato in maniera definitiva, alla stregua dei principi di cui agli artt. 3 e 27, comma 2 della Carta Fondamentale[15].

Ciò comporta il divieto di anticipare la pena, mentre consente l’applicazione delle misure cautelari. Secondo la Corte costituzionale[16], questa disposizione va interpretata nel senso che l’imputato non deve essere considerato né innocente, né colpevole, ma soltanto, appunto, imputato.

Peraltro, come è noto, le prime affermazioni sulla necessità dell’introduzione, nel sistema processuale penale, della presunzione d’innocenza, risalgono al 1764 e sono contenute nelle opere di Pietro Verri e Cesare Beccaria. Nel nostro ordinamento ci furono dei dibattiti tra Scuola Positiva e Scuola Classica seguiti dall’affermarsi della Scuola tecnico-giuridica con l’avvento della legislazione fascista. Fu grazie alla Costituzione che la presunzione d’innocenza venne elevata a principio cardine del nostro ordinamento.

Dunque, la direttiva non risulta particolarmente innovativa, sotto questo profilo, per ordinamenti come il nostro.

3. (segue) I corollari del diritto al silenzio ed a non autoincriminarsi e del diritto di presenziare al processo penale

Tra le sue disposizioni, è l’art. 3, in apertura del Capo II, interamente dedicato alla presunzione di innocenza, la norma che fonda tale principio come principio fondamentale e primario, che deve ricevere la massima tutela tra i diritti processuali e che ogni Stato membro deve garantire. La norma coì recita: “Gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza”.

La citata disposizione subordina la presunzione di innocenza sino alla “colpevolezza legalmente provata”: lo spessore risulta minore rispetto a quanto previsto dal nostro ordinamento, in cui la presunzione rimane fino alla sentenza definitiva.

Ebbene, la presunzione di innocenza viene declinata, nelle disposizioni della direttiva, secondo un triplice profilo: il divieto di presentare in pubblico l’indagato o l’imputato come colpevole, ai sensi degli artt. 4 e 5[17]; l’onere della prova, come previsto dall’art. 6 e, infine, il diritto al silenzio e alla non autoincriminazione, di cui all’art. 7. In merito al divieto di presentare in pubblico il soggetto indagato o imputato come colpevole, la direttiva, all’art. 4 (che rappresenta la disposizione che più di tutte le altre introduce un cambiamento effettivo per l’ordinamento giuridico italiano in termini di crescita delle garanzie individuali e del livello di civiltà) prescrive agli Stati, con riferimento alle dichiarazioni da parte delle Autorità pubbliche e alle decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza, l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per garantire che, nelle comunicazioni coi mass media, non sia presentata la persona come colpevole, finché la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata: si dovrebbe, nel concreto, con preciso riferimento alle misure coercitive ante iudicium, evitare il ricorso a quelle di coercizione fisica, come stabilisce l’art. 5, come manette ai polsi, gabbie o ferri alle gambe, a meno che queste non risultino necessarie per ragioni di sicurezza o per impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con testimoni e vittime. Viceversa, gli Stati dovrebbero informare le autorità pubbliche della importanza di rispettare la presunzione di innocenza, nel divulgare informazioni ai media. Sono fatti salvi, ovviamente, i diritti di libertà di stampa, come previsto dal considerandum n. 19[18], ma sempre in modo da non presentare il soggetto indagato o imputato come colpevole.

Con riferimento al profilo dell’onere probatorio, di cui all’art. 6[19] (la cui formula risulta minimalista e piuttosto compromissoria) la direttiva esplicita che l’onus probandi circa la colpevolezza di indagati o imputati incombe sulla pubblica accusa e che qualsiasi dubbio  circa la sua sussistenza dovrebbe valere a favore del soggetto, sottoposto all’accertamento penale. Si dimostra, così, la prevalenza del principio del favor rei, insito nella cultura processual- penalistica liberale.

