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Malattia professionale e nesso causale: equivalenza delle condizioni nella responsabilità civile

(Nota a Cassazione, ordinanza. n. 28454/2018)
Malattia professionale e nesso causale: equivalenza delle condizioni nella responsabilità civile
Malattia professionale e nesso causale: equivalenza delle condizioni nella responsabilità civile

La Cassazione, con la recente ordinanza n. 28454/2018 del 07/11/18, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Bologna (n. 1394/2013) che, conformemente a quella di primo grado, aveva escluso l’origine professionale del carcinoma alla laringe contratto da un lavoratore, deceduto in corso di causa, per essere stata giudicata la neoplasia riconducibile, in via esclusiva, a fattori extralavorativi (fumo ed assunzione di alcool) e, quindi, degradata a mera occasione l’esposizione all’amianto, al quale lo stesso era stato esposto (con intensità e tempi imprecisati) durante la sua pregressa vita lavorativa.

La Corte ha ritenuto fondato - sotto il profilo della violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 numero 3 e 5 del codice procedura civile - il motivo col quale gli eredi del danneggiato hanno dedotto violazione e falsa applicazione degli articoli 116 del codice di procedura civile, 41 del codice penale, 2697 codice civile. Questo lo stralcio significativo della (sintetica) motivazione:

“…questa Corte afferma, con consolidato orientamento (cfr., fra le altre, Cassazione numero 1770 del 2018; Cassazione numero 6105 del 2015; Cassazione numero 23990 del 2014), che in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, trova diretta applicazione la regola contenuta nell’articolo 41 codice penale, per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge. Il principio, da ribadirsi in questa sede, non è stato correttamente applicato dalla Corte d’Appello che non ha riconosciuto o escluso, in termini di certezza, l’efficacia concausale dell’esposizione all’amianto, pur dando atto nel provvedimento impugnato di un rischio derivante dall’esposizione medesima «che non può essere escluso» (cfr. pagina 6 sentenza impugnata) limitandosi a riportare dati statistici generali non adeguatamente calati e riferiti al caso concreto…”.

Nella fattispecie si trattava - per quanto è dato comprendere - di domanda di risarcimento danni, patrimoniali e non, avanzata dagli eredi, sia jure hereditatis del lavoratore deceduto, sia jure proprio. Quindi, verosimilmente, adducendo una responsabilità civile del datore sia contrattuale (verso il de cuius, ex articolo 2087 del codice civile), sia extra contrattuale (verso gli eredi, ex articolo 2043 del codice civile).

Il “nocciolo giuridico” della questione concerne la prova della causalità materiale nell’ambito della responsabilità civile, sia essa “contrattuale” o “aquiliana”.

È giurisprudenza ormai consolidata in materia che alla causalità della responsabilità civile debbano applicarsi i principi penalistici, di cui agli articoli 40 e 41 del codice penale (della condicio sine qua non temperato dalla causalità efficiente), per cui un evento è da considerare causato da un soggetto se lo stesso non si sarebbe verificato in assenza della condotta dell’agente, sempre che lo stesso evento non sia attribuibile esclusivamente a una causa sopravvenuta che, da sola, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto, renda irrilevanti le diverse cause preesistenti, interrompendone la loro normale progressione.

Gli stessi principi, nella responsabilità civile, valgono sia per il danno “commissivo” che per quello “omissivo”, nel quale il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto, dato dalla inesistenza del comportamento positivo viceversa prescritto da una norma (specifica o generica) che astrattamente tendeva a prevenire lo specifico rischio dell’evento, poi verificatosi. A questo proposito, pare opportuno ricordare che la responsabilità “omissiva” (o commissiva mediante omissione) postula la preventiva individuazione del “comportamento imposto” (che si assume omesso) in capo al soggetto ritenuto responsabile, comportamento che si connota come presupposto preliminare per l’apprezzamento della condotta omissiva sul piano della causalità; nel senso che, non è possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva.

Superfluo aggiungere che - come noto - l’accertamento del rapporto di causalità omissiva passa attraverso il cosiddetto giudizio "controfattuale" che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa (se ipoteticamente realizzata) avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.

Ribadito pertanto che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli articoli 40 e 41 del codice penale, può essere utile aggiungere qualche breve osservazione circa le differenti  “regole probatorie” che fondano la responsabilità penale rispetto a quella civile: nella prima vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cassazione Penale, Sezioni Unite, 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nella seconda quella del “più probabile che non”; differenza giustificata dalla diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti.

Infatti, nel processo civile la cosiddetta “certezza probabilistica” va verificata riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto. Tale certezza probabilistica - del cui percorso logico-giuridico il giudice deve dare conto nella motivazione - non può fondarsi esclusivamente (col superamento della mera percentuale matematica del 50%) sulla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), bensì deve verificarne il grado di fondatezza nel caso di specie, mediante la comparazione, con giudizio finale di prevalenza, degli elementi confermativi o alternativi (c.d. probabilità logica o baconiana).

In conclusione, nella responsabilità civile, sia aquiliana che contrattuale, sia commissiva che omissiva, il requisito “oggettivo” della “causalità materiale” deve essere valutato, caso per caso, ai sensi dell’articolo 41, comma 1, del codice penale (equivalenza delle concause nella causazione dell’evento), mitigato dal comma 2 (esistenza di altre cause sufficienti da sole a determinare l’evento), bilanciando i due commi con la regola del “più probabile che non”, nel senso che la causa sopravvenuta, se “probabilmente sufficiente” da sola, si porrà come “esclusiva” dell’evento, degradando le altre (solo) “possibili” a mere occasioni, con esclusione di responsabilità del primo agente. Ciò in quanto la regola del “più probabile non” riguarda il nesso di causalità nel suo complesso, piuttosto che le singole “cause” astrattamente efficienti rispetto alla determinazione di un dato evento.