Sono fatti salvi i poteri relativi all’accertamento esercitati dal giudice e la sua indipendenza nel valutare la colpevolezza. Comparando la disposizione dell’art. 6 con l’art. 507 c.p.p.[20], per comprendere se esista un margine di utilità concreta rispetto alla situazione del nostro ordinamento interno, ne deriva che essa si rivela effettivamente utile, ad onta del suo testo compromissorio. Infatti, l’art. 6 della direttiva definisce, in modo chiaro, un concetto che il nostro ordinamento interno ancora non pronuncia con decisione, ovvero quello secondo cui la pubblica accusa ha un preciso onere della prova, non pari a quello dell’attore del processo civile, ma anzi più gravoso, posto che al p.m. (e non all’attore) incombe la necessità di superare la presunzione di cui si discorre. L’incipit della norma pone un regola rispetto alla quale “l’eventuale obbligo per il giudice o il tribunale competente di ricercare le prove” è inteso come eccezione, meramente tollerabile. Sostanzialmente, la direttiva, sotto questo profilo, nei riguardi dell’ordinamento italiano, esclude la compatibilità col sistema europeo di una disposizione che consente, nella sua applicazione, la completa soppressione dell’onere della prova incombente sul pubblico ministero ed esclude che le eccezioni alla regola possano essere espresse con una norma a carattere discrezionale, a mente della quale si consenta al giudice di elidere l’obbligo gravante sull’accusa in assenza di presupposti definiti in modo vincolante. D’altronde, l’art. 507 c.p.p. ha cagionato notevoli danni[21]: l’azione penale viene spesso esercitata in assenza del giusto corredo dimostrativo, senza che l’udienza preliminare svolga il suo ruolo di vaglio sulla correttezza dell’azione esercitata. In un siffatto quadro, è proprio la presunzione di innocenza che viene violata. Ebbene, l’art. 6, allora, esige che il nostro legislatore riplasmi l’art. 507 c.p.p. in termini compatibili con la direttiva e col processo: sarebbe sufficiente ricostruirlo nei termini di una fattispecie vincolata alla sussistenza di situazioni eccezionali delineate dal legislatore.

Infine, la presunzione di innocenza si atteggia, per i soggetti indagati o imputati, anche, sulla scia del consolidato principio romanistico del “nemo tenetur se detegere”, come diritto di rimanere in silenzio e diritto alla non autoincriminazione, secondo la lettera dell’art. 7[22]: le Autorità non dovrebbero, in sostanza, costringere gli indagati o imputati a fornire informazioni o a produrre prove e documenti, qualora essi non desiderino farlo. Il silenzio è riconosciuto solamente in relazione al reato contestato, ma non anche con riferimento ad ogni altro fatto che sia riferibile ai soggetti, come prevede l’art. 7, al par 1.

Sul diritto alla non autoincriminazione, la direttiva viene coordinata con le disposizioni della direttiva 2012/13UE, sul diritto all’informazione nei procedimenti penali, e prevede che, se gli indagati o imputati ricevano informazioni sui loro diritti, essi debbano essere, contestualmente, informati in merito al diritto di non autoincriminarsi, come applicabile in base al diritto nazionale (ai sensi dei consideranda n. 31 e 32[23]). Non è impedito, in virtù dell’esercizio di tale diritto, alle Autorità di raccogliere prove, che possono essere ottenute lecitamente, anche col ricorso a strumenti coercitivi, indipendentemente dalla volontà dell’indagato o imputato. Il diritto al silenzio e alla non autoincriminazione non può, però, essere valutato come prova che essi abbiano commesso il reato ascritto e non può essere utilizzato contro di loro. Riflettendo sul testo, è inevitabile la considerazione che la direttiva sia stata abbastanza avara, poiché non rientrano nella sua previsione, temi fondamentali come il rapporto tra la presunzione di innocenza e l’abuso della custodia cautelare, come pure, vi è soltanto un cenno a tanti mercimoni tra comportamenti collaborativi dell’imputato e sconto di pena.

Si riconosce, infine, che, in relazione ai reati meno gravi, lo svolgimento del procedimento o anche solo di alcune fasi, possa avvenire per iscritto o senza un interrogatorio dell’indagato o imputato da parte delle autorità, purché ciò risulti conforme al diritto a un equo processo.

Altro profilo cui è dedicata la direttiva, specificatamente al Capo III, è relativo alla partecipazione al processo, ai sensi dell’art. 8[24]. La partecipazione diretta dell’imputato al processo rappresenta la modalità unica ed essenziale per poter esercitare i propri diritti e per difendersi al suo interno.

Tale diritto è ampliamente riconosciuto nel nostro ordinamento, che garantisce il diritto di difesa, anche per effetto dell’accezione «convenzionale» di quest’ultimo (art. 6 CEDU), non solo per quanto concerne l’assistenza tecnica e la rappresentanza della parte privata in ogni fase  del  giudizio,  ma  anche  con  riferimento  alla  possibilità   dell’imputato   di  partecipare personalmente al procedimento che lo riguarda. Naturalmente, il principio implica che la partecipazione sia consapevole, e dunque che l’interessato sia capace di intendere ciò che gli accade e di esercitare con consapevolezza, appunto, le proprie scelte processuali. L’effettività della garanzia è stata assicurata, sotto quest’ultimo profilo, da tre norme del codice di rito (artt. 70, 71 e 72), stabilendo la prevalenza dell’interesse difensivo sul coacervo degli interessi che invece sarebbero assicurati attraverso la prosecuzione del giudizio.

In pratica, quando il giudice riscontra l’eventualità che lo stato di mente dell’imputato sia tale da precludere la sua capacità di partecipare coscientemente al processo, dispone accertamenti peritali di verifica (art. 70 c.p.p.). L’adempimento non è necessario quando sussistano già le condizioni per una sentenza di proscioglimento o non luogo a procedere. È dovuto invece, per effetto di una risalente sentenza della Corte costituzionale[25], anche quando la paventata incapacità sia preesistente al fatto. Inoltre, sempre in ragione di  una pronuncia del giudice costituzionale, deve ritenersi che l’incapacità non rilevi solo in quanto determinata da una patologia psichica, cioè riconducibile strettamente alla nozione di infermità mentale, ma anche quando costituisca il frutto di difficoltà neurologiche o fisiologiche a percepire o comunicare, che non siano superabili mediante il ricorso ad un interprete, che possa utilizzare una forma di linguaggio utile all’interazione tra l’imputato ed il mondo esterno[26]. La partecipazione al processo da parte dei soggetti in stato di infermità ha comportato un severo monito da parte della Corte Costituzionale [27] al nostro legislatore proprio sul delicato problema dell’imputato “eternamente giudicabile.” Il diritto alla partecipazione al processo riceve, parimenti, massima valorizzazione nelle disposizioni della direttiva. In particolare, si prevede che gli indagati o imputati siano tutelati nel loro diritto di presenziare al processo penale, in base a norme nazionali, in quanto espressione massima e suprema del principio dell’equo processo. La premessa dalla quale prende le mosse l’atto normativo in esame è il riconoscimento che il diritto dell’imputato a presenziare al proprio giudizio debba essere garantito in tutta l’Unione in quanto espressione del diritto ad equo processo[28].

La direttiva da un lato riconosce tale diritto, considerandolo di natura essenziale,  dall’altro ne sancisce una portata non assoluta: in alcune disposizioni, infatti, è previsto che un procedimento possa concludersi con una pronuncia di colpevolezza o innocenza dell’imputato, anche se questi non vi abbia partecipato al processo. È un’ipotesi che si verifica solo al ricorrere di talune condizioni, ad esempio, che l’indagato o imputato sia stato informato del processo e abbia conferito mandato a un difensore, nominato da lui o dallo Stato, per rappresentarlo in giudizio e che abbia rappresentato l’indagato o l’imputato[29].

Con questa previsione, molto probabilmente, si vuole dare rilievo a quelle situazioni in cui l’imputato abbia avuto notizia del processo – e dell’udienza – per altri canali che non siano quelli pubblici ed ufficiali e in cui lo stesso, dando prova di questa consapevolezza, abbia affidato ad un avvocato il mandato per rappresentarlo e, inoltre, quando l’indagato o imputato sia stato informato in tempo utile del processo e delle conseguenze di una mancata comparizione e sia rappresentato da un difensore[30].