Chiarisce puntualmente i termini della questione la Cassazione con sentenza n. 15991/2011 del 21/07/11: “Questa corte regolatrice ha difatti avuto modo di affermare (Cassazione 21619/07; Cassazione, Sezioni Unite, 576/2008 nonché, nella sostanza, Cassazione 4400/04) come la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato consenta - e addirittura imponga - l’adozione di un diverso criterio di analisi della causalità materiale, quello, cioè, della probabilità relativa, criterio altrimenti definito del "più probabile che non", rettamente inteso come analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo - nella sua dimensione di "unicità" non ripetibile), della singola vicenda di danno, della singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell’evento, tutte a loro volta permeate di una non ripetibile unicità (di talché la conseguente svalutazione della regola statistica e sovente di quella scientifica non appare un metagiuridico cedimento ad ideali aneliti riparatori cui dar respiro tout court in seno al processo, quanto piuttosto una attenta valorizzazione e valutazione della specificità del caso concreto, onde la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica non conduca ipso facto alla aberrante regola del 50% plus unum, bensì alla compiuta valutazione dell’evidenza del probabile (così, esemplificando, se, in tema di danni da trasfusione di sangue infetto, le possibili concause appaiono plurime e quantificabili in misura di dieci, ciascuna con un’incidenza probabilistica pari al 3%, mentre la trasfusione attinge al grado di probabilità pari al 40%, non per questo la domanda risarcitoria sarà per ciò solo rigettata - o geneticamente trasmutata in risarcimento da chance perduta -, dovendo viceversa il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento che trova la sua fonte nella disposizione di legge di cui all’articolo 116 del codice di procedura civile, valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all’esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili, pur nella non confortante consapevolezza della natura di malinconico ossimoro del sintagma "accertamento del nesso causale", la cui "incertezza" trova una assai felice rappresentazione nel verso virgiliano felix qui potuit rerum cognoscere causa ...)”.

In questo senso pare debba intendersi l’ordinanza qui in commento, che ha per oggetto il danno per responsabilità civile da malattia professionale (carcinoma alla laringe) assertivamente determinata da cause professionali (esposizione a rischio amianto) ed extra professionali (fumo ed assunzione di alcool), nella quale è - solo implicitamente presupposto ma non espressamente chiarito - il fatto che nell’accertamento del nesso causale finalizzato al risarcimento dei danni alla persona vanno tenute distinte e singolarmente valutate la causalità “generale”, quella “individuale” o del singolo caso, quindi, la “imputazione” e, infine, la “quantificazione” dell’eventuale danno conseguente.

In estrema sintesi, il giudizio dovrebbe concernere:

  • La causalità generale sta ad indicare la capacità ipotetica di una sostanza a provocare malattie generando un rischio che incombe su gruppi di persone esposte e si fonda su un giudizio di probabilità scientifica ex ante, proprio della medicina legale, basato su un concetto di causa che (se non autonomo) è certamente diverso rispetto a quello richiesto dal diritto penale e civile.
  • La causalità individuale, deve accertare in concreto (anche con l’ausilio del predetto giudizio di probabilità scientifica) il nesso di condizionamento tra effettiva esposizione a rischio e singolo evento lesivo.

Quando è stata ritenuta l’eziologia tra condotta ed evento, (causalità materiale), l’indagine giudiziale deve proseguire per accertarne una seconda, tra evento e danno (causalità giuridica).

  • L’imputazione, qui intesa come criterio di collegamento tra l’evento dannoso e il sua fatto generatore – sul presupposto che l’evento deve sempre essere materialmente riconducibile alla condotta dell’agente, direttamente (articolo 2043 del codice civile), indirettamente (articolo 2049 del codice civile), od oggettivamente (articolo 2050 e seguenti del codice civile), non potendo lo stesso essere ritenuto responsabile  rispetto ad un evento che non è ad esso riconducibile - deve accertare, in concreto, altri due aspetti: se il danno sia addebitabile alla responsabilità dell’agente stesso per dolo, colpa (soggettiva), o per altra disposizione di legge (oggettiva).
  • La liquidazione, solo all’esito di un giudizio positivo sull’esistenza della causalità (oggettiva) tra condotta ed evento, dovrà valutare se esista un danno-conseguenza (an) e, nell’affermativa, fino a che limite (quantum) esista un rapporto ragionevole di causa-effetto tra l’evento e il danno-conseguenza.

Quindi, per ritornare all’ordinanza in commento, pare di poter affermare che una cosa è la causalità “generale” (medico-legale) data dal fatto che l’esposizione significativa all’inalazione di fibre di amianto possa astrattamente causare il carcinoma alla laringe.

Altra cosa è la causalità “individuale” (legale) data dalla verifica della genesi del danno concreto di quel lavoratore: cioè se la malattia sia eziologicamente collegabile esclusivamente al rischio professionale del lavoro come effettivamente svolto (dell’esposizione all’amianto); ovvero esclusivamente a quello extra professionale (del fumo e alcool); ovvero a entrambi, qualora - con giudizio di comparazione complessiva degli elementi confermativi/alternativi -  non sia tecnicamente possibile escludere uno dei due fattori, ritenuti entrambi di probabile efficienza lesiva.