In proposito occorre formulare alcune precisazioni. La circostanza che l’imputato venga avvisato del processo deve essere intesa nel senso che «l’interessato è citato personalmente o è informato ufficialmente con altri mezzi della data e del luogo fissati per il processo in modo tale da consentirgli di venire a conoscenza» dello stesso. In ordine alle modalità con le quali sono fornite le suddette informazioni all’imputato anche nella direttiva viene specificato, in analogia a quanto già posto in evidenza dalla decisione quadro del 2009/299, che si dovrebbe fare attenzione alla diligenza prestata sia dall’autorità giudiziaria nell’informare l’interessato sia da quest’ultimo nel ricevere quelle a lui destinate.

Circa, infine, la necessità di informare l’imputato delle conseguenze della sua mancata presenza, questa deve essere intesa nel senso che occorre chiarire all’interessato che questa sua scelta non impedisce al giudice di pervenire ad una decisione. In tali casi, la decisione potrà essere eseguita nei confronti dell’indagato o imputato giudicato in absentia. Infine, nei casi in cui i soggetti indagati o imputati non possano essere in alcun modo rintracciati, come in caso di fuga o latitanza, gli Stati potranno consentire l’adozione della decisione in absentia e la sua esecuzione. Ma, finanche in questi casi, dovrà essere garantito agli indagati e imputati il diritto a essere informati della possibilità di impugnare la decisione, nonché del diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale (artt. 9 e 10[31]), che consenta di riesaminare il merito della decisione e che possa condurre alla riforma della sentenza precedentemente adottata e, in tale nuovo giudizio, gli Stati membri assicurano agli indagati e imputati il diritto di presenziare e partecipare in modo efficace, esercitando i diritti di difesa.

 

4. La direttiva 2016/343 nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia

A pochissimo tempo dalla sua entrata in vigore, la direttiva 2016/343/UE ha originato i primi dubbi ermeneutici circa l’esatta interpretazione degli artt. 3 e 6. Il caso riguarda il procedimento penale a carico del signor Emil Milev, cittadino bulgaro, il quale, accusato di gravi reati, tra i quali direzione di banda criminale organizzata ed armata, rapimento, furti a mano armata e tentato omicidio, per i quali il codice penale bulgaro prevede pene detentive comprese dai tre anni all’ergastolo. Ebbene, durante la fase dibattimentale, iniziata nel 2015, il Tribunale penale specializzato ha statuito addirittura ben 15 volte sul mantenimento della detenzione e sulle domande di revoca di tale misura custodiale e, tutte le volte, in base ad una norma di diritto processuale interno[32], si è pronunciato senza compiere valutazioni in merito ai motivi che consentivano di supporre che l’imputato avesse commesso i reati contestatigli.

La quaestio iuris principale sollevata può, così, essere sintetizzata: se gli articoli 3 e 6 della direttiva 2016/343/UE debbano essere interpretati nel senso che ostano al parere reso dalla Corte Suprema di Cassazione della Repubblica bulgara, all’inizio del periodo di trasposizione della direttiva, che conferisce ai giudici nazionali, competenti a giudicare su un ricorso proposto contro una decisione di custodia cautelare, la facoltà di decidere se, durante la fase dibattimentale del procedimento penale, il mantenimento di un imputato in custodia cautelare debba essere sottoposto a un controllo giurisdizionale relativo alla questione se vi siano motivi plausibili che consentono di supporre che egli abbia commesso i reati ascrittigli.

In altre parole, si tratta di valutare se il parere della Suprema Corte di Cassazione possa costituire una misura interpretativa del diritto nazionale interno, che possa compromettere gravemente la realizzazione degli obiettivi della direttiva.

Nella sua decisione, la Corte di giustizia, definitivamente statuendo, ritiene che il parere della Corte Suprema di Cassazione del 7 aprile 2016, reso all’inizio del periodo di trasposizione della direttiva 2016/343/UE del Parlamento e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, il quale conferisce ai giudici nazionali competenti a giudicare su un ricorso proposto contro una decisione di custodia cautelare la facoltà di decidere se, durante la fase dibattimentale del procedimento penale, il mantenimento di un imputato in stato di custodia debba essere sottoposto ad un controllo giurisdizionale relativo anche alla questione se vi siano motivi plausibili che consentano di supporre che l’imputato abbia commesso i reati contestatigli, riconoscendo ai giudici ampia discrezionalità, non è tale da compromettere gravemente, dopo la scadenza del termine di trasposizione di tale direttiva, la realizzazione degli obiettivi prescritti da quest’ultima.

 

5. Osservazioni conclusive

Concludendo, in un’epoca caratterizzata dalla produzione normativa sempre più alluvionale e inflazionata, sia a livello nazionale che europeo, l’avvento di una direttiva che si pone l’obiettivo di uniformare le legislazioni nazionali sul tema delle garanzie processuali penali non sembra, come da altri sostenuto, pleonastico, semmai necessario a consolidare le radici stesse dei principi dell’equo processo e della fiducia reciproca tra gli stati membri. In particolare, che l’Unione incida, nuovamente, sul principio della presunzione di innocenza e sul diritto a presenziare al processo dimostra che gli stessi sono principi irrinunciabili del giusto processo e la necessità di rafforzare la cultura democratica della giustizia penale comune.

 

*Avvocato del Foro di Vallo della Lucania, Specializzata nelle Professioni Legali e Perfezionata in “Diritto Europeo ed Ordinamento Italiano” presso l’Università degli Studi di

1. M. CHIAVARIO, Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale a livello europeo, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2005, fasc. 1, p. 974 ss.

2. Una prima apertura verso il riconoscimento di una siffatta competenza si è avuta con il Consiglio europeo di Tampere, che qualificò il reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni giudiziarie come fondamento della cooperazione giudiziaria nell’Unione in materia civile e anche penale, invitando le istituzioni a stabilire “norme minime che garantiscano un livello adeguato di assistenza giudiziaria nelle cause transnazionali in tutta l’Unione”. In seguito, si uniformò a tale Consiglio il Programma dell’Aja del 2004, secondo il quale il principio del reciproco riconoscimento presuppone che siano elaborate norme equivalenti in materia di diritti processuali nei procedimenti penali. La svolta decisiva è stata segnata dalla approvazione della decisione quadro del Consiglio 2002/584/GAI del 13 giugno sul mandato di arresto europeo, la quale ha favorito l’adozione di una serie di decisioni quadro nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale, volte a dare applicazione al principio del reciproco riconoscimento.

3. Lo precisa V. FAGGIANI, Le direttive sui diritti processuali. Verso un modello europeo di giustizia penale?, in

Freedom, Security & Justice, 2017, n.1, pp. 84 ss., reperibile all’indirizzo www.fsjeurostudies.eu.

4. Il quale è entrato in vigore l’1 dicembre 2009.

5. I quali disciplinano, rispettivamente, il diritto alla libertà e alla sicurezza, sancendo le condizioni che giustificano la privazione della libertà personale e il diritto ad un equo processo, cristallizzando, appunto, i diritti che devono essere riconosciuti e garantiti in seno al processo.

6. I quali, aprendo il Capo VI sulla Giustizia, si occupano, rispettivamente, del diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale e della presunzione di innocenza e dei diritti della difesa.

7. Come evidenzia D. FANCIULLO, La Direttiva sul rafforzamento di alcuni aspetti del principio della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, in Eurojus, www.eurojus.eu, 18.04.2016.

8. Il quale dispone: “La presente direttiva prende atto dei diversi livelli ed esigenze di tutela di alcuni aspetti della presunzione di innocenza con riferimento alle persone fisiche e giuridiche. Per quanto riguarda le persone fisiche, tale protezione rispecchia la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte di giustizia ha tuttavia riconosciuto che i diritti derivanti dalla presunzione di innocenza non sorgono in capo alle persone giuridiche allo stesso modo rispetto a quanto accade per le persone fisiche”.

9. Sulla regola dell’«oltre il ragionevole dubbio», formalizzata nell’art. 533 del codice di procedura penale, per effetto della L. 46/2006 (cd. Legge Pecorella), in modo da condizionare la pronunciabilità delle sentenze di condanna, si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 931 del 13 gennaio 2012. Detta regola impone di pronunciare condanna quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie in esame non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Viene così cristallizzato il principio di civiltà giuridica secondo cui deve pervenirsi ad una pronuncia di condanna solo quando si abbia la «certezza processuale» che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio.

10. La previsione, in realtà, manca di ogni riferimento concreto, laddove non stabilisce quali condizioni procedurali siano necessarie per dare corpo al principio stesso.

11. Si noti che la Relazione della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del 21 aprile 2015 aveva ideato un emendamento all’art.3, proponendone la seguente formulazione: “Gli stati membri assicurano che all’indagato o imputato sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia accertata la colpevolezza con sentenza definitiva, pronunciata conformemente alla legge in un processo nel quale egli abbia avuto tutte le salvaguardie necessarie per la sua difesa”.

12. P. PAULESU, La presunzione di innocenza tra realtà processuale e dinamiche extraprocessuali, in

Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Torino, 2008.

13. C. NUNZIATA, L’appello anglosassone in www.altalex.com.

14. Come sostiene D. SIRACUSANO, Elementi di diritto processuale penale, Milano, 2003.

15. Secondo i quali rispettivamente “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, cristallizzando il principio di uguaglianza e “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Tale comma implica non solo il diritto di ciascuno di non essere considerato tale, a tutela della sua onorabilità, reputazione ed integrità fisica (2, 3 Cost.; art. 3 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), ma anche il diritto a non vedersi inflitte sanzioni restrittive della libertà personale se non dopo la condanna definitiva. Nell’attuale codice di rito, più garantista del precedente, vi sono varie previsioni a tutela del principio in esame, tra le quali quelle che specificano i presupposti di applicazione delle misure cautelari (272 ss. c.p.p.).

16. La Corte ha avuto occasione di affermare (sia pure a fini diversi da quello che viene oggi in questione) che la disposizione dell’art. 27, secondo comma, Cost., nel dichiarare che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, vuol garantirgli la esclusione della presunzione di colpevolezza durante tutto lo svolgimento del rapporto processuale (sent. n. 107 del 1957; vedasi anche sent. n. 115 del 1964): la condizione giuridica di imputato - è stato osservato - si ricollega al processo, mentre la condizione giuridica di condannato, cioè di colpevole, segue il processo. E ciò, sia alla stregua del concetto stesso di colpevolezza (lato sensu), che per la dottrina generale del reato è comunemente intesa come presupposto indispensabile per l’applicazione della pena; sia in conformità alla espressione testuale usata dall’Assemblea costituente, che, nel contrasto delle opinioni, non ha sancito la presunzione di innocenza, ma, con l’emendare l’originaria proposta della I Sottocommissione, ha voluto presumibilmente asserire che durante il processo non esiste un colpevole, bensì soltanto un imputato. Sent. n. 124/1972.

17. I quali, rispettivamente, si occupano dei riferimenti in pubblico alla colpevolezza e alla presentazione degli indagati e degli imputati, prevedendo, specificamente, le condizioni per i riferimenti pubblici alla colpevolezza e le misure necessarie che gli Stati devono garantire per tutelare il presunto innocente e per garantire che l’indagato e l’imputato non appaiano in pubblico come colpevole.

18. Il quale dispone che gli Stati membri dovrebbero adottare le misure necessarie per garantire che, nel dialogare con i media, le autorità pubbliche non presentino gli indagati o imputati come colpevoli, fino a quando la loro colpevolezza non sia stata legalmente provata.

19. Secondo esso, l’onere di provare la colpevolezza degli indagati e imputati incombe alla pubblica accusa, fatti salvi l’eventuale obbligo per il giudice o il tribunale competente di ricercare le prove sia a carico sia a discarico e il diritto della difesa di produrre prove in conformità del diritto nazionale applicabile.

20. Alla  luce  del  quale,  al  termine  dell’acquisizione  delle  prove,  il   giudice   può   disporre   anche di   ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prove. Inoltre, il giudice può disporre a norma del comma 1 anche l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti  al  fascicolo  per  il  dibattimento  a  norma  degli  articoli 431, comma 2, e 493, comma 3. È una norma, questa, che mira a conciliare l’etica della presunzione di innocenza con l’impulso alla ricerca della verità.

21. Come evidenzia C. VALENTINI, La presunzione di innocenza nella Direttiva 216/343/UE: per aspera ad astra, in Processo penale e giustizia, 2016, n. 6, pp. 193 ss.

22. Secondo le cui disposizioni, il diritto al silenzio e il diritto di non incriminarsi devono essere garantiti ed assicurati agli indagati e agli imputati dagli Stati membri.

23. I quali riconoscono che “gli Stati membri dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di garantire che, quando gli indagati o imputati ricevono informazioni sui loro diritti a norma dell’articolo 3 della direttiva 2012/13/UE, siano informati anche in merito al diritto di non autoincriminarsi, come applicabile a norma del diritto nazionale conformemente alla presente direttiva” e che “Gli Stati membri dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di garantire che, quando gli indagati o imputati ricevono la comunicazione dei diritti a norma dell’articolo 4 della direttiva 2012/13/UE, tale comunicazione contenga anche informazioni in merito al diritto di non autoincriminarsi, come applicabile a norma del diritto nazionale conformemente alla presente direttiva.”

24. La norma è corposa e tutela gli indagati e gli imputati nel loro diritto di partecipare personalmente al processo, presenziandovi. Tuttavia, prescrive che gli Stati membri possono prevedere che un processo si concluda con una decisione di colpevolezza o di innocenza in assenza del soggetto imputato, a precise condizioni che, puntualmente, sono elencate.

25. Corte Cost., 20 luglio 1992, n. 340.

26. Corte Cost., 26 gennaio 2004, n. 39.

27.  Corte Cost., 14 febbraio 2013, n. 23.

28. Come esplicitamente si mette in risalto nel paragrafo introduttivo dell’art. 8 e nel considerando n. 33. La prima conseguenza che la direttiva trae da questa premessa (considerando n. 34) è che si dovrebbe sempre riconoscere all’imputato il diritto ad ottenere un differimento della celebrazione dell’udienza qualora lo stesso non vi possa partecipare «per ragioni che sfuggono» al suo controllo». A questa sollecitazione sembra già rispondere la disciplina italiana che riconosce all’imputato la possibilità di ottenere un differimento del processo quando abbia un legittimo impedimento, cfr. tra gli altri art. 420 ter cpp. In ordine a questa disciplina è opportuna una sola precisazione. Nella direttiva non viene individuata alcuna eccezione a questo diritto al differimento del processo che dunque va garantito al di là del tipo di udienza: pubblica o camerale. Della possibilità di operare una tale distinzione, al fine di dar corso al rinvio non vi è traccia, neppure indiretta, nella direttiva, la quale individua un unico limite alla possibilità di intervenire al proprio giudizio. Come si legge nel considerando 41 «il diritto di presenziare al processo non si applica se le norme procedurali nazionali applicabili non prevedono alcuna udienza»

29. Come previsto dal considerandum n. 39.

30. Come prescrive il considerandum n. 36.

31. I quali disciplinano, rispettivamente, il diritto ad un nuovo processo e i mezzi di ricorso.

32. La norma de qua è l’art. 270, par. 2 del codice di procedura penale bulgaro (NPK). Essa stabilisce che, in merito a misure coercitive e al mutamento di circostanze, il Tribunale decide con ordinanza in pubblica udienza, senza compiere valutazioni sui motivi plausibili che lascino supporre la colpevolezza dell’imputato